Interventi

Noi immaginiamo l’Al di là.

Immaginare è dire: dunque linguaggio: il linguaggio nostro dell’Al di qua. Vorremmo varcare, spingerci oltre. Ma siamo serrati. Può esserci qualcuno che ci liberi?

Ma liberazione è compimento. Nell’istante in cui cessiamo come potremmo spingerci oltre?

O trasmutazione? Divenire? Pensarlo questo permanere e mutare, questo cielo che trasmuta. C’è una alterità con cui entriamo in rapporto: una compresenza nell’istante dello scomparire? L’aneliamo e stringiamo, abbracciandola nella nostra parola. Sempre, nominandola, cerchiamo di stringerla. Tentiamo di spingerci d’un soffio al di là.

Ma si può stringere un al di là dell’umano, noi essenti nell’umano?

Dovrebbe farsi un grande totale silenzio, e sospendersi le parole, assorti nell’attonito, più sottile dell’appannarsi di un pensiero.

L’Al di là è l’istante della sospensione serale che sempre si dà quando discostiamo un velo, una tenda che sporge sul vuoto. Ma sporgersi sulla finestra è uscire da noi. Come si può stare in noi fuori di noi?

Dunque l’Al di là è un posare la mano sulla tenda. Poi qualcuno ci chiama dalla porta. E ci conduce via.

Bisognerebbe chiederlo alla morte, dell’Al di là. Nessuno ha mai conosciuto la morte. L’Al di là, forse, è la nostra interrogazione sulla morte. Non lo diciamo a nessuno. Vorremmo sorprendere la morte nell’angolo, acquattata. Senza dirlo. Senza dircelo: mai.

In fondo l’Al di là è una domanda sospesa.

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