Interventi

Articolo pubblicato per la rubrica “Divano” su “il manifesto” del 10.04.2020

Una Nota di Leonardo Sciascia si legge in appendice alla edizione della Storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni, pubblicata nel 1981 da Sellerio nella collana “La memoria”. Sciascia non manca di constatare, prima di ogni altra considerazione, che “questo piccolo grande libro resta tra i meno conosciuti della letteratura italiana”, indizio sicuro, lascia intendere Sciascia, della debole educazione civile degli italiani, che non è mai giunta, per così dire, a consolidarsi in una robusta complessione.
Manzoni indica al lettore con queste parole l’argomento della Colonna Infame: “Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta dei supplizi, la demolizione della casa d’uno di quegli sventurati, decretarono di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non si ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile”.
Traendo alimento alla sua meditazione dalle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri che si era proposto, dice Manzoni, “di ricavar da quel fatto un argomento contro la tortura”, Manzoni, dal canto suo, “senza togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto”, orienta la sua riflessione convinto che “la menzogna, l’abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura”, che, insomma “tali ragioni non furon purtroppo particolari a un’epoca”.
E per tanto, afferma Manzoni, “dalla storia, per quanto possa esser succinta, d’un avvenimento complicato, d’un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più generali, e d’un’utilità, se non così immediata, non meno reale”: ossia, ci pare di poter interpretare in sintonia con Sciascia, utili (diciamo necessarie) alla formazione d’una solida educazione civile da esercitarsi nella relazione virtuosa che ha da tenere insieme istituzioni e singoli cittadini.
Una lezione, insomma, che resti permanente, che sia capace, alla bisogna, di scongiurare il ricorso a rimedi illusori, ad espedienti pericolosi, ad interpretazioni tanto fallaci quanto interessate quando sopraggiunga il tempo della malattia infettiva che incombe e dilaga sull’intera popolazione. Si trattava in quell’anno 1630 di affrontare l’epidemia di peste che desolava Milano. Si tratta in quest’anno 2020 di affrontare la pandemia di Covid-19 che desola il mondo. Per affrontarla conoscerne le cause e non, in mancanza di conoscenza certa, stabilire, deciderne la causa.
Nel 1630 individuare negli untori coloro che avevano diffuso il contagio, consentiva di dare una risposta (infondata, illogica, assurda, ma, come che sia, una risposta) alla domanda che ogni milanese, morendo o temendo di ammalarsi e morire, si faceva chiedendosi il perché di quell’inarrestabile, incomprensibile scempio. Un dio adirato? La funesta congiunzione delle lontane stelle? I miasmi esalati da mefitiche arie? Cause per certo potenti queste, ma che operano invisibili pur quando, con la loro azione, determinano evidenze inoppugnabili: l’orrore dei cadaveri che si accumulano innanzi ai nostri occhi. Una causa visibile, questo era necessario indicare.
Dunque prossima quanto lo è il contatto diretto che provoca la morte: il contagio, appunto. E allora nel vicino, in chi mi trovo accanto, posso ben riconoscere l’autore indubbio della mia morte, se muoio. E in lui vedo, se morto non sono, il nemico ‘mortale’ che debbo distruggere. Verri nelle Osservazioni non conferisce il giusto rilievo alla ragion di stato o volontà politica che, nel caso degli untori, muove alla punizione esemplare di colpevoli ad arte confezionati.
È necessario non comminare una pena, ma annientare colui che si è stabilito sia, per decreto, il responsabile della peste. E ad una investigazione più sottile – ahinoi! – si vedono la coerenza e lucidità degli aguzzini. Se contagio c’è – e c’è – c’è chi contagia. E c’è. Vedete? Eccolo!

Un commento a “«Alcuni accusati d’aver propagata la peste»”

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