Foto di Alexandre C. Fukugava da Pixabay
Le recenti elezioni negli Stati Uniti hanno stabilito molti record. Tra questi record c’è quello della campagna pubblicitaria più costosa della storia per un referendum. Si tratta del referendum sulla Proposizione 22 della California: “Esenzione delle società di trasporto e consegna basate su app dal fornire i vantaggi dei dipendenti ai conducenti”. In altri termini si chiedeva agli elettori di fornire una designazione univoca ai sensi del diritto del lavoro statale della California per i conducenti che lavorano per aziende basate su app, mantenendoli nelle condizioni di appaltatori indipendenti. La cifra complessiva reale non è facile da definire, ma Lyft, Uber, DoorDash, Instacart e Postmates hanno versato oltre il 90% dei 205 milioni di dollari ufficialmente spesi a sostegno della Prop 22. Già queste cifre la rendono la campagna referendaria più costosa nella storia americana.
Il risultato:Votanti – 43,5%; Sì – 8.198.547 58,5%; No – 5.821.364 41,5%. Questo risultato a favore delle aziende mette un punto fermo negativo ad un crescendo di lotte e, soprattutto, di piccoli e grandi risultati dei lavoratori di questi settori, ma probabilmente non le interrompe.
Una domanda: perché un investimento così ingente? Volontà di annichilire qualsiasi resistenza? Forse, ma anche paura di perdere. Una piccola traccia c’è nei sondaggi iniziali che davano: il 39% dei probabili elettori favorevoli alle aziende e orientati a votare sì, rispetto al 36% che era contrario e al 25% che era indeciso. A quel punto le aziende avevano già investito 75 milioni di dollari!
Ma più rilevante è l’insieme del testo su cui si è votato. Infatti questo non solo non propone di abrogare la legge del 18/09/2019 che aveva sancito i diritti dei lavoratori in questione, ma si presenta come un elenco di miglioramenti di paga e di condizioni, compreso una quota di assistenza malattia e d’infortunio, dichiarati migliorativi della legge stessa. Questo è apparentemente vero solo su un punto: la legge fa riferimento al rispetto del salario minimo, mentre il quesito propone un salario orario del 120% del salario orario minimo. Il trucco ovviamente c’è: le ore lavorate sono solo quelle dalla presa in carico dell’ordine fino alla consegna avvenuta. Tutte le ore in attesa dell’ordine non sono prese in considerazione come invece avverrebbe nel caso di un lavoratore dipendente. Questo senza contare che in qualità di appaltatori indipendenti, i lavoratori devono pagare le proprie spese – carburante, manutenzione del veicolo e così via.
Dalla legge sono invece riprese le provvidenze sulle assicurazioni in particolare sulla malattia e sull’infortunio. Ma sono uguali solo apparentemente essendo state trasformate in contributi proporzionali alle ore lavorate. Ma è comunque vero che non si riparte dalle condizioni esistenti prima della legge stessa. Per capire come mai, bisogna sapere che la legge era già un piccolo pasticcio. Frutto di almeno quattro anni di trattative fallite. Tanto che in fase applicativa è stata modificata una mezza dozzina di volte, nel corso del 2019, introducendo molte esenzioni. Ma soprattutto perché cercava di mediare tra le aziende ed una sentenza della corte suprema della California del 2018 che aveva imposto un criterio rigoroso per decidere se i lavoratori autonomi debbano essere considerati dipendenti. Un imprenditore indipendente, hanno scritto i giudici, deve essere un lavoratore libero da controllo e direzione nello svolgimento dei compiti; deve essere qualcuno che svolge mansioni al di fuori del normale svolgimento delle attività aziendali; e deve generalmente eseguire ciò che la sentenza ha descritto come “un commercio, una occupazione o un’attività stabilita in modo indipendente”. La causa era stata promossa dai lavoratori della Dynamex. Sentenza che rimane operativa: non a caso le cause in corso rimangono aperte, e sono annunciati da parte sindacale nuovi ricorsi. Ovviamente da una posizione notevolmente indebolita.
