Antonietta Gilda Paolino
Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2012, pp. 268, Euro 18,00
La sinistra comunista italiana del dopoguerra era molto diversa da quella delle origini. Educata da Togliatti alla “via nazionale al socialismo”, tentava di conciliare appartenenza nazionale e internazionalismo, in un amalgama talvolta non sempre riuscito. Gli avvenimenti del ’56 erano dei punti di verifica e di sofferenza del suo percorso di formazione, segnando una frattura e un limite (quello dei rapporti con la casa sovietica) che non sembravano poter esser messi in discussione. Eppure, in quel fuoco iniziava un percorso, un rimescolamento delle carte destinato a maturare in termini assolutamente inaspettati. Di questa nuova sinistra, suo malgrado – come spesso ha ripetuto – Pietro Ingrao diveniva il punto di aggregazione. Dapprima come direttore del giornale di partito, poi come membro della Direzione, e ancora poi come deputato. Da queste postazioni, Ingrao riusciva a dare una lettura della modernizzazione nazionale in corso a partire dalla metà degli anni 50 e destinata a culminare nelle vicende del ’68. Sinceramente convinto che la libertà, in ogni sua espressione, anche all’interno del monolitico Pci, e le masse fossero il punto di partenza per ogni azione politica, Ingrao avrebbe scontato duramente nell’XI Congresso nazionale del partito quel convincimento. “Ispiratore” di quella nuova sinistra, Ingrao coagulava intorno a sé un nutrito numero di personalità che avrebbe destato non pochi timori di “correntismo”. Lo scontro interno, peraltro sarebbe stato durissimo, articolandosi tra una sinistra e una destra “amendoliana”, lunga la faglia delle rispettive e conflittuali letture circa il miracolo economico italiano. Da molti, tuttavia, quella dialettica fu interpretata come una mera resa dei conti interna, uno scontro per la successione alla guida del Pci dopo la morte di Togliatti nel 1964. Se il ’68 avrebbe dato in una certa misura ragione a Ingrao, quella stagione rappresentava anche il punto d’arrivo di una storia. In quel crogiolo, alimentato anche dai fatti di Praga e dalla prima esplicita rottura con l’Urss, si sarebbe incamminata la “frazione” del Manifesto che, seppur sconfessata da Ingrao, dava corpo ai timori “frazionisti” dell’ala più conservatrice del partito.
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