“…la Germania è nella trappola che si è costruita da sola. Vorrebbe che i suoi vicini fossero simili a lei quanto più possibile. Ma essi non possono esserlo….come un grande filosofo tedesco, Hegel, avrebbe potuto dire, la Germania come tesi aveva bisogno della Spagna come antitesi…ma ora la sintesi è il disastro dei conti pubblici europei…”
Molto è stato scritto sul caso greco. Pur tuttavia, pensiamo che si possa ancora cercare di riflettere su di una questione così cruciale per l’Italia e per l’Europa. Ci troviamo ad un passaggio molto difficile: mentre i lavoratori greci protestano per il durissimo piano di austerità, c’è un rischio rilevante che il contagio si estenda ad altri paesi, compreso il nostro, mentre diventa sempre più plausibile una manovra di correzione ai conti pubblici italiani. I numeri sono comunque terrificanti in tutte le direzioni, come cercheremo di mostrare più avanti. Nel testo sono individuati in particolare sei temi di discussione. 1.a ciascuno il suo Bisogna certamente stigmatizzare il comportamento dei mercati finanziari e delle agenzie di rating, ma bisogna anche ricordare la storia finanziaria passata e recente del paese ellenico. Un testo sulla storia delle crisi finanziarie negli ultimi otto secoli (Reinhart, Rogoff,2009) registra il numero di anni che i vari paesi del mondo, dalla loro indipendenza e sino al 2008, hanno passato in situazioni di default e di ristrutturazione del debito. La Grecia detiene il primato tra i paesi sviluppati, avendo trascorso ben il 50,6% del tempo dal 1826 ad oggi in una situazione di questo genere. A livello mondiale la Grecia è superata soltanto dall’ Honduras, con il 64% e dall’ Equador, con il 58,2%. L’ultimo default del paese ellenico si è registrato a metà degli anni sessanta del Novecento. Venendo a tempi più vicini, si può ricordare che la nuova compagine socialista uscita dalle elezioni del 2009 ha raccolto un’eredità pesante: il precedente governo conservatore aveva dichiarato che il deficit di bilancio del paese per il 2009 sarebbe stato pari a circa il 6,5% del pil, mentre quello nuovo ha dovuto constatare che invece esso avrebbe raggiunto il 12,7% e mentre più di recente si stima che esso si avvicinerà alla fine al 14%. Lo stesso tipo di scherzo, anche se di entità certamente meno grave, era stato lasciato in eredità nel 2004 dagli stessi socialisti al nuovo governo conservatore di allora. Una stima attendibile indica che ogni anno nel paese vengono evasi circa 30 miliardi di euro di tasse, una cifra che risolverebbe i suoi problemi finanziari. Nei quartieri nord di Atene i residenti locali hanno dichiarato al fisco nel 2008 il possesso di 324 piscine in tutto. Una ricognizione attraverso il satellite ha mostrato che in realtà il loro numero era di 16.974 (Daley, 2010). Solo poche migliaia di cittadini, in un paese di 11 milioni di abitanti, ha dichiarato, sempre nel 2008, un reddito di almeno 100.000 euro e soltanto sei cittadini un reddito superiore a un milione. La corruzione è dappertutto, come del resto in Italia. 1bis. a ciascuno il suo? Chi paga e chi dovrebbe pagare per la crisi greca? All’inizio, le premesse su cui si sarebbe basato il piano di salvataggio erano quelle che i detentori di crediti verso la Grecia, in particolare le banche europee –particolarmente quelle francesi e tedesche-, non avrebbero sofferto di alcuna perdita (no default), che i contribuenti europei sarebbero stati protetti (no bail-out), che le imprese europee sarebbero anch’esse state risparmiate perché la Grecia non poteva svalutare la sua moneta (no exit). In sostanza i greci dovevano pagare tutta la fattura (Subramanian, 2010). In realtà ora il piano messo a punto non tocca più soltanto marginalmente, come previsto all’inizio, i contribuenti europei, ma in maniera invece molto rilevante; nello stesso tempo, attraverso l’intervento del Fondo Monetario Internazionale, esso riguarda anche i contribuenti extraeuropei, tra i quali quelli indiani, cinesi, brasiliani. E’ confermato invece che non vi sarà nessun contributo delle banche del nostro continente, che pure posseggono gran parte dei crediti verso la Grecia. Così i contribuenti di paesi ancora poveri sono chiamati a versare i loro soldi per permettere alle banche dei paesi ricchi di continuare nelle loro politiche di prestiti sconsiderate e senza criterio (Subramanian, 2010). Un bel risultato. 