I due schieramenti, quindi, mantengono nel mondo cattolico gli stessi rapporti di forza dell’anno precedente tramite le liste minori e i candidati, non certo per merito dei partiti principali che pure dovrebbero essere depositari dell’orientamento culturale. La crisi di offerta riguarda quindi le strutture portanti di entrambe le coalizioni. A destra il recupero di voti tramite le liste minori avviene nel mondo cattolico con una percentuale superiore del 50% rispetto al resto dell’elettorato (9.3% contro 6.3%). Ciò consente di recuperare non solo la perdita del Pdl ma anche quella della Lega che è l’unico partito a perdere voti cattolici nonostante il risultato generale positivo. Tuttavia lo straordinario successo di Cota in Piemonte richiederebbe un’analisi più articolata del consenso leghista. Anche a sinistra le liste minori e i candidati compensano le perdite con un recupero più forte in area cattolica, 4.4% contro 3.6%. In particolare l’affanno del Pd a mantenere i consensi si misura in diversi parametri che presentano una differenza negativa tra voto cattolico e tendenza generale: il tasso di fedeltà è di 59% contro 61%; la perdita rispetto alle europee è di 1.1% contro 0.5. Le regionali confermano il marcato spostamento del consenso cattolico a favore della destra – circa quindici punti percentuali – avvenuto già nelle elezioni del 2008, contestualmente alla fondazione del Pd. Non è cosa di poco conto per un partito che aveva l’ambizione di contribuire a risolvere la questione cattolica. Meriterebbe una riflessione più attenta sullo scarto tra il progetto e l’attuazione.
Il voto all’Udc è stabile quando questo partito si colloca a destra perché è in grado di raccogliere consensi cattolici in fuga dal Pdl e dalla Lega. Al contrario, quando si allea con la sinistra dimezza i voti – come in Piemonte – perché i suoi elettori si spostano a destra e i cattolici delusi dal Pd non vedono certo in Casini la soluzione.
La nostra politica delle alleanze è sacrosanta, ma non possiamo non vedere che il partner a cui si rivolge ha tutto da perdere a fare coalizione col Pd. D’altro canto, la vocazione maggioritaria e la tendenza bipartitica non trovano alcuna conferma nelle tendenze elettorali che anzi vanno in direzione opposta, in fuga dai grandi partiti. Se guardiamo dall’angolo visuale dell’elettorato cattolico, quindi, le due linee politiche che animano il dibattito interno del Pd appaiono entrambe inefficaci. La crisi di offerta si vede non solo nelle tattiche politiche, ma soprattutto nei contenuti. Il mondo cattolico rappresentato dai politici nel chiacchiericcio giornalistico non esiste nella realtà. I cattolici in carne e ossa la pensano grosso modo come gli altri cittadini e danno molta importanza ai problemi sociali, alla qualità dei servizi pubblici e alla moralità della politica, tutti argomenti sopra il voto otto in una scala fino a dieci. Le così dette questioni eticamente sensibili (aborto, eutanasia ecc.) ricevono minore attenzione con un voto (6.7) di poco superiore (+0.8) a quello dell’intero elettorato. Su questi temi i fedeli sono in atteggiamento di mediazione, in una posizione intermedia tra la Chiesa e i laici. Semmai è da notare sull’immigrazione una posizione più intransigente rispetto alle dichiarazioni dei vescovi. Tutto ciò che ha riempito i titoli dei giornali, quindi, serve a ben poco. Secondo i media, ad esempio, la Binetti doveva essere la spina nel fianco dei democratici e invece sottrae uno striminzito 0.15% al Pd umbro. Inoltre, la Bonino e la Bresso hanno perso nettamente nel voto cattolico, ma non a causa dei temi eticamente sensibili, almeno secondo le risposte degli intervistati. Invece, Vendola, pur avendo le stesse posizioni su tali temi, coglie un risultato strepitoso, attraendo voto cattolico anche dal campo della destra. Si dichiara comunista e gay, appare ad alcuni anche un po’ massimalista, ma riesce laddove falliscono quasi tutti gli esponenti del centrosinistra. Come si spiega questo paradosso?
