Interventi

Foto di Hans Braxmeier da Pixabay
 

  1. Pandemia

Covid-19: l’identificazione e la numerazione convenzionale degli scienziati sono arrivate in corso di pandemia. Quando già il nuovo tipo di coronavirus e i contagi e decessi stavano facendo il giro del mondo. La pandemia era annunciata (Organizzazione mondiale della sanità, 2019): non era questione del se, ma del quando sarebbe successo. Nulla però avevano fatto governi e istituzioni sovranazionali in attesa. Né l’opinione pubblica era stata allertata adeguatamente dai media tradizionali, mentre i social continuavano a rendere virale, piuttosto, le esternazioni di improbabili influencer, o a servire da strumento privilegiato di cinici promotori di campagne di odio, haters individuali e organizzazioni politiche bieche e pericolose.

Ennesima prova della totale impreparazione degli umani a far fronte a quel che si scatena sul pianeta, quando se ne alterano gli equilibri fondamentali. Sono molti decenni che la sistematica distruzione degli habitat naturali e i sistemi industriali di allevamento di carne da macello riversano sull’uomo virus che animali, selvatici o domestici, producono e trasmettono. Prima ancora, per le devastazioni prodotte da questa “civiltà” che altera le condizioni di vita sul pianeta (riscaldamento climatico, scioglimento ghiacciai, alluvioni e terre sommerse, desertificazione) a volte con attività propriamente criminali (deforestazione con incendi dolosi, cementificazione abusiva, inquinamento delle acque), per tutta queste devastazioni dunque molte specie di animali e piante si sono estinte o sono in estinzione. Ne capiamo la morale, o anzi la immoralità quando tocca alla decimazione degli umani.

La ricerca scientifica ancora non ha trovato vaccini né cure adeguate a queste mortali, improvvise crisi respiratorie. Se va bene, per gli uni e per le altre ci vorrà un anno, dicono i ricercatori. Ma non saranno cure di un mondo ammalato, saranno cure preventive o terapie di singoli malati. Nulla dice che il mondo stia cercando la strada di fuoriuscita dalla catastrofica corsa all’autodistruzione.

Saremo mai capaci tutti insieme di cambiare radicalmente? I modi di produrre, i modelli di consumi compulsivi e dissipativi, la organizzazione ormai mondiale del vivere umano imposta dal sistema capitalistico che porta l’economia a signoreggiare su tutto: saremo mai capaci di avviare un cambiamento radicale nell’ordine del mondo?

In pochi giorni in realtà una serrata riflessione critica e anche autocritica ha preso il sopravvento. Radio e televisioni, stampa, comunicazione molecolare dei social: è un flusso ormai dilagante di “nulla sarà come prima!” Ma c’è una ambiguità, l’avvertimento potrebbe essere solo un richiamo alla necessità di adeguamenti, ai necessari sacrifici, a non nutrire speranze impossibili. Nessuno dice chiaramente: nulla deve essere come prima.

È possibile che diventi universalmente egemone una cultura del cambiamento basata dai pensieri critici portati da questi venti di uragano? Essi si addensano attorno a due nodi, forza e consenso, aspetti inseparabili d’una medesima questione per il governo globale. Che forme può sviluppare la politica democratica a questo fine? Quale nuova politicizzazione si rende necessaria?

La pandemia infatti rende centrale, come mai prima, la questione dello sviluppo democratico. E rovescia dopo quarantacinque anni la dottrina-manifesto della “governabilità”, concepita nel 1975 dalle classi dirigenti dei paesi capitalistici più avanzati (Commissione Trilaterale tra Stati Uniti, Europa, Giappone), allorché fissarono l’idea che il male delle democrazie fosse la eccessiva apertura a domande popolari. Singolare contraddizione in termini! Era come se le classi dirigenti avessero dichiarato: la democrazia è un bene che non ci possiamo permettere. Non ci fu obiezione e contestazione radicale, anche forze di sinistra si misero sulla strada di questo ragionamento… Così da quasi mezzo secolo domina un pensiero “unico” neoliberista, sono stati smantellati sistemi di welfare state conquistati da dure lotte dei lavoratori, si sono imposte pratiche politiche dirette a legittimare governi “decisionisti” nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone. E all’esito di tutto questo: ingovernabilità assoluta e ovunque dell’economia e di ogni altro aspetto della vita sociale.

