Tra gli effetti collaterali più insidiosi prodotti dalla diffusione della Pandemia nel nostro Paese vi è anche la sostanziale estromissione del Parlamento dalla vita politica e istituzionale.
Certo, tutti noi sappiamo che la marginalizzazione del Parlamento non è questione di questi mesi. E sappiamo anche quanto male abbia fatto alla rappresentanza parlamentare la retorica della governabilità e l’etica della democrazia decidente che ha imperversato negli anni passati.
Così come non possiamo non rilevare che la dilatazione dei poteri del governo è stata anche alimentata dalle emergenze infinite nelle quali ci trasciniamo da almeno due decenni. Emergenze che tendono a riproporsi con ritmi incalzanti e a intervalli regolari (l’emergenza terrorismo combinata alla partecipazione italiana alle “guerre di globalizzazione” nei primi anni duemila; l’emergenza finanziaria impostasi all’indomani della crisi economica internazionale del 2008 e poi sfociata nel 2012 nella riforma dell’art. 81 Cost.; e, oggi, nel 2020 l’emergenza sanitaria).
La verticalizzazione del comando, ostentata dalla destra e subita dalla sinistra, sin anni dagli anni Novanta ha in questi mesi miseramente disvelato tutte le sue falle. Non solo a livello statale, ma soprattutto territoriale.
Le drammatiche sfide che attendono il nostro Paese (sul piano sanitario, economico, finanziario) ci dicono che c’è bisogno di riaffermare con forza la centralità del Parlamento. Una formula che non allude più – come spesso è stato in passato – a una prospettiva futuribile, un orizzonte di senso, un auspicio. La centralità del Parlamento è in questi mesi divenuta un’istanza fisiologica del sistema, un’urgenza da soddisfare hic et nunc. Un’esigenza politica e sociale alla quale questo Parlamento è tenuto a dare una risposta.
Il Parlamento italiano ha oggi di fronte a sé due sfide dalle quali dipenderanno, in gran parte, negli anni a venire, la sua forza e la sua autorevolezza.
La prima è portare a compimento la riforma del sistema elettorale e avviare la riforma dei regolamenti, puntando su soluzioni in grado di salvaguardare il più possibile la rappresentatività, l’inclusione, il pluralismo politico. Un banco di prova divenuto ineludibile dopo la revisione costituzionale con la quale si è proceduto alla riduzione del numero dei parlamentari, recentemente suggellata dal voto referendario.
La seconda – ma non certo per importanza – è il rafforzamento del ruolo politico e costituzionale del Parlamento nella gestione della crisi sanitaria.
Com’è a tutti noto in Costituzione non è stato recepito l’istituto dello stato d’emergenza (per volontà espressa del nostro Costituente). Ma ciò non significa che non sia possibile delineare, rintracciare o, quanto meno, enucleare nel nostro ordinamento uno statuto dell’emergenza.
Vi allude, in qualche modo, il disposto dell’art. 77 evocando la straordinarietà e l’urgenza (quali presupposti per l’adozione dei decreti legge) e per altri versi l’art. 78 relativo all’emergenza bellica. Entrambe queste disposizioni disvelano – a mio modo di vedere – un paradigma comune imperniato, per un verso, sul raccordo tra Governo, Parlamento e Capo dello Stato, e, per un altro verso, sulla centralità della legge. Questo paradigma normativo ci dice che anche nelle fasi di emergenza (compresa l’emergenza bellica) la democrazia costituzionale non può fare a meno del Parlamento, soprattutto quando a essere (direttamente o indirettamente) coinvolte sono le libertà costituzionali.
Ora, se questo è l’asse costituzionale di riferimento, è evidente che lo strumento del dpcm è uno strumento normativo fuori asse. Diversamente dai decreti legge, i decreti del Presidente del Consiglio non sono atti collegiali (lo stesso Consiglio dei Ministri sconta una sorta di marginalizzazione, che le modalità di esercizio del potere d’iniziativa non sanano), sfuggono al controllo parlamentare, non sono emanati da un organo di garanzia politica qual è il Presidente della Repubblica e non sono suscettibili di essere sindacati dalla Corte costituzionale (quanto meno in sede di giudizio di legittimità).