Pierluigi Castagnetti qui ha sottolineando l’atteggiamento non ostile verso la Chiesa del candidato di sinistra, a differenza di un pregiudizio antiecclesiastico della candidate democratica e radicale. Pier Paolo Baretta ha aggiunto la differenza di un messaggio più inclusivo, solidale e tollerante. Condivido queste analisi, ma forse non bastano. Vorrei accentuare il paradosso Vendola e anzi mettere a confronto il suo successo con il dato di fondo che, non dimentichiamolo, registra uno spostamento a destra dell’elettorato cattolico. Mi domando se c’è un filo che lega queste diverse tendenze elettorali, se esiste una ragione più profonda, direi prepolitica, che spiega unitariamente l’orientamento cattolico verso Vendola, il Pd e le destre. Mentre preparavo questi appunti mi veniva un mente una parola, ma sono stato in dubbio se usarla perché è molto consumata dal cattivo uso. Poi ho pensato che si poteva proporla qui solo a condizione di rinfrescarne il significato tornando ai classici. La parola è autenticità. Il classico è Karl Jaspers. Nella Psicologia delle visioni del mondo egli definisce il crinale tra autentico e inautentico tramite tre coppie: ciò che è profondo e ciò che è superficiale, ciò che è permanente e ciò che è momentaneo, ciò che è creato e ciò che è imitato. Ora vi propongo un gioco di assegnazione. Non c’è alcun dubbio riguardo alla collocazione di Vendola sui tre lati dell’autenticità. Sul piano formale la stessa collocazione appartiene sia al leghismo sia al berlusconismo, almeno dal punto di vista di chi li vota. Infatti, le due destre usano temi forti, certamente profondi e non superficiali, come l’appartenenza a un territorio e la fiducia in un salvatore della patria. Entrambe, poi costituiscono un orientamento permanente e non temporaneo della politica italiana. Infine, la Padania e il populismo mediatico sono vere invenzioni politiche, certo non sono prodotti di imitazione.
Ora proviamo ad assegnare il PD alle coppie jaspersiane; debbo proprio farlo? Non c’è bisogno di grandi dimostrazioni per concludere che al di là della nostra buona volontà la percezione reale del Pd cade spesso sul lato della superficialità, del momentaneo e dell’imitazione. C’è anche una piccola controprova nel famoso scatto di orgoglio di Bersani ad Annozero – il Pd ha la schiena dritta – che ha avuto grande successo proprio perché è sembrato insolito. Ecco la differenza prepolitica che spiega i diversi esiti del voto: Vendola e le destre sono percepiti come autentici dai rispettivi elettorati cattolici, molto meno il Pd. A partire da questa chiave si possono spiegare tanti altri dati. Ad esempio, l’autenticità è prima di tutto una dote femminile e non a caso nel mondo cattolico il voto al centrosinistra delle donne scende più di quello degli uomini. Ragionamento analogo si può fare per il voto cattolico giovanile, anch’esso più sensibile ad una dimensione autentica ancora compressa dalle superfetazioni mentali tipiche dell’età adulta e maschile.
L’autenticità è un requisito formale, non dipende tanto dai contenuti, ma più dal modo in cui sono vissuti e rappresentati. Ciò che conta è se un partito mostra di credere davvero in quello che dice, se lo persegue con coerenza, se impegna tutte le proprie energie per realizzarlo. Non bastano le tattiche politiche se non si affronta ciò che viene prima, la dimensione prepolitica della fedeltà a un progetto. Il Pd deve riscoprire l’autenticità delle cose in cui crede. Ecco l’imperativo per attrarre non solo il voto cattolico ma per conquistare la stima di tanti cittadini italiani. Perché non siamo ancora riusciti a farlo? Abbiamo unito due tradizioni – la sinistra italiana e il cattolicesimo democratico – nella fase della loro decadenza, senza che da tale unione venisse una cultura democratica davvero nuova. Oggi i difetti di queste tradizioni pesano più delle virtù. Paradossalmente esse hanno prodotto sintesi di rango costituzionale quando erano separate, ma dall’impegno comune non è scaturita una nuova autenticità per l’Italia di domani.