Cambiare si deve. Dinanzi alle catastrofi ricorrenti riportare a valore il bene primario della vita degli uomini è tutt’uno col ripensare ai modi in cui essi possano costituirsi in società. Di tutti e di ciascuno si ha bisogno per difendere la vita del pianeta. Non ci sarà lavoro, ricchezza, economie in crescita, se non si fa salva la vita umana sulla Terra. Non ci sono zone franche. La livella, di cui parlava Totò, rende uguali non solo gli uomini tra loro, ma appunto tutti gli Stati e tutti i paesi, quali ne siano la ricchezza o la potenza.

  1. Un colossale processo di apprendimento collettivo

Io credo che alcune condizioni, per rispondere agli interrogativi prima posti, si siano determinate con questa pandemia. È in corso un processo di apprendimento collettivo, obbligato certo, sterminato e rapidissimo. Ancor più di quello determinato dalle tragiche guerre mondiali del secolo scorso. Perché, a differenza di quelle, il coinvolgimento è veramente universale e immediato, senza alcuna possibilità che distanze nel tempo e nello spazio dei paesi aggrediti possano aver l’effetto di ridurre o ritardare per alcuni di essi l’impatto dell’aggressione ai propri cittadini. Le cose qui si rovesciano: si è scoperto che il distanziamento o riguarda non le nazioni ma le persone, e opera simultaneamente, o è inutile. Nessuno può sottrarvisi, la irresponsabilità di pochi potrebbe riaccendere focolai ovunque e per un periodo non controllabile.

Questo attuale apprendimento ha dunque carattere veramente universale, sia per l’ordine di coinvolgimento delle persone, sia per il nucleo di pensiero che impone: quello della responsabilità di tutti e di ciascuno verso i più elementari “diritti umani”. La rapidità della diffusione del contagio e l’estensione globale di esso, nel nostro tempo così ricco di mezzi di comunicazione e di pratiche informative, hanno fatto capire rapidamente e a fondo a ogni uomo e ogni donna su questa Terra non solo le caratteristiche del male che ci minaccia. Ma le sue origini nella storia di distruzione degli equilibri naturali, le responsabilità che lo hanno consentito, l’inadeguatezza della organizzazione pubblica per la protezione della società, le colpe di sottovalutazione o negazione del pericolo di tanti governanti. Così si è capito quanto siano necessari i saperi e le competenze. Colpevole è negare risorse e attenzione all’istruzione e alla ricerca. E non ha senso contestare ogni autorità, per un malinteso modo di intendere le libertà individuali. Anche i comportamenti dei singoli hanno infatti il loro peso sulla possibilità che certe soluzioni siano cercate non contro altri, ma per sé e per tutti, quindi insieme ad altri. Il battito d’ali di una farfalla (o di un pipistrello…) può provocare una catastrofe dall’altra parte del mondo: pochi conoscono la teoria del caos, ma tutti cominciano a registrarne la evidenza.

Così, comuni individui in numero di miliardi hanno acquisito nozioni scientifiche cui non immaginavano neppure di dover accedere, informazioni in diretta su quanto avveniva altrove, e su quanto deciso in stanze del potere. Minuto per minuto, da fonti di informazione multiple e diversificate. Si è imparato a confrontare le notizie, a fidarsi di chi ha competenze specifiche, a difendersi da fake news. Tutti hanno cominciato a interrogarsi sui collegamenti tra eventi naturali e scelte economico-politiche, ma anche scelte e abitudini individuali. La comoda filosofia del potere, che si autoassolve invocando l’imprevedibilità delle emergenze catastrofiche è logora. Nessuno più l’accetta. Taluni pensano di coprirsi con l’additare un “capro espiatorio” (volta a volta i dirigenti comunisti cinesi, i runners dell’Occidente benestante ecc.). Ma sono sempre più quelli che spostano la questione su un terreno più articolato dalla ragione: cosa si sapeva, che responsabilità ci sono state, quali gli errori involontari e quali le correzioni utili? cosa si deve ora fare?

Quando prevale il ricorso alla ragione in modo diffuso, il nodo della democrazia torna cruciale. Perché la democrazia è questo: non solo tener conto delle ragioni di tutti, ma fare concretamente appello alla ragione di tutti. Che si sviluppa in modo incrementale con coinvolgimento e integrazione progressiva delle risorse umane e delle forze sociali precedentemente escluse. È lo sguardo dal basso, dalle posizioni più esposte infatti, che consente di individuare quali traguardi debba raggiungere la qualità dei sistemi di governo.