Né un contrappeso può essere costituto dal raccordo (rivelatosi, anche questo, quanto mai problematico e farraginoso) tra Presidente del Consiglio e Presidenti di Regione, trattandosi – in ogni caso – di un raccordo asfittico e “personale” tra esecutivi.
Così come non può essere definito un contrappeso neppure il giudice amministrativo che dispone di un ambito di legittimazione che gli consente (tutt’al più) di sindacare la proporzionalità delle misure, la loro limitatezza nel tempo, la loro congruità e adeguatezza. Allo stesso tempo continuare ad assumere quale modello esclusivo di riferimento le ordinanze libere o le ordinanze della Protezione civile è un grave errore prospettico: siamo di fronte a disposizioni (molto spesso) indeterminate nella loro durata, che investono l’intero territorio nazionale e, in molti casi, destinate a incidere sui diritti fondamentali.
Di qui l’esigenza di realizzare, sul terreno politico, un più efficace sistema di contrappesi, alcuni dei quali già sperimentati in questi mesi come l’adozione di decreti legge dotati di un ampio raggio di copertura o anche la procedura di parlamentarizzazione delineata dall’art. 2 (comma 1 e 5) del decreto 19/2020 (poi convertito nella legge 22 maggio 2020, n. 35). Soluzione impiegata cinque volte fino a oggi ma, quasi sempre, con esiti insoddisfacenti (per le procedure fragili e caotiche, talvolta impiegate a dpcm già adottati).
Quello che è però mancato, in questi mesi, è stata soprattutto una sede istituzionale di mediazione degli interessi, uno spazio di discussione politica, un luogo plurale di confronto sulla pandemia.
L’ipotesi di istituire in Parlamento una «Commissione bicamerale sull’emergenza epidemiologica da COVID-19» potrebbe costituire un primo significativo passo in questa direzione. Una soluzione per riportare il confronto politico in Parlamento evitando soluzioni improvvisate e posticce (vertici maggioranza-opposizione, cabine di regia, contatti informali).
L’ipotesi alternativa emersa, in questi giorni in Parlamento, è quella di attribuire questa funzione di confronto politico alla Conferenza dei Capigruppo. A sconsigliare questa soluzione sono però i caratteri e la fisiologia stessa di questo organo, che è sì una sede politica di organizzazione dei lavori, ma non una sede di lavoro parlamentare stricto sensu.
Diverso sarebbe, invece, lo spazio politico e costituzionale da attribuire a una Commissione speciale: una commissione costituita per legge, chiamata ad occuparsi esclusivamente dell’emergenza Covid e avente una composizione tipicamente bicamerale (in coerenza con il carattere paritario del nostro bicameralismo). Certo, il Parlamento potrebbe, in alternativa, optare per l’istituzione di due diverse commissioni in ciascun ramo del Parlamento, ma ne verrebbe fatalmente pregiudicata la forza e la capacità di interlocuzione con il governo. Altro requisito di questa Commissione dovrebbe essere (in coerenza con le funzioni di controllo a essa attribuite) l’elezione del Presidente tra i componenti appartenenti ai gruppi dell’opposizione, sulla base di un’ampia maggioranza (almeno una maggioranza assoluta).
Il vero nodo che rimane insoluto è, invece, quello delle funzioni. Nodo che potrebbe però essere sciolto attribuendo alla Commissione esclusivamente funzioni di controllo, il cui esercizio sarà tanto più efficace, quanto più questo organo risulti dotato di penetranti poteri conoscitivi e ispettivi. E tra questi: il potere di acquisizione di pareri e di documenti; il potere di condivisione delle valutazioni tecnico-scientifiche fornite dal Comitato e di tutte le altre informazioni sanitarie a disposizione del governo, anche di quelle riservate (condizione che alluderebbe a un regime della pubblicità temperabile). Nell’esercizio delle sue funzioni la Commissione potrebbe altresì avvalersi anche di analisi scientifiche, audizioni, consulenze tecniche. Teniamo sempre in considerazione che la Commissione si troverà ad operare in un ambito quanto mai intricato e complesso: quello del rapporto tra politica e scienza, tra norma tecnica e norma giuridica.
In coerenza con la sua vocazione istituzionale e politica la Commissione non dovrebbe invece disporre di funzioni normative e neppure di poteri consultivi, meno che mai di poteri vincolanti che finirebbero per introdurre nel meccanismo decisionale elementi di eccessiva rigidità.
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