Forse il problema non è solo nostro. Si è fatta sentire la seconda povertà: la politica senza cattolici. La crisi della Seconda Repubblica è prima di tutto di natura culturale, perché ad un bipolarismo politico non è corrisposto un vero bipolarismo delle idee. Da un lato ci sono stati il leghismo e il populismo, ma dalla nostra parte non si è inventato un nuovo modo di pensare l’Italia, si sono solo prolungate le vecchie culture della Prima Repubblica. Da qui è nato uno sbilanciamento e alla fine anche un blocco del bipolarismo. In tutto ciò, certo, ha pesato la crisi della sinistra, ma anche un certo inaridimento del cattolicesimo italiano. E’ mancata negli ultimi venti anni la tensione religiosa, non ci sono stati fermenti di riforma della Chiesa, sono stati sopiti i conflitti tra i diversi modi di intendere la fede.
Si tende a dimenticare che la religione inventa i paradigmi politici solo quando una fede rinnovata sostituisce la precedente. Se la religione è conformistica non inventa nulla, recinta l’appartenenza alla dottrina, ma non offre alla società nuove visioni del mondo. Questa è una verità storica generale – da Costantino a Lutero ai puritani americani – ma più precisamente è confermata nella recente storia politica italiana, perché nel bene e nel male i passaggi più significativi sono sempre stati accompagnati da grandi tensioni religiose. Non ci sarebbe stata la Costituzione se il dossettismo non avesse superato la Chiesa di Pio XII ancora diffidente verso la democrazia. Il centro sinistra si alimentò del fermento conciliare al di là dei freni posti dalla gerarchia. L’avanzata del PCI negli anni settanta fu sostenuta dai cattolici del NO. Perfino il neocentrismo degli anni ottanta fu aiutato dal nuovo integralismo cattolico, ad esempio Comunione e Liberazione, che allora rappresentava – anche se non ci piaceva – una vera innovazione teologica, non solo la gestione degli appalti.
Alla cultura della Seconda Repubblica è mancato il fermento religioso. La Chiesa italiana è stata diretta con grande professionalità politica, è sembrata protagonista della scena pubblica, ha scritto l’agenda politico-giornalistica. Il suo conformismo però ha fatto mancare il lievito dello spirito cattolico alla politica italiana. Il politicismo dei cardinali ha estraniato i cattolici italiani dalla cultura politica nazionale. Oggi essi si sentono a disagio nel centrosinistra, come dimostrano i dati elettorali, e sono subalterni alle culture dominanti della destra. Il leghismo e il populismo sono espressioni del paganesimo postmoderno più che di una sofferta coscienza cristiana della modernità. L’autenticità, infatti è un problema non solo per la politica, ma è anche il crocevia in cui la sensibilità religiosa incontra lo smarrimento della modernità, come sottolinea Charles Taylor (Il disagio della modernità), pensatore credente e studioso attento della secolarizzazione. Come può cambiare questa storia? A volte lo Spirito Santo ci mette lo zampino. Questo papato aveva in programma la stabilizzazione della Chiesa trionfante, ma è stato costretto dagli eventi a proporre la Chiesa del pentimento. Il passaggio è in corso e può avere gli esiti più diversi. Non si può escludere però che la denuncia del male cresciuto all’interno della Chiesa susciti nuove energie di riforma spirituale e apra terreni fertili di conflitto religioso. Allora vi potrà essere quel riverbero della fede sulla cultura politica che è mancato negli ultimi tempi.
Le speranze per il domani si alimentano nel ricordo dei grandi del passato. In Dossetti quando abbandona l’impegno pubblico nella convinzione che solo dalla riforma della Chiesa può venire l’energia per rinnovare la politica. Nel più grande papa del Novecento, Paolo VI, che, nella profetica Octogesima adveniens, vide aprirsi uno spazio creativo per l’autentica fede cristiana dopo la fine delle ideologie: “Lo Spirito del Signore, che anima l’uomo rinnovato nel Cristo, scompiglia senza posa gli orizzonti dove la sua intelligenza ama trovare la propria sicurezza, e sposta i limiti dove si rinserrerebbe volentieri la sua azione; egli è abitato da una forza che lo sollecita a sorpassare ogni sistema e ogni ideologia”.
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