Ecco perché credo che le condizioni culturali di base per la formazione di un’altra umanità si stiano ponendo. Anzi, per la prima volta, la parola umanità può designare una sterminata comunità concreta di persone: non è immaginazione di un sospirato e fantomatico soggetto collettivo, cui ricondurre ordine e governo del mondo. È soggettività e conoscenza critica di miliardi di persone che qui e ora si stanno interrogando su come agire per beni comuni. Umanità così non è più parola di una mancanza, di una assenza: stiamo registrando un inizio di presenza, un processo di formazione universale e contestuale di pensiero critico. Questa molteplice e sterminata soggettività in fieri dovrà produrre visioni, progetti, programmi comuni. Ma intanto è processo già in atto. Non solo pensieri di élite, non solo saperi di studiosi isolati, non programmi di avanguardie: ma pensieri di gente comune pensati allo stesso tempo e per convergenza con altri. Non contro altri, come invece nel Novecento Schmitt ci ha spiegato che dovesse essere la politica. Questa terribile esperienza fa nascere in tutti e in ciascuno qualcosa di nuovo. Sarà possibile che un’altra politica prenda forma?

  1. Il regime dell’apprendimento

Non dico che le democrazie fin qui realizzate possano dare risposte a problemi di questo ordine. Ma che solo uno sviluppo delle forme politiche e istituzionali organizzate democraticamente è compatibile con le istanze di ragionevolezza e coerenza dell’agire individuale e collettivo, che il colossale sforzo universale di apprendimento reca con sé. La questione investe certo i regimi dispotici, ma le democrazie occidentali del Novecento non possono sottrarvisi. Per tenere insieme le due facce inseparabili del problema del governo politico – forza e consenso, abbiamo detto prima – si devono trovare infatti soluzioni non contraddittorie alla concatenata serie di problemi, che la crisi pandemica ha messo in luce: problemi del sapere, dell’economia, della politica, dei compiti irrinunciabili della protezione pubblica e del regime individuale delle libertà. Il principio di non contraddizione deve regolare sfera pubblica e sfera privata, una razionalità superiore nei sistemi deve essere raggiunta. Possiamo dire che la costituzione politica del mondo debba procedere a decisi passi di avanzamento.

La mossa umana fondamentale che ha dato origine alle costituzioni contemporanee e alla stessa organizzazione delle Nazioni Unite nel Novecento è stata sempre quella del deciso rifiuto dei mali e degli errori di cui i popoli hanno fatto esperienza. Si impara per negazione. Mai più poteri arbitrari, mai più la dittatura, mai più la guerra. Si direbbe che l’umanità non si sottragga alla necessità naturale della evoluzione delle specie viventi, e che lo faccia nel solo modo dato a questa specie vivente: con l’uso della ragione seleziona e esclude le condizioni che sono contrarie al bene comune e alla sopravvivenza. Tra gli uomini questo avviene con l’apprendimento e la condivisione popolare. La forza di un apprendimento è tanto maggiore, quanto più diffuso esso sia nel popolo tutto. Fino a quando sia possibile istituire un patto tra tutti e per tutti fondato su quell’apprendimento. Sono nate così le costituzioni politiche democratiche: dopo tragedie, sangue e terrore, guerre.

Ecco perché la democrazia appare il regime più idoneo a valorizzare apprendimenti e potenziare l’elemento consenso. Esso dà ai poteri pubblici quella forza, che la sola costrizione e la repressione non possono dare. Per gli avanzamenti, dopo la negazione, si apre la strada a una ricerca collettiva. Si progredisce tutti con le movenze tipiche della formazione di conoscenze empiriche: per prova ed errore. Quindi illuminati dalla intelligenza, consapevoli come Socrate di non sapere mai abbastanza.

Tra le tante definizioni di democrazia, offerte dagli studiosi, è qui pertinente e suggestiva quella che riconosce in essa un “regime dell’apprendimento”. Un regime cioè che consente di procedere sulla base di esperienze unificanti e non su arbitrii di pochi. Anche per questo tale regime appare strategicamente consono alla necessità dei cambiamenti. Gli studiosi che hanno usato questa espressione hanno fatto riferimento soprattutto al fatto che gli indirizzi basati su quel che tutto un popolo rifiuta (“mai più certi errori, certe sofferenze”) fanno della memoria collettiva e dell’esperienza concreta di massa le basi costitutive di un’altra politica. In altre parole si vuol dire che la scelta democratica è essa stessa frutto di una maturazione collettiva dopo mali e esperienze negative di tutto un popolo.

Noi siamo in questa condizione, ma l’apprendimento è planetario, costituisce una umanità consapevole dei mali comuni.

