Ho letto sul manifesto che la FIAT di Mirafiori sta per chiedere l’introduzione del terzo turno sulla linea della FIAT B; anzi, quasi certamente, se ne parlerà nell’incontro con i sindacati previsto per questa settimana. Dunque: terzo turno di notte. Non so se a Torino le cose siano già a questo punto. Dico subito che il ragionamento che farò può essere prematuro; e in fondo, sapendone poco, farei meglio a tacere.
Eppure, leggendo la notizia, è scattata dentro di me una rabbia. Qualcosa di simile, come quando lessi del ricatto sul lavoro notturno fatto alle donne lucane per la fabbrica FIAT di Melfi. Adesso, la concessione strappata nel luogo della maggiore debolezza dove più forte era la sete di lavoro e di salario viene utilizzata per premere sul punto alto: nelle capitali industriali del Nord. Come sono bravi questi padroni! Come sono freddi. Come sanno fare i loro affari e dosare i colpi al punto giusto nel prendere alla gola: ora che la sete di lavoro e lo spettro della disoccupazione di massa dilagano fino alle città opulente del Settentrione.
Mi allarmo per il lavoro notturno. È vero: so che ora ci sono già tanti e diversi che lavorano sistematicamente la notte. Da ragazzo sapevo che il panettiere lavorava la notte; e anche la guardia notturna. E dal mio letto, nel mio paese natale, a volte sentivo prima dell’alba lo struscio delle cioce dei contadini sui selci, nell’avviarsi alla campagna. Quando ero giornalista all’Unità, per più di dieci anni ho lavorato di notte: allora il giornale si chiudeva verso le cinque del mattino; e molto spesso rientravo a casa all’alba, o a notte profonda. Ma sapevo anche che il mio – come dire? – era un lavoro strano; e che gli altri dormivano. E del resto non so proprio dire se è peggio o è meglio lavorare sempre e solo di notte, oppure l’alternanza del «terzo turno», che frantuma ritmi cruciali del ciclo vitale.
Spesso si viaggia di notte. Ma nel dormiveglia, appunto, le cose ci appaiono stralunate: un buio rotto da luci che fuggono, a segnalazione della nostra condizione particolare. Da giovane ho fatto le nottate (si diceva così) per prepararmi agli esami, oppure quando qualche persona cara era malata. Ma sapevo che queste erano cose «abnormi». E poi studiare, la notte, è un’altra cosa. O anche stare insonni a letto. O anche svegliarsi e non riaddormentarsi; o leggere un libro di notte. È sempre uno stare con sé: un ritorno dentro di sé. La notte è il sonno, il sogno, il riposo che è anche abbandonarsi al nostro profondo; il fantasticare; il buio che accende altre luci; è l’intimità della passione, quando – nel distacco dalla fatica quotidiana – i corpi che si amano possono stringersi l’uno all’altro. La notte è anche veglia.
Ma la veglia e il lavoro nel reparto dove si fanno le Tipo, sono un uscire da sé; per calarsi in un’opera decisa da altri e integrarsi nella logica della macchina. È l’oggetto che prende l’operaio e l’adatta a sé, e tende continuamente a modulare l’operaio secondo la sua attuale «ragione» flessibile. È come una nuova precarietà dell’operaio: non solo a motivo dell’incertezza del suo rapporto di lavoro, ma come nuovo colpo alla intoccabilità di alcune sfere sue proprie: una invasione di campo che si allarga.
La notte è il silenzio. È vero: si avvertono rumori, fischi lontani, voci brevi, e nelle città come un rombo di fondo. Ma sono suoni che stanno dentro un silenzio.
Chi può dire che il silenzio è un vuoto? Abbiamo bisogno del silenzio perché nasca la parola: quel raccogliersi dentro che è anche un ascoltare. Può darsi che non voli una mosca nel reparto dove si costruisce la Tipo. Ma non è il silenzio di cui stiamo ragionando: perché l’operaio è proiettato fuori di sé, nella logica di quel fare specifico, che è proprio di quella organizzazione macchinale.
Ho letto sul manifesto che un operaio della FIAT Mirafiori, alla domanda se era disposto ad accettare il turno di notte ha risposto: «Dipende quali sono le condizioni. Io guadagno 1.400 mila lire al mese: se faccio la notte quali contropartite mi da la FIAT»? Può essere che sia questa la risposta da dare. E poi l’operaio potrebbe dirmi: che vuoi da me se mi hai lasciato solo?