2.lascia o raddoppia La crisi greca ha mostrato che l’attuale assetto dell’euro non sta in piedi; l’esperimento di un’unione monetaria senza unione politica è sostanzialmente fallito, cosicché soltanto un nuovo progetto di integrazione può mantenere salda la costruzione. Per il medio termine, in attesa di progetti più impegnativi, bisognerebbe porsi dei traguardi che cerchiamo di delineare in via di larga massima, seguendo in sostanza il dibattito in merito sviluppatosi sulla stampa internazionale: a. dovrebbe essere varato un meccanismo di risoluzione delle crisi temporanee di liquidità, con poteri e fondi adeguati (Munchau, 2010). Si pensa da più parti alla creazione di una specie di fondo monetario europeo. Un esperto finanziario, W. Buiter, stima che, per essere veramente adeguato, esso debba poter contare su di una cifra pari a 2000 miliardi di euro; noi pensiamo che forse ci si potrebbe accontentare anche di una somma più ridotta, ma comunque sempre molto impegnativa. Parallelamente, si dovrebbe anche pensare ad una procedura di gestione controllata delle insolvenze, come esiste negli Stati Uniti per i singoli stati; b. ma questo tipo di soluzione non potrebbe risolvere i problemi strutturali, di solvibilità, oltre che di liquidità. Su questo fronte sarebbe necessario un altro fondo, che intervenga per aiutare i paesi in difficoltà a superare i loro squilibri economici interni, come operava, o avrebbe dovuto operare in passato, la nostra Cassa per il Mezzogiorno, o come ha fatto la Germania, dopo l’unificazione, nei confronti della parte est del paese. Si potrebbe partire dai già esistenti fondi strutturali, ma arricchendoli ed estendendoli in misura rilevante; c. dovrebbe essere attribuito al consiglio dei ministri dei paesi aderenti all’euro, con una maggioranza qualificata dei presenti, il potere di prendere delle decisioni vincolanti almeno su alcune questioni di politica economica dei vari paesi e di coordinare i rispettivi budget pubblici, le politiche fiscali, ecc. (Wolf, 2010, b). Come è noto, oggi soltanto un importo pari all’1% del pil dei paesi facenti parte dell’Unione passa dalle casse comuni, dove alimenta sostanzialmente i fondi agricoli e quelli per gli interventi strutturali. Tale percentuale dovrebbe crescere in misura significativa; d. sarebbe necessario, infine, un organismo di controllo del sistema bancario a livello europeo, che superi, tra l’altro, il ridicolo progetto messo a punto in proposito dalla burocrazia europea, con il maligno suggerimento dei rappresentanti dei singoli stati. Ci sembra che le misure elencate rappresentino il minimo che si dovrebbe a questo punto fare se si vuole mantenere in piedi l’euro. Altrimenti esso non resisterà ai colpi della prossima crisi, o, più semplicemente, a quelli della speculazione internazionale. Tanto varrebbe chiudere l’esperimento. Invece la Germania si ostina in questo momento a proporre un irrigidimento del patto di stabilità; dovrebbero in futuro essere tra l’altro previste sanzioni forti contro i trasgressori. Registriamo su questo fronte che in realtà da qualche tempo nessuno sta rispettando le regole, neanche la stessa Germania e che in futuro appare del tutto implausibile, ad esempio, che la stessa Germania possa arrivare a sanzionare la Francia in caso di non aderenza ai famosi parametri. 3. siamo tutti greci Se guardiamo bene, i conti degli altri paesi occidentali non sono poi troppo distanti da quelli greci. E’ quasi una regola che, dopo le crisi bancarie, venga quella dell’indebitamento pubblico. Come analizzato da Reinhart e Rogoff nel testo già sopra citato, nei tre anni successivi ad una crisi finanziaria, il livello di indebitamento degli stati toccati dal fenomeno aumenta il media dell’86%. Con questa crisi l’ammontare del debito pubblico rapportato al pil ha già visto una drammatica crescita per tutti i paesi ricchi; d’altro canto, nel lungo termine, all’effetto di trascinamento della crisi, si aggiunge il peso dell’invecchiamento della popolazione, con il suo carico di pensioni e di spese sanitarie. Abbiamo già riportato in un articolo di qualche tempo fa delle proiezioni (Cecchetti ed altri, 2010) che indicavano così che nel 2040 in Giappone il debito pubblico potrebbe raggiungere il 600% sempre del pil, più del 500% in Gran Bretagna, più del 400% negli Stati Uniti. Come, quando e quanto rientrare da questi deficit tendenzialmente spaventosi diventerà presto uno dei nodi centrali del dibattito politico in Occidente. I partiti di centro-destra ne faranno certamente, insieme alla questione dell’immigrazione, uno dei punti centrali dei loro programmi politici, come è già emerso, almeno in parte, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. E naturalmente essi attaccheranno soprattutto le conquiste sociali e i sistemi di welfare dei vari paesi. Intanto, comunque, già nei prossimi due anni sempre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, per non parlare dell’Italia e del Giappone, dovranno emettere un volume spaventoso di titoli pubblici. 