C’è poi un ulteriore significato della pregnante definizione che stiamo accogliendo: essa contiene la consapevolezza che la forma dialogica e il coinvolgimento largo dei confronti democratici offrono il solo modo razionale di produrre i cambiamenti via via necessari. La scienza è chiamata a dare il suo contributo, a politici e comuni cittadini non è dato disconoscerne la necessità. La comunicazione istituzionale deve essere continua, non deve trasmettere solo comandi ma spiegarne le ragioni, assumere quella funzione essenziale che serve a guidare la formazione dell’opinione pubblica. E l’informazione, tanto quella istituzionale che quella che corre nei social, deve essere corretta, deve cioè rispondere a conoscenze verificate.

La lotta alle fake news è divenuta, finalmente, elemento costitutivo di ben altra affidabilità nella sfera pubblica e nelle relazioni personali. Basta vedere come i toni dei social siano cambiati, come buona parte di quel che ora circola siano dossier e link, informazione scientifica, segnalazione di temi su cui discutere. Colpisce che ora tanti tengano a mettere in circolo riflessioni su “quel che abbiamo imparato”.

Nel cambiamento di rotta hanno un ruolo determinante i media tradizionali, stampa e televisioni: sono state aperte rubriche permanenti per il controllo delle false notizie, e anche il servizio pubblico televisivo, ad es. la Rai, manda in onda documentari sulle ragioni e le responsabilità dei disastri, che per “opportunità politica” precedentemente non aveva ripreso e circolavano solo su media di nicchia, prevalentemente legati a forze minoritarie di opposizione.

Sul diverso peso che deve avere la libertà di informazione per assicurare equilibrio democratico, emblematica è la decisione dei maggiori media americani di non pubblicare le esternazioni del presidente Trump se non dopo verifica che non contengano, appunto, fake news.

Linee di indirizzo, insomma, della comunicazione mondiale si stanno diffondendo sulla base di “spontanei” adeguamenti dei diversi soggetti in relazione tra loro. Questa è una importante specificazione dell’apprendimento necessario al “mondo che verrà”.

  1. L’ordine del giorno

Possiamo così riassumere i cardini fondamentali che si stanno mettendo in luce per una democrazia globale.

1) centralità della protezione della vita umana, quindi necessarietà in tutti i paesi di apparati pubblici a protezione innanzitutto dell’ambiente e della salute delle persone, e di esplicite priorità nei bilanci;

2) riconduzione delle economie al governo politico democratico, e per questo rafforzamento dei canali di manifestazione dei bisogni popolari;

3) riaffermare la libertà di dare informazioni, e in particolare la funzione dei media di controllo pubblico sui poteri, attraverso la verifica dei canoni di correttezza trasparenza e responsabilità, cui si attengono;

4) allargare e rafforzare poteri diffusi di indirizzo dei governi attraverso il pieno riconoscimento del ruolo autonomo e essenziale del civismo dei cittadini: quello che si è visto con la dedizione delle categorie preposte alla sanità e ai servizi essenziali va ben aldilà degli stretti doveri professionali, e l’accettazione superiore al 90% delle restrizioni necessarie per il “distanziamento sociale” dice che c’è un enorme potenziale di cittadinanza attiva e responsabile, che la politica deve saper raccogliere. Le politiche pubbliche devono ancorarsi alle capacità diffuse di operare per la tutela dei diritti universali, per il sostegno dei più deboli, per la cura dei beni comuni;

5) assicurare alle istituzioni un più forte bilanciamento tra pesi e contrappesi, al fine di limitare gli arbitri politici, rafforzare la partecipazione civile, assicurare la garanzia giuridica.

Naturalmente tutto questo potrà svilupparsi solo nel contesto di cambiamento di quella che in questi anni è stata la geopolitica. Deve riprendere il cammino interrotto di costruzione di un governo mondiale, attraverso il ripudio delle guerre e l’accentramento unitario di forza ai soli fini di pace e ordine globale, di cui l’ONU volle essere embrione. Le diplomazie degli aiuti umanitari e le “missioni sanitarie” che si sono viste in questi primi mesi del 2020 hanno avuto tra i protagonisti paesi che l’Occidente aveva considerato nemici nella Guerra Fredda (Cina, Russia, Cuba, Albania). È evidente che anche nella sfera delle relazioni internazionali sta intervenendo un cambiamento, dettato dalle comuni ragioni di difesa da catastrofi che ormai nessun confine può separare.

Constatare che tutto un nuovo ordine di problemi si addensa qui e ora, per far fronte ai disastri della globalizzazione capitalistica, ci chiama a pensare come possa affermarsi un nuovo umanesimo.

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3 commenti a “2020: un nuovo umanesimo”

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