Articolo pubblicato il 15.01.2021 su “il manifesto” per la rubrica “Divano”
Città d’arte, centri storici, palazzi, piazze e strade. Si risolve come fosse ovvia, ma una loro appropriata illuminazione dopo il calar del sole non è questione da poco. Che si tratti di Piazza della Signoria a Firenze o dei Quattro Canti a Palermo, del Palazzo dei Diamanti a Ferrara o del Castel dell’Ovo a Napoli, l’illuminazione degli antichi siti urbani e dei monumenti, non è da ritenersi risolta una volta che sia stata affidata alla diligenza amministrativa dei funzionari degli assessorati. Ma non è questione solo delle celeberrime eminenze d’arte come quelle che ho, a mo’ d’esempio, ora richiamato.
Sta di fatto che chi sollecita, presso le istituzioni civiche e le soprintendenze, una speciale e ragionata attenzione al riguardo, o critica il tale o il tal altro intervento, novanta volte su cento riceve poco ascolto. Ed è invitato a non sofisticare troppo con esigenze filologiche, anzi libresche e professorali, riguardo ad un pubblico servizio quale è quello assolto dalla illuminazione notturna delle città, ad evitare che ci si rompa il collo sulla via di casa, tra il lusco e il brusco. Il risultato che se ne ottiene è che centri urbani e monumenti di elevato valore artistico, come troppo spesso disgraziatamente è dato constatare, sono investiti nel Bel Paese dagli effetti di luce prodotti da esagerati riflettori e da lampade colorate. Riflettori e lampade sistemati secondo i ghiribizzi scenografici di dilettanti locali, geometri, architetti, artisti di svariate arti incaricati della bisogna per essere nelle grazie di una giunta o di un sindaco.
Passeggiare di notte le vie nel cuore d’una cittadina dall’illustre passato, alzare gli occhi ad un campanile o fermarsi ad uno slargo è un ritrovarsi immersi in giochi di luce giallastre o bianche che rendono taglienti i bugnati e calcinati i marmi. Effetti artificiosi e deformanti che tolgono consistenza ai volumi e schiacciano i valori architettonici sfigurandone ogni modulo, azzerandone le corrispondenze e rendendone posticcio e quasi indebitamente aggiunto ogni decoro. Se poi guardi il cielo tra i cornicioni dei palazzi lo trovi invariabilmente nero, torvo, una cappa senza una stella. E alla luna, che sia crescente, piena o calante, contende il lume e lo annulla (meglio: lo atterra) il faro impietoso dei Led. Così le città d’arte d’Italia sono, salvo rare eccezioni, preda d’una ignoranza estesa e non scalfita e delle conseguenti, grossolane facilonerie praticate in sostituzione e a spregio della necessaria sapienza che richiederebbe una loro illuminazione, quando fosse attuata secondo criteri culturalmente avvertiti. Un clamoroso esempio di tali subculture imperanti è dato constatare, da alcun tempo in qua, a Roma. Caso strepitoso, perfetto nella sua stupidità e insensatezza, ovvero nella sua idiozia.
Alludo all’intervento che proiettandovi tre bande colorate, una verde, una bianca e una rossa, sottopone a una violenza cieca i calibrati equilibri del prospetto di Palazzo Chigi che si affaccia su Piazza Colonna, dal 1961 sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana. Una facciata realizzata, nel corso di successivi concordi interventi, sui disegni di Giacomo della Porta (1533-1602), di Carlo Maderno (1556-1629), di Pietro de Pomis (1569-1633) e di Felice della Greca (1626-1677), che accoglie le scansioni lineari d’un quadruplice ordine di finestre in corrispondenza delle volute sotto i davanzali delle finestre terrene. Mi è capitato di assistere da un salone al piano nobile di Palazzo Ferrajoli che si affaccia su Piazza Colonna alla improvvisa accensione dei riflettori multicolori sulla prospicente facciata di Palazzo Chigi.
Era l’ora d’un pomeriggio invernale, quando l’ombra della sera incipiente indugiava e non dilagava ancora, in alto, sull’attico pur se, ormai, s’era adagiata e si faceva più scura tra gli stipiti del portone. Vedo la luce verde bianca e rossa che, in un attimo, distrugge l’antico edificio e lo trasforma nel fondale di un povero allestimento patriottico ideato in fureria per la festa del reggimento, che un caporale possa, viva l’Italia, raccontare a casa quant’era bello.
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