Signor Brok, lei ha collaborato alla stesura del primo trattato del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). Sa che il suo ultimo progetto di modifica è stato a lungo al centro del dibattito politico e ha sollevato molte critiche.
Secondo la sua opinione, in che aspetto il MES è insufficiente o sbagliato, e, dall’altro lato, in che maniere crede possa essere utile all’UE?
In primo luogo, dobbiamo dire che il MES ha raggiunto i suoi obiettivi iniziali: superare la crisi. È stato dunque relativamente utile. Vediamo come i paesi che hanno partecipato al suo programma stiano ripagando il debito. Nessuno di loro è andato in bancarotta. E credo che questo sia un segnale di credibilità del meccanismo.
Ma, credo, inoltre, che dovrebbe essere modificato in un meccanismo che funzioni “a priori”. Finora è stato utilizzato solo per risolvere le crisi, mentre dovrebbe essere in grado anche di prevenirle. Seguendo la proposta di Macron, l’ECOFIN è sulla strada per trovare una soluzione in questo senso, quindi dobbiamo spingere con più forza in questa direzione di quanto non si sia fatto finora.
Sarebbe saggio prevenire le crisi, che è inoltre meno costoso di risolverle.
Le condizioni dovrebbero essere messe in chiaro, e così il MES potrebbe essere utilizzato anche per affrontare la crisi economica generata dal coronavirus.
Ancora a proposito dei progetti di riforma istituzionale, lei insieme a Roberto Gualtieri, il nostro attuale Ministro dell’Economia, ha chiesto di concedere al Parlamento Europeo maggiore influenza rispetto al servizio diplomatico dell’UE. Come si è evoluto il SEAE (Servizio Europeo per l’Azione Esterna) in questi anni e come può essere implementato?
In primis, considerando ciò che stabilisce il Trattato di Lisbona, possiamo vedere come il SEAE non sia ancora pienamente attivo, dato che i due Alti Rappresentanti (PESC), che abbiamo avuto fino a questo momento, non hanno fatto uso di tutti gli strumenti già previsti. Tra l’altro, ancora troppi diplomatici nazionali giocano un ruolo importante all’interno del SEAE, il che contribuisce ad acuire la divisione tra i servizi diplomatici europei e quelli dei singoli Stati. Per creare maggiore unità e sinergia, i diplomatici dei vari paesi dovrebbero essere istruiti e fare pratica insieme.
In aggiunta, penso che gli Alti Rappresentanti dovrebbero adoperare maggiormente le possibilità di votare a maggioranza, che sono già previste e utilizzabili (ad esempio per alcune decisioni del Consiglio Europeo) per promuovere progetti più ambiziosi, sostenuti dalla maggior parte dei paesi dell’Unione.
Credo sia necessario guardare in questa direzione per rafforzare il ruolo della SEAE.
Proprio a proposito della politica estera dell’UE, abbiamo già detto che gli Stati europei dovrebbero avere una voce unica. È chiaro che al momento essi non hanno una posizione incisiva e indipendente sulla gran parte delle vicende più rilevanti.
L’Europa sembra generalmente seguire la linea dettata dagli USA, anche se in alcuni casi prova a smarcarsi dalle decisioni troppo estreme di Trump, come nel caso dell’Accordo sul clima di Parigi, la vicenda del Rojava o quella dei dazi. I paesi europei sono addirittura in competizione fra loro, come nel caso della Libia, e appaiono spesso come inaffidabili agli occhi dell’opinione pubblica.
L’UE sembra apparire al contempo debole e ostile nei confronti della Russia, incerta con la Cina e fin troppo accondiscendente con gli USA. Come crede che la politica estera europea possa diventare più coerente e indipendente? La creazione di una difesa militare comune europea, come ha spesso promosso Macron, potrebbe essere d’aiuto in tal senso?
Credo che la forza militare sia un elemento necessario. L’UE è molto forte nel “soft power”: il 60% di tutto l’aiuto umanitario e alla sviluppo è finanziato dall’Unione e dai suoi stati membri. Ma la sua influenza politica, se si guarda ad esempio alla Siria, è quasi nulla a volte. La ragione è che non ha adeguate capacità militari.