Può darsi. E tuttavia la questione mi sembra di una simbolicità agghiacciante. Sento che entra in discussione un tema delicatissimo. Dubito che la cosa possa essere misurata solo e soprattutto in termini di salario o di contrattazione quantitativa. Entrano in campo soglie, zone cruciali della vita, che non si possono calcolare in ore in più o in meno. Ho resistito dentro di me – e nel dibattito con gli altri – a quelle posizioni culturali e politiche, che possono oscurare ciò che a noi moderni ha dato lo sviluppo straordinario della razionalità tecnologica del nostro tempo, con le sue sconvolgenti innovazioni. Non mi piacerebbe, quando sto male in salute, se mi venissero a mancare gli strumenti che consentono di vedere, al millesimo, ciò che succede nel mio ventre, nel mio cuore, nel mio cervello (anche se la malattia mi appare una cosa più complicata). Non mi piacerebbe vedere accorciata la vita degli esseri umani, con un cammino a ritroso. Non mi piacerebbe tornare alla pellagra, alle carestie; e impallidisco quando vedo il volto dei bambini (occhi che guardano quasi da scheletri) colpiti dalla fame nel cuore dell’Africa.
E mi piace molto potere andare in poche ore in America e in Asia; e anche che siamo stati capaci di atterrare sulla luna. Ma dobbiamo vedere bene sarà raggiunta, se questa rivendicazione non verrà collegata quale scambio (per stare nel linguaggio dell’epoca). Perché ciò che sta entrando in gioco è enorme; e riguarda beni essenziali quanto il pane. Non sto alludendo soltanto al disastro ecologico, cioè ad una minaccia in atto alle condizioni «fisiche» della nostra esistenza; che pure è problema grave. Parlo di altri beni che sono necessari alla nostra esistenza quanto il mangiare: affettività, immaginazione, comunicazione simbolica, linguaggi che vanno oltre la «ragione strumentale». Discutiamo se e quanto questi beni sono indispensabili alla vita dei moderni; e quale è il prezzo che si paga (stiamo pure a questo vocabolario) quando essi vanno perduti. Non si tratta di sfere separate: anzi, nel caso del lavoro notturno, vediamo che l’una invade di prepotenza le altre: le assorbe, le stravolge. E allora non è il caso di rifare i conti, ammesso e non concesso che certe perdite siano misurabili? So che alcuni a Torino dicono: contrattiamo l’accettazione del terzo turno in cambio di una riduzione dell’orario di lavoro. Mettiamo pure che vada così, e che la FIAT ci stia. Dubito che questo risarcirà la rottura del ritmo vitale. E soprattutto penso che una sostanziale riduzione dell’orario di lavoro non sarà raggiunta, se questa rivendicazione non verrà collegata assai più nettamente ad una esaltazione del valore del tempo di vita, non solo come tempo della cura, ma anche io dico – polemicamente – come ozio, nel significato più intenso di questo termine (non dicevano i poeti che la domenica è fatta per pregare?).
So che l’uso di questa parola può apparire, in questo momento, ridicolo. Ma non dobbiamo avere paura di apparire (a taluni) ridicoli, perché la sfida in cui siamo oggi coinvolti è giunta a questi livelli.
Può apparire assurdo un discorso del genere quando centinaia di migliaia di lavoratori e di lavoratori, nella sola Italia, invocano oggi disperatamente di lavorare, mentre altri da altri continenti bussano alle porte: so che essi vedono nella perdita del posto di lavoro non solo un colpo pesante al loro reddito, ma un crollo della loro identità. E il paese stesso teme una grave retrocessione nella gerarchia delle nazioni capaci di reggere ad una competizione produttiva che è divenuta mondiale.
Ma la questione è grande e attuale proprio perché siamo arrivati ad un tale punto, e la stretta è giunta a toccare tali nodi. E questo è ancora più vero se questi problemi hanno raggiunto – come dire? – una loro oggettività. Insomma: quanto più una mossa come quella della FIAT non sia dovuta solo ad una prepotenza di quel padrone; quanto più essa venga presentata come obbligata e «razionale»; tanto più la questione diventa grave e simbolica. Ci sono oggi, a sinistra, voci che sollevano il problema dei rapporti tra rendita finanziaria e mondo della produzione; ed è una questione reale. Ma la giusta lotta alle manovre ed ai privilegi della rendita finanziaria cancella forse il tema, attuale e stringente, delle nuove soglie a cui sta giungendo questa pratica del produrre, e delle conseguenze che ne derivano circa la scala dei beni?
Esistono non solo squilibri tra le monete, e tra la moneta e il produrre. Si stanno determinando terremoti nella relazione tra ambiti vitali, nell’equilibrio tra il «fare produttivo» e un altro «fare», che è anch’esso costitutivo della vita umana.
È strano che di questi squilibri sconvolgenti (da dove sgorga la violenza su cui si versano tante lacrime?) parli anche il Papa romano, e non la sinistra. Naturalmente è significativo anche che ministri della Chiesa romana gridino oggi contro il diritto della donna di essere libera nella sua decisione di concepire; e invece siano rimasti in prevalenza muti quando alle donne di Melfi è stata posta quella scelta ricattatoria tra intimità della vita e lavoro.
Vai alla scheda del volume “La Tipo e la Notte”.
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Nome *
Email *
Sito web
Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.