4. il club-med in affanno Ricordiamo prima di tutto che il piano messo a punto a Bruxelles non appare credibile intanto perché esso impone troppe sofferenze al popolo greco. Comunque, anche se venissero attuate tutte le misure draconiane previste – ma noi pensiamo che fra qualche mese si tornerà a discuterne-, nei prossimi anni il debito pubblico del paese dovrebbe crescere sino al 150% del pil. Il programma di intervento affronta poi il problema della liquidità, non quello della solvibilità del paese. La situazione attuale è quella di un grande deficit pubblico primario, di un alto livello di indebitamento, di elevati tassi di interesse, di prospettive negative di sviluppo. Come restituire la montagna dei debiti contratti? Non solo nei prossimi anni è facile prevedere una caduta del pil, anche molto rilevante, ma l’altro aspetto del problema greco appare quello della scarsa competitività della sua economia, come di tutti i paesi del club-med. E’ stato calcolato che, per ritrovarla, bisognerebbe svalutare le monete dell’area del 25-30%, misura ovviamente impossibile. In tutti questi anni il tasso di inflazione di tali paesi è stato superiore a quello dell’Europa cosiddetta “virtuosa” e così il livello della loro competitività si è ridotto in misura rilevante. E lasciamo da parte i debiti dell’Europa centrale ed orientale e quelli britannici. E’ prevedibile quindi che il paese non sarà in grado di ripagare interamente il suo debito (Pisani-Ferry, Sapir, 2010). Bisognerà arrivare necessariamente ad una sua ristrutturazione. Sarebbe stato più produttivo dirlo sin da subito. I mercati si agitano anche perché sanno la verità, ma l’Europa e il Fondo Monetario si affannano a negarla; questo provoca in giro malessere e incertezza. Le banche e le assicurazioni europee posseggono oggi all’incirca 190 miliardi di dollari di titoli greci. Un taglio anche solo del 30% significherebbe una perdita di 57 miliardi; nessun grande istituto europeo dovrebbe comunque perdere tanti soldi da registrare gravi difficoltà finanziarie. Il caso più rilevante conosciuto appare quello della BNP-Paribas, che è esposta per circa 6,5 miliardi di dollari. Il problema è semmai quello di una possibile metastasi (Kennedy ed altri, 2010). L’esposizione delle banche verso il Portogallo è di 240 miliardi, verso la Spagna di 832 miliardi (Kennedy ed altri, 2010). Qualcuno ha calcolato che, in condizioni di difficoltà gravi dei mercati finanziari, salvare Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia potrebbe costare circa 800 miliardi di dollari e aggiungendovi l’Italia saremmo forse vicini ai 1400 – 1500 miliardi. Finanziariamente il salvataggio si potrebbe forse anche fare, politicamente la questione appare invece come molto intricata. 5.il generale nel suo labirinto Sui rapporti della Germania con la Grecia e più in generale con i paesi in deficit hanno scritto in maniera molto incisiva M. Wolf (a) e The Economist, 2010 ed in questo paragrafo ci riferiamo in particolare alle loro idee. E’ certamente la Germania, insieme alla Grecia, il grande colpevole della crisi; essa si è rifiutata di risolvere la questione ellenica qualche mese fa quando potevano bastare pochi spiccioli per chiuderla e si ritrova ora con un problema quasi insolubile. Circa la metà delle esportazioni tedesche, sulle quali è basata la prosperità del paese, vanno verso gli altri stati della zona euro, che non possono più ricorrere come una volta, ormai, alla svalutazione della loro moneta per reggere alla competitività dell’economia della Germania. Essa tende a vedersi come un paese virtuoso e a considerare i suoi vicini come cicale spendaccione e considera inoltre ovvio che l’onere degli aggiustamenti debba gravare su questi ultimi. Ma la Germania può essere quella che è – un paese con una forte disciplina di bilancio, una domanda interna debole e un grande surplus della bilancia commerciale- solo perché altri non lo sono. Ora essa pretende che tutti i paesi eliminino i loro deficit pubblici eccessivi. In pratica, il risultato più probabile di tale politica sarebbe quello di un rilevante rallentamento delle economie, con larghi deficit di bilancio e del commercio estero e tale rallentamento, vista la situazione generale del mondo, potrebbe durare molto a lungo. La Germania non può volere nella sostanza che i suoi vicini continuino a comprare le merci tedesche, ma smettano di prendere a prestito del denaro sui mercati. Dal momento che i loro surplus sono il deficit di qualcun altro e che i suoi successi sono fatti almeno in parte a spesa dei suoi vicini, tale posizione appare del tutto incoerente. I paesi in surplus devono finanziare quelli in deficit, altrimenti questi ultimi non potranno comprare più le merci tedesche. L’unica via d’uscita al problema, seguendo sino in fondo l’approccio tedesco, sarebbe alla fine quella di aumentare il surplus commerciale esterno della zona euro, ma bisognerebbe spiegarlo in qualche modo al resto del mondo, che non gradirebbe affatto, soprattutto poi in un periodo di domanda mondiale molto debole. Sarebbe molto più sensato che la Germania cambiasse le sue opzioni di politica economica e cercasse soprattutto di sviluppare la sua domanda interna e il livello dei suoi investimenti. Sulla necessità di far crescere soprattutto il suo mercato interno e rallentare la spinta sulle esportazioni la Cina, oggi il primo esportatore mondiale, sta giocando ora invece molte delle sue carte. Sarebbe un bene per tutti che lo facesse anche la Germania, ma il paese sembra non volere sentir ragioni. Così la crisi greca appare soltanto l’inizio di una lunga storia. 6.colpi di teatro e inviti a nozze Questa crisi ha mostrato con chiarezza che, dopo un attimo di sbandamento, i mercati finanziari e le agenzie di rating, questi fratelli siamesi, sono tornati a dettare legge alla politica e agli stati. Si può provare un sentimento di rabbia nel vedere delle agenzie di rating che negli ultimi dieci anni hanno sbagliato tutte le loro stime, continuare ad essere prese ancora molto sul serio e i vari stati tremare davanti ai loro giudizi –adesso qualcuna di esse, presa forse da un delirio di onnipotenza, sta minacciando insieme Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia e Gran Bretagna-; parallelamente i mercati finanziari, appena salvati dall’intervento degli stati, tendono a punire ora gli stessi stati per i loro deficit eccessivi provocati peraltro proprio dai loro interventi di salvataggio. Come scrive De Cecco (De Cecco, 2010), il declassamento da parte delle agenzie del Portogallo e della Spagna è stato un colpo di teatro magistrale, perfettamente sincrono alla chiusura delle gigantesche operazioni di ribasso in atto da parte degli speculatori. Va peraltro sottolineato che, almeno in questo caso, gli speculatori sono stati letteralmente invitati ad intervenire dalle incertezze, dalle mezze verità e dalle lentezze europee e che essi stanno guadagnando moltissimi soldi giocando praticamente sul sicuro. Intanto i programmi di riforma del sistema finanziario sono ancora tutti da approvare, negli Stati Uniti come in Europa. E’ persino grottesco che un giorno Obama faccia la faccia feroce con le banche e il giorno dopo passi a trovarle con il cappello in mano per farsi dare qualche soldo per la campagna elettorale di medio termine. Intanto i repubblicani fanno altrettanto. Un processo per molti aspetti simile si è delineato in Europa negli scorsi anni; i partiti politici di vari paesi del continente, colpiti dalla forte emorragia recente dei loro iscritti, si sono rivolti al settore privato per continuare a finanziarsi. Con le conseguenze del caso. Ma i mercati finanziari non sono più i padroni dell’intero universo, come affermava T. Wolfe ormai molti anni fa. In realtà gran parte dell’Asia, a cominciare dalla Cina, non li segue più ed ha i mezzi per non farlo. Il continente è stato negli anni novanta colpito duramente dalle loro follie e da allora esso ha varato una serie di misure che oggi permettono di starne sostanzialmente alla larga. Tra l’altro, Cina, Giappone e Corea del Sud si sono messi qualche mese fa d’accordo per varare una loro agenzia di rating. Beati loro.