I paesi europei spendono per la difesa circa 240 miliardi all’anno, molto più della Russia. Ma è ridicolo, perché ogni paese produce le sue munizioni! Dobbiamo utilizzare molto meglio le risorse economiche dedicate se vogliamo ottenere un effetto sinergico. Per questo, credo che il dibattito circa il 2% del PIL per la NATO sia errato, perché finché non avremo sinergia fra i paesi europei, stiamo solo seguendo la strada sbagliata.
Ora siamo in un momento favorevole: Ursula Von der Leyen sta lavorando tramite la Commissione Europea per creare “un’Europa più forte nel mondo”. Un piano ambizioso che include la volontà di sviluppare una reale sinergia, specialmente sul fronte industriale della difesa1. È indispensabile aumentare l’“hard power” dell’Europa, accanto al suo “soft power”. E dobbiamo farlo. inoltre, perché non possiamo più credere che in ogni circostanza gli USA ci difenderanno e proteggeranno i nostri interessi. Dobbiamo contare sulle nostre capacità e possibilità.
Tuttavia, anche se gli Stati europei e gli USA di Trump hanno spesso opinioni differenti (come è possibile rilevare dalle votazioni all’Assemblea generale dell’ONU), sicuramente, in un momento in cui si necessiti una difesa collettiva, l’Europa è ancora NATO. Tutto ciò che di meglio possiamo fare è complementare alla NATO, non al posto della NATO.
Tornando sulla questione del rinnovamento delle istituzioni europee, Emmanuel Macron e Angela Merkel avevano proposto una “Conferenza intergovernamentale sul futuro dell’Europa”; un’opportunità per discutere le riforme democratiche e definire la posizione dell’UE nel mondo.
Crede che questa conferenza avrà luogo? E quali linee guida e decisioni vincolanti potrebbero uscire da essa?
In primo luogo, dobbiamo trovare un accordo sulla forma della conferenza. La mia proposta sarebbe che all’inizio vi sia un piccolo gruppo di persone eminenti, che stili alcune proposte da discutere in seno alla Conferenza. Dovrebbero essere una base per la discussione.
Comunque, al momento, non credo sia possibile cambiare i trattati. Abbiamo bisogno di almeno cinque o sei anni per mettere d’accordo 27 nazioni e poi procedere con le ratificazioni, e non abbiamo tutto questo tempo.
Dovremmo invece utilizzare tutti gli strumenti e tutte le possibilità offerte dai trattati vigenti per intervenire in alcuni dei settori più importanti: migrazioni, politiche sociali e tassazione coordinata in alcuni ambiti come la difesa e il digitale. Le basi del MES e gli strumenti di prevenzione contro crisi come questa del coronavirus.
Una delle questioni più allarmanti per l’UE e il progetto federalista europeo è l’ascesa di nuovi nazionalismi. In particolare nei paesi dell’Est Europa, ma anche negli altri, inclusa la Germania. E poi c’è il caso Brexit. La paura per l’immigrazione, l’emergere e l’allargarsi delle disuguaglianze, il disorientamento culturale e l’intensificazione dell’uso della forza nella risoluzione delle dispute internazionali sembrano essere le cause più rilevanti di questa ascesa.
Lei crede che sia necessario per l’UE investire maggiormente nella cultura e nell’istruzione (l’ultimo report dell’OCSE evidenzia il crescente divario tra gli studenti cinesi e quelli occidentali2)? E sono indispensabili un nuovo stato sociale e un diverso modello economico?
Primariamente, dovremmo parlare in maniera più positiva dell’Europa. Abbiamo risolto due crisi finanziarie: nessuno Stato è andato in bancarotta. Siamo ancora il più grande mercato industriale. E se si guarda nell’insieme, i paesi europei stanno molto meglio di trent’anni fa.
Detto ciò, sicuramente, abbiamo bisogno di un’economia equilibrata con le esigenze della società. Nel Trattato di Lisbona è scritto che l’UE si impegna per un’economia sociale di mercato, che bilanci competitività e sostenibilità sociale. Inoltre, ritengo che la distribuzione della ricchezza vada meglio implementata. Ma non si possono ridurre le disuguaglianze, tra e all’interno dei singoli paesi, attraverso i fondi del bilancio dell’UE, che è solamente l’1% del suo PIL. Il solo bilancio tedesco è due volte e mezzo più grande di quello dell’UE. Quindi il problema delle disuguaglianze non può essere risolto a livello europeo, ma per lo più attraverso le politiche economiche, sociali e di tassazione dei singoli Stati membri.
