Articolo pubblicato su ‘Internazionale‘ il 15.09.2020
L’ossessione della riforma della costituzione agita da quarant’anni il teatro politico italiano come l’ombra di Banco, un fantasma che non si materializza ma che come tutti i fantasmi non cessa di tornare e di essere evocato e invocato. Nel corso del tempo – dal sogno craxiano della “grande riforma” negli anni ottanta alla bicamerale di D’Alema nei novanta, dalla riforma di Berlusconi a quella di Renzi nei due decenni successivi – il fantasma ha assunto sagome diverse ma accomunate dalla stessa tendenza. Non si è trattato mai di proposte che rilanciassero o attualizzassero i princìpi e i diritti fondamentali della carta del 1948: per fare un esempio, a nessuno è mai venuto in mente di ridefinire che cosa significhi oggi, dopo mezzo secolo di neoliberismo, che “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Si è trattato sempre, invece, di tentativi di riscrivere la seconda parte della costituzione puntando a una riduzione della rappresentanza, e dunque del ruolo del parlamento, a favore della decisione, e dunque del ruolo del governo (e del suo capo).
Questi tentativi sono stati sempre giustificati sulla base di una presunta necessità funzionale dell’ordinamento istituzionale, che copriva in realtà l’incapacità politica della classe dirigente di rappresentare e governare adeguatamente un paese attraversato da una lunga e complicata transizione, iniziata con la crisi della cosiddetta prima repubblica e tuttora senza approdo. La storia dei tentativi di revisione costituzionale è dunque la storia di una sorta di depistaggio: dalle responsabilità di una politica agonizzante e incapace di rigenerarsi a un supposto difetto originario della costituzione, progressivamente derubricata nel senso comune da legge fondamentale a norma disponibile alle convenienze della maggioranza di turno. È la storia dunque di un trucco, che il corpo elettorale è riuscito fin qui a sventare bocciando due volte per via referendaria, nel 2006 e nel 2016, le riforme che non si erano già arenate nell’iter parlamentare (solo una, quella “federalista” del titolo V, è stata confermata dal referendum del 2001: con i risultati che si sono visti in modo eclatante quest’anno, nella gestione della pandemia mal condivisa fra stato e regioni).
Il 20 e il 21 settembre siamo di nuovo chiamate e chiamati a esprimerci su un quesito referendario che riguarda una riforma – bisogna darne atto ai proponenti – ben più limitata, che non nasce come le precedenti da una volontà prometeica di riscrivere tutta la seconda parte della costituzione ma si limita – correttamente, secondo la procedura legale di revisione prevista dall’articolo 138 – a modificarne un singolo punto, ovvero il numero dei componenti della camera e del senato stabilito nel 1963, riducendolo di un terzo. Solo apparentemente minimalista, questo “taglio” dei parlamentari non sarebbe scandaloso né pericoloso se fosse accompagnato da alcuni correttivi che invece non si vedono all’orizzonte: una legge elettorale proporzionale pura (che peraltro, essendo una legge ordinaria, potrebbe in futuro essere facilmente archiviata da parte di una nuova maggioranza), una ridefinizione dei regolamenti parlamentari, nuove modalità di selezione delle candidature nei partiti. In assenza di questi correttivi, il taglio quantitativo dei parlamentari diventa un taglio qualitativo della rappresentanza, che premia i partiti maggiori a scapito delle formazioni minori e alcune zone del territorio nazionale a scapito di altre (perlopiù meridionali, tanto per cambiare), diventando così lesivo del principio di uguaglianza. E d’altra parte non promette di avere alcuna ricaduta sui vizi di incompetenza, assenteismo, corruttibilità del ceto politico, mentre è prevedibile che ne incrementi senz’altro il gregarismo e la manovrabilità da parte dei vertici di partito e di corrente.
Ci sono dunque ottime ragioni di merito per dire di no a questo taglio. Ma c’è una ragione simbolica ancor più importante, che riguarda il segno e il senso complessivi della riforma, un segno e un senso nient’affatto funzionali bensì fortemente ideologici. Per il modo in cui è stato concepito e presentato – con annesso l’indigeribile corredo iconografico delle forbici che si abbattono sulle poltrone, quasi che il parlamento fosse un vecchio salotto da portare dal tappezziere invece che un’istituzione da salvaguardare – il taglio dei parlamentari sintetizza e corona un trentennio di ideologia anticasta, antiparlamentare e antipolitica che ha già fatto sufficienti danni a questo paese (e non solo a questo: prima di andare a votare sarebbe una buona idea dedicare qualche minuto di riflessione agli Stati Uniti di Trump).
È l’ideologia populista del Movimento 5 stelle e della Casaleggio associati, che notoriamente considerano la democrazia rappresentativa un vecchio arnese novecentesco rimpiazzabile con la conta dei like e con i sondaggi della piattaforma Rousseau; ma non è solo dei cinquestelle, che a essere precisi ne sono più figli che padri, più effetto che causa. La favola risale piuttosto alla retorica che ha accompagnato all’inizio degli anni novanta la stagione di tangentopoli e Mani pulite, scaricando sul solo ceto politico la responsabilità della corruzione del sistema ed esentandone il parimenti coinvolto ceto imprenditoriale; è stata subito dopo la colonna sonora della discesa in campo e del successo di Silvio Berlusconi in quanto “imprenditore prestato alla politica” ma estraneo al ceto politico; e ha avuto nel corso del tempo molte fonti e molti sponsor, economici e mediatici, incluso il bestseller La casta scritto nel 2007 da due firme di punta del principale quotidiano italiano, che quella favola ha contribuito non poco a metterla in forma, legittimarla e divulgarla.
Come tutte le ideologie di successo, anche questa ha fatto ovviamente leva su alcuni dati di realtà, nella fattispecie l’evidente e progressivo deterioramento della qualità politica, intellettuale e morale dei nostri rappresentanti; ma come tutte le ideologie di successo ha avuto anche l’effetto performativo di accentuare questa decadenza piuttosto che frenarla. Di più: ha funzionato, e rischia ancora di funzionare, come una potente arma di distrazione di massa sia dalle ragioni strutturali della crisi della rappresentanza nelle democrazie contemporanee, sia dall’analisi delle vere caste che ovunque la alimentano e ne traggono vantaggio: le oligarchie economiche, finanziarie, manageriali che fanno girare profitti e dividendi, le burocrazie delle istituzioni sovranazionali, i grandi gruppi editoriali che controllano l’informazione e la comunicazione, le agenzie che sovrintendono alla ricerca scientifica e tecnologica e alla distribuzione diseguale dei suoi risultati. L’articolata galassia dei poteri forti e fortissimi nati, cresciuti e solidificatisi sotto il cielo del neoliberalismo, che hanno tutto l’interesse a depotenziare la democrazia liberale e le sue istituzioni e a sostituirsi alla sua delicata struttura rappresentativa.
Struttura tutt’altro che perfetta, come ben sanno i movimenti, femminismo in primis, che dagli anni settanta in poi ne denunciano i limiti dando vita a pratiche politiche più corrispondenti a esigenze di democrazia diffusa e partecipata. Oggi però la critica, anzi l’affossamento, della rappresentanza non ha questo segno espansivo di allargamento e radicalizzazione della democrazia, bensì il segno inequivocabilmente oligarchico del suo restringimento. Dire di no alla favola populista del taglio della casta è un primo passo per rimettere la questione della crisi della politica, della rappresentanza e della democrazia sui suoi binari giusti, e magari cominciare a prospettare soluzioni e vie d’uscita più credibili.
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