Interventi

Nell’epoca della post-verità, quando tutto diventa dicibile senza che debba essere vero ma soltanto verosimile, è difficile trovare la misura giusta della reazione a quello striscione milanese, o a quel post pasquale del ministro dell’interno con il mitra in mano. Come direbbero a Roma: ci sono o ci fanno? Provocano e basta, o testano con varie tecniche di comunicazione, dal post allo striscione, fino a dove possono spingersi nei fatti? Sottotitoli di una domanda che dal 4 marzo 2018 in poi aleggia irrisolta nel campo degli sconfitti: l’evocazione ammiccante – e adesso anche spudoratamente apologetica – del fascismo è solo una farsa o è il segnale di un rischio reale di ritorno di fascismo, per quanto in forme diverse da quelle del fascismo storico?

A me pare una domanda mal posta. Il problema non è quello di un ritorno a venire del fascismo-regime, bensì quello di uno spostamento già avvenuto nel regime del dicibile. Non è se Salvini passerà all’atto nell’uso di quel mitra, è che un ministro dell’interno, detentore ufficiale del monopolio statale della violenza, posti quella foto di instigazione all’uso di parte della violenza senza essere sollevato dal suo incarico. Non è se quello striscione di Piazzale Loreto possa fare proseliti, è che possa venire innalzato impunemente in nome – suppongo – di una libertà di opinione incurante del reato di apologia del fascismo. Il problema, insomma, non è scongiurare l’avvento di un ordine politico autoritario, ma combattere contro uno sfondamento già avvenuto nell’ordine simbolico.

Questo sfondamento ha una storia molto lunga. Se oggi il ministro dell’interno può impunemente denigrare il 25 aprile trattandolo alla stregua di un derby fra due ideologie decadute, è perché ad autorizzarlo ci sono quarant’anni in cui la talpa della riabilitazione del fascismo ha scavato con continuità e tenacia. Si cominciò negli anni Ottanta, con le mostre craxiane di rivalutazione della “modernità” del regime sulla scia della storiografia defeliciana. E si è proseguito senza sosta dal ’94 in poi, da quando cioè la destra tricipite – Forza Italia, Lega, Alleanza nazionale – aggregata da Berlusconi ha costantemente lavorato, al di là delle sue differenze interne, alla costruzione di una cultura politica sostitutiva della matrice antifascista da cui erano nate la Repubblica e la Costituzione. Una cultura che sotto le maschere unitarie della Nazione e del Popolo, e sotto la bandiera del superamento delle ideologie novecentesche, mirava a destituire la discriminante antifascista su cui si basa la Costituzione accusandola di essere “divisiva”, come non cessano di predicare tutt’ora i denigratori del 25 aprile: bastava leggere sui giornali di ieri i vari Sallusti, Veneziani, Feltri.

È ora di rivendicare senza complessi quella divisività. È vero, la liberazione divise il popolo italiano, per riunificarlo sotto valori alternativi a quelli del ventennio fascista. Che torni a dividerlo anche oggi non è detto che sia un male: ci sono momenti in cui è bene sapere da che parte si sta, e da che parte non si sta. Sono i momenti in cui i miti fondativi riacquistano il valore di un orientamento simbolico. Niente di meno e niente di più di quello di cui abbiamo bisogno.

Articolo pubblicato il 25 aprile 2019 sul suo blog

Un commento a “Elogio di una data divisiva”

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