Come UE, dobbiamo progettare politiche per il futuro, ad esempio riorganizzando il mercato interno, o mettendo più risorse nell’innovazione e nell’istruzione. L’UE dovrebbe fare di più in questo senso, non rimanere ferma ad un bilancio dell’1% del suo PIL e investire molti più fondi, non solo nelle infrastrutture classiche.
Circa l’insorgere dei nazionalismi invece, prima di tutto, dobbiamo chiarire che la Brexit è un caso a parte, che non può essere totalmente assimilato all’espandersi degli altri movimenti sovranisti-populisti come la Lega, il RN o l’AfD. In ogni caso, tutti questi movimenti sfruttano la paura dei colletti blu verso la globalizzazione, facendo loro credere che sarebbero meglio protetti in uno Stato-nazione. Cosa che è totalmente falsa! Un singolo paese europeo, non importa quanto grande, non può competere con la Cina o gli USA sul mercato internazionale. Sarebbe inoltre incapace di affrontare adeguatamente questioni globali come il cambiamento climatico. L’unica soluzione è lavorare insieme a livello europeo. La soluzioni individuali degli Stati sono inefficaci. Come disse Jean-Claude Juncker: “Il Lussemburgo è piccolo confrontato con i grandi Stati europei, ma visti da Pechino o da Washington, tutti gli Stati europei sono piccoli, anche se alcuni di quelli che si credono grandi non l’hanno ancora capito”. La crisi del coronavirus è ancora una volta lì a dimostrarlo.
La prossima domanda riguarda la più importante questione che coinvolge il futuro dell’umanità: il cambiamento climatico. Lei crede che l’Europa possa avere la forza di guidare un processo di maggiore collaborazione (e meno competizione) fra gli Stati, un cambiamento radicale del sistema dei consumi e la creazione di una democrazia più equa e inclusiva? E quali misure concrete possono già essere prese nei prossimi anni?
L’UE può fissare dei limiti, degli obiettivi (come quello sulla diminuzione delle emissioni), poi i singoli Stati devono mettere in atto i programmi per realizzare quegli obiettivi (la Germania si è già mossa in questo senso). Inoltre, è necessario capire come cambiare le nostre fonti d’energia, le infrastrutture e anche il nostro modo di vivere. Infine, non meno importante, vedere cosa possiamo fare all’estero.
Il COP25 di Madrid è stato un disastro. L’obiettivo principale, che era quello d’individuare un accordo attraverso cui i paesi più ricchi si impegnassero ad aiutare quelli più poveri nella transizione ecologica, non è stato raggiunto. In particolare per via dell’atteggiamento del presidente Bolsonaro. Inoltre, gli USA, che sono il più grande responsabile dell’inquinamento insieme a India e Cina, devono cambiare le loro politiche.
L’Europa da sola non può risolvere nessun problema. Gli è addebitale, ad esempio, solo l’8% di tutte le emissioni di CO2; il suo impatto è dunque abbastanza piccolo. Ma ovviamente questa non deve essere usata come una scusa.
E che dire allora delle imprese europee, che sono responsabili di una larga parte dell’inquinamento in altri paesi?
Le imprese europee devono seguire le leggi e le indicazioni europee. Punto.
Ultimo quesito, come si sta comportando l’UE a fronte della presente crisi del coronavirus?
Tutti gli Stati europei erano impreparati e troppi di loro hanno voluto mostralo ai loro cittadini. I risultati pratici e psicologici sono stati disastrosi. Ora si sa che il virus debba essere combattuto in una maniera coordinata, così come le relative conseguenze economiche.
A dicembre l’UE ha chiesto ai singoli Stati che gli strumenti di protezione fossero ordinati congiuntamente. Ma gli Stati non hanno dato seguito a questa indicazione. Solo poche settimane fa alcuni programmi sono stati messi in campo.
Il COVID-19 ci dimostra ancora una volta che abbiamo bisogno di più Europa.
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