Testi citati nell’articolo
– Cecchetti S., Mohanty M. S., Zampolli F., The future of public debt: prospects and implications, Bank for International Settlements, febbraio 2010 – De Cecco M., Chi gioca a sfasciare Maastricht, La Repubblica, affari & finanza, 3 maggio 2010 – Daley S., Greek wealth is everywhere but tax forms, www.nyt.com, 1 maggio 2010 – Kennedy S., Magnusson N., Benedetti-Valentini F., Now it’s a european banking crisis, www.businessweek.com, 29 aprile 2010 – Munchau W., Europe’s choice is to integrate or disintegrate, www.ft.com, 2 maggio 2010 – Pisani-Ferri J., Sapir A., Europe needs a framework for debt crises, www.ft.com, 28 aprile 2010 – Reinhart C. M., Rogoff K. S., This time is different: eight centuries of financial folly, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 2009 – Subramanian A., Greek deal lets banks off the hook, www.ft.com, 6 maggio 2010 – The Economist, Why Germany needs to change, both for its own sake and for others, 11 maggio 2010 – Wolf M., Germany’s eurozone crisis nightmare, www.ft.com, 9 marzo 2010, a – Wolf M., Would istitutional changes make the eurozone work better and, if so, what should they be?, www.ft.com, 15 aprile 2010, b
L’articolo è stato scritto prima delle decisioni di intervento europee maturate il 9 maggio a Bruxelles ed appare quindi opportuno aggiungere delle brevi note di commento alle stesse. A prima vista le azioni previste dall’accordo appaiono complessivamente molto positive; esse sono molto più massicce di quanto si potesse pensare ed esse vanno, in qualche modo, nella direzione auspicata al punto2. del nostro articolo. L’Europa ha avuto apparentemente un sussulto di vita. Tra l’altro, il potenziale intervento della BCE sul mercato dei titoli pubblici renderà apparentemente più difficili, giorno per giorno, le manovre della speculazione. A questo punto si pongono peraltro diverse domande che speriamo trovino una risposta convincente molto presto, come sottolinea qualche commentatore (El-Erian, 2010): in particolare, tra l’altro, sul piano operativo, come saranno approvati, finanziati e eseguiti tutti gli interventi previsti – dove prederanno, ad esempio, i soldi necessari i vari paesi, come in particolare, l’Italia o il Portogallo e quanto essi saranno comunque obbligati a dar seguito interamente alle decisioni prese- ? Sul piano dell’efficacia, queste iniezioni di liquidità saranno usate per consolidare i conti pubblici o per rimandare lo stesso consolidamento? Un altro dubbio, collegato a quelli precedenti, riguarda il ruolo limitato lasciato direttamente alla Commissione Europea nella raccolta dei fondi; gli interventi sono per la gran parte previsti a livello bilaterale e su base sostanzialmente volontaria. Un aspetto poco entusiasmante della questione è rappresentato dal fatto che le decisioni prese sanciscono ufficialmente l’ingerenza degli Stati Uniti – attraverso il Fondo Monetario Internazionale e attraverso gli interventi telefonici diretti di Obama- nelle finanze europee. Comunque, alla fine, il piano non risolve i problemi di fondo della Grecia ed eventualmente di altri paesi; fornisce certamente qualche mese o anno di respiro, ma non può impedire la necessaria ristrutturazione del debito greco o migliorare la competitività del paese.
Testo citato nell’appendice
El-Erian M., On Europe’s “massive policy response”, www.ft.com, 10 maggio 2010
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