D’altronde nella lunga serie di lotte ed iniziative che avevano preceduto la stessa sentenza troviamo anche il precedente seguente: Il 18 dicembre 2015, il Consiglio comunale di Austin ha approvato un’ordinanza per regolamentare le “società di rete di trasporto” (TNC). Uber e Lyft hanno finanziato la campagna Ridesharing Works per Austin per abrogare e sostituire questa ordinanza. Sono stati però sconfitti e il 7 maggio 2016, Uber e Lyft hanno sospeso le loro attività ad Austin. Uber e Lyft hanno comunque ripreso le operazioni di rideshare il 29 maggio 2017, dopo che il governatore del Texas, Greg Abbott (Repubblicano), ha firmato una legge che ha annullato l’ordinanza stessa. Paradossalmente, come vedremo, il testo dell’ordinanza era molto lontano dai contenuti della corte suprema californiana. Ma qui voglio mettere in luce come operano queste società ed anche che i risultati di un referendum possono essere pacificamente annullati. Questo è chiaro anche ai promotori della 22. Infatti le disposizioni della misura approvata includono il divieto di imporre norme sull’occupazione da parte delle comunità locali, creando un ostacolo ben oltre quello imposto per le leggi sul lavoro o per gli aumenti fiscali. L’efficacia legale di questa clausola è dubbia, l’intento ricattatorio no.
Ma continuiamo ad esaminare il testo della proposizione. Dopo i “miglioramenti” citati ci sono due paragrafi: uno che riguarda i controlli che le società esercitano sia rispetto alla guida sotto l’effetto di alcool e droghe che ai precedenti penali, soprattutto in materia di molestie sessuali; un altro fa riferimento alla lotta delle società contro il furto d’identità dei conducenti. Immediata la controdeduzione dei sostenitori del no: i controlli sarebbero più efficaci se fatti su lavoratori dipendenti. Questi paragrafi sono però l’evidenza di una “captatio benevolentiae”, atta a prevenire possibili critiche. Soprattutto se si sa che il centro della citata ordinanza di Austin era rappresentato proprio da misure contro questi fenomeni. Effettuate tramite controlli esterni e non affidandosi all’autocontrollo delle società, un po’ come si fa con la licenza dei taxi. Comunque forse proprio queste clausole hanno permesso la presenza nel comitato per il sì al referendum, accanto alle aziende, delle seguenti associazioni: Vittime del crimine in California; Madri contro la guida in stato di ebbrezza; Unione nazionale dei contribuenti!
Il precedente della serrata texana è stato spesso ripreso come minaccia nel corso delle innumerevoli conferenze stampa tenute dai proponenti della 22. Un cronista ha obiettato che non gli sembrava credibile la rinuncia per tempi lunghi a uno dei mercati più ricchi del mondo. Risposta piccata: non tutta la California è Los Angeles e San Francisco!
Il vero refrain di tutta la campagna per il sì è stato: 4 conducenti su 5 sono a favore della proposta, perché vogliono proteggere la propria libertà ed autonomia. Da dove viene quella cifra? Da una domanda fatta tramite l’app che permette di lavorare ai conducenti medesimi. Se non è come la richiesta fatta in Italia ai riders di firmare il contratto fatto da Assodelivery con l’Ugl pena il licenziamento, poco ci manca. Anzi per non farsi mancare niente hanno obbligato tutti i conducenti a consegnare con la spesa, con la pizza o con la ricevuta della corsa, la propaganda a favore del sì al referendum: Era l’incarto della consegna!
Non voglio passare sotto silenzio una parte della scarsa informazione della stampa italiana sulla questione sintetizzabile nel commento: “Bella figura hanno fatto i socialisti alla Sanders: sono andati a perdere dove Biden ha contemporaneamente raccolto oltre il 64% dei voti!”. Ovviamente è vero che Sanders, insieme a Kamala Harris ed allo stesso Biden, erano nel comitato per il no al referendum. Ma per completezza di informazione si dovrebbe ricordare che gli elettori registrati come democratici sono stati bombardati da mail che riportavano i testi ufficiali di Biden o di Sanders sul voto presidenziale insieme all’invito falso dei medesimi a votare sì al referendum. Ovviamente le immediate smentite sono servite il giusto. Purtroppo va detto, per non imitarli, che erano mail credibili perché provenienti da persone conosciute come democratici. E perché tacere delle campagne di molestie ed intimidazioni di cui è stata fatto oggetto Veena Dubal, una professoressa di diritto della UC Hastings che ha criticato Uber e Lyft e il loro modello di business.
