Ora, a un secolo di distanza, andrebbe tratto qualche insegnamento da quell’esperienza. Soprattutto dovrebbe trarlo chi, come noi, si trova di fronte agli stessi dilemmi della democrazia americana di fine Ottocento. Perché, pur in un’epoca così diversa, l’Europa si ritrova oggi ad affrontare le sfide che scaturiscono dal declino della democrazia dei partiti. Forse è già troppo tardi. Stiamo assistendo già da tempo a processi di smobilitazione dell’elettorato di massa, al rafforzamento e alla presidenzializzazione degli esecutivi, allo sviluppo della personalizzazione e delle elezioni candidate-centered, alla pressione politica degli interessi organizzati e alle influenze più o meno ovattate dei media.
Non si sono fatte attendere le esplosioni populiste e i sentimenti anti-partitici, che segnalano le inquietudini crescenti verso il funzionamento della democrazia tradizionale. Così dalle ondate di protesta e di disaffezione esce ogni volta rinvigorita, negli atteggiamenti e nelle aspettative politiche dei cittadini, l’ideologia direttista. Perciò si fa forte la tentazione di cavalcare quest’ideologia da parte di attori politici che non riescono più a credere in se stessi, nella propria funzione e nella propria identità. E, al solito, la tentazione tocca soprattutto le sinistre.
E’ in questo quadro che si affacciano per la prima volta sulla scena europea e italiana meccanismi come le elezioni primarie. Per ora si tratta ancora di esperimenti frammentari e molto distanti dal modello originario. Ma, ormai lo sappiamo, la caratteristica del meccanismo è quella di autoalimentarsi, di tendere a estendersi e a intensificarsi. Infatti, le analogie con la vicenda americana che ho cercato di ricostruire in questo libro, fornendone anche una parziale ma significativa documentazione, sono già numerose e davvero impressionanti. Ne indico solo due, che dovrebbero dare il senso di quale sia la strada su cui ci stiamo incamminando. Una riguarda la retorica che si accompagna con la proposta: mi riferisco in particolare alla frottola secondo cui le primarie servirebbero a incrementare la partecipazione, a riavvicinare cittadini e potere e a realizzare una forma di democrazia diretta. A quanto pare, nell’ansia di cogliere l’immagine di «modernità» evocata dallo strumento, nessuno si pone il problema di capire se è davvero possibile che la partecipazione e l’influenza dei cittadini al processo di governo possa fare a meno di strutture collettive di rappresentanza che — invece di invocare l’improbabile protagonismo degli individui isolati immaginati dalla filosofia liberale — dia loro forme stabili di identificazione politica e li mobiliti, sapendone interpretare interessi, bisogni e culture. E nessuno si chiede se, in mancanza di queste strutture, non avverrà piuttosto che, da una parte, entrino direttamente nel gioco politico attori e interessi che nessuno sarà poi in grado di contrastare e che, dall’altra, molti cittadini privi di strumenti per farsi valere preferiscano alla fine restarsene a casa.
L’altra analogia con l’esperienza americana riguarda il ruolo «coercitivo» che svolgono in questa circostanza le convenienze contingenti e la competizione politica. Tutte le volte che nei sistemi partitici europei si è fatto ricorso alle primarie — per quanto «chiuse» — ciò è avvenuto per risolvere controversie più o meno manifeste sulle candidature all’interno di un partito o, come nel caso dell’Italia, all’interno di un’alleanza elettorale. Anche negli episodi in cui si è trattato di un tentativo di procurare un maggior grado di legittimazione a un candidato di fatto già pre-selezionato, di solito esisteva un conflitto potenziale da prevenire. In ogni caso, il ricorso alla procedura di selezione diretta da parte degli iscritti o degli elettori era sempre l’indicatore di una destrutturazione del partito o di una crisi di legittimazione dell’élite partitica in atto.
Ecco che allora in questo quadro, pur di risolvere i contrasti, l’élite partitica si rende pragmaticamente disponibile a rinunciare alla propria prerogativa più preziosa, essendo convinta di poter governare la procedura e le sue possibili conseguenze. Ma non si pone affatto il problema di fronteggiare direttamente le cause che sono alla base dell’emergenza stessa. Con il risultato che non solo l’emergenza si ripresenterà ma che il malessere e le difficoltà del partito si aggraveranno sempre di più. Ponendo, insomma, le premesse del suo disfacimento.
Come sappiamo, è stato esattamente questo il destino finale a cui è andata incontro la democrazia americana in seguito alla scelta dissennata, di cui ci siamo occupati in questa ricostruzione, di annientare i partiti di massa e di inseguire il miraggio del direttismo. Non so fino a che punto i cittadini di oltreoceano ne siano veramente fieri e soddisfatti, anche se per molti aspetti il modo di funzionare della loro democrazia lascerebbe pensare che ad esso siano piuttosto rassegnati. Del resto, è da loro che ho sentito quella specie di proverbio che dice che puoi trasformare un acquario in una zuppa di pesce ma non puoi riottenere un acquario da una zuppa di pesce.
E’ vero, l’abbiamo visto: loro ce l’avevano l’«acquario» e di esso hanno fatto una «zuppa di pesce». Noi non so se ce l’abbiamo ancora un «acquario», né quanto sia ancora in salute, ma se così fosse dovremmo imparare a proteggere e curare i nostri «pesci» piuttosto che seguire in maniera insensata l’American way al… «pan bagnato».
Vai alla scheda del libro di Enrico Melchionda Alle origini delle primarie Democrazia e direttismo nell’America dell’età progressista
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