Veniamo alle cifre di riferimento della campagna. L’UC Berkeley Labor Center ha stimato che il salario minimo incorporato nella misura sarebbe effettivamente arrivato a soli 5,64 dollari l’ora. Inoltre le stesse aziende dichiarano che il 92% dei conducenti guida meno di 40 ore a settimana e il 45% dei conducenti guida meno di 10 ore a settimana oppure che i conducenti lavorano in media da 11 a 25 ore a settimana. Come ho ricordato stiamo parlando del tempo effettivo che non calcola il tempo in cui il conducente è “appeso all’app” e perciò può fare ben poco di altro. Secondo le organizzazioni sindacali il tempo complessivo medio reale di lavoro può arrivare a 50/60 ore settimanali e dipende poco dall’orario di guida calcolato mediamente dalle aziende. D’altronde per capire basta pensare ad un autista di taxi fermo ad aspettare la chiamata. Per completezza le aziende parlano di un guadagno medio dai 7 ai 20 dollari all’ora secondo gli orari e le tipologie di consegna. Ricordo che un euro vale circa 1,2 dollari perciò la paga minima citata è di 4,7 euro l’ora. Cito solo altre due cifre estratte dalla consultazione di una parte infinitesimale dei faldoni delle svariate sentenze: le aziende lamentano che il costo del lavoro aumenterebbe del 20% se i conducenti divenissero dipendenti; audit statali hanno rilevato che almeno mezzo milione di lavoratori in una varietà di industrie erano classificati erroneamente come appaltatori indipendenti, con una perdita stimata di 7 miliardi di dollari in tasse statali. Ciliegina sulla torta il 70% dei circa 200.000 lavoratori interessati è “marrone”: cioè è o nero o latino.
C’è stata una sottovalutazione nell’insieme del dibattito? A mio parere, e giudicando oggi, si. La propaganda del no aveva tra le sue priorità la messa in evidenza dei rischi alla sicurezza dei lavoratori del sistema proposta dalle aziende. Mentre minore mi è sembrato il richiamo al rischio per i clienti. Ma quando la campagna elettorale si è trovata nel pieno dell’emergenza Covid-19, ci si è limitati, per me, ad includerlo nei rischi. Senza farlo diventare un tema dominante, anche e soprattutto, rispetto all’utenza. A mo’ di scusante va ricordato che oltre il 70% della campagna si è svolta prima dell’epidemia. Inoltre la California è stata uno degli ultimi stati ad esserne investito.
Mi rendo conto di aver parlato molto di sentenze e del testo su cui si è votato e poco delle iniziative di propaganda e di lotta che hanno costellato gli anni dell’ascesa delle società citate. Ma lo scopo era di far conoscere come sono andate le cose sul referendum. Chi vuole può facilmente trovarle sui siti delle seguenti organizzazioni: California Labour Federation; Rideshare Drivers United; Gig Workers Rising; We Drive Progress e Mobile Workers United. Queste sono le organizzazioni che hanno raccolto circa 10 milioni di dollari per la campagna del No. Con del tempo a disposizione si può andare anche sul sito di: The Fight for $ 15. Organizzazione nata, nel 2012, quando duecento lavoratrici del settore fast-food hanno abbandonato il lavoro per chiedere 15 $/ora e diritti sindacali a New York City. Oggi sono un movimento globale in oltre 300 città. E sono anima e corpo dei referendum vinti, sempre durante l’ultima tornata elettorale, in alcuni stati americani sull’aumento del salario minimo. Una curiosità: sul sito si può trovare una vecchia foto di Sanders in riunione con le lavoratrici citate.
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