Si vuole stravincere molto al di là dei problemi dell’organizzazione del lavoro. Perché tanta furia ideologica? Per quale motivo in un paese come l’Italia e in una regione come la Campania già segnati da tante lacerazioni si vuole aprire un’altra ferita? Come mai si sceglie la strada più difficile e aspra quando sarebbe bastato un appello ai lavoratori, ai sindacati e alle comunità locali a rimboccarsi le maniche per far rivivere un grande impianto industriale meridionale?
No, ci sono tante cose che non tornano in questa vicenda. Dovremmo credere che è una decisione razionale chiudere una fabbrica polacca che funziona, spendere 700 milioni e ricominciare tutto a Pomigliano? Dovremmo credere che tutto ciò si realizzerà nel quadro di un raddoppio della produzione automobilistica in Europa? E’ possibile in un mercato ormai saturo? Oggi sotto il ricatto dell’occupazione si cancellano i diritti, domani si dirà che il mercato non tira e le promesse industriali non potranno essere mantenute. E’ un dubbio legittimo. Non sarebbe la prima volta che la Fiat non rispetta le promesse. Dobbiamo sperare a scatola chiusa che con Marchionne non si ripeta, solo perché è una persona simpatica e conosce il mondo?
E poi facciamoci anche domande scomode: che Europa è mai questa se si fa dumping sociale tra paesi membri? A che vale scrivere trattati sui diritti, tenere corti di giustizia comuni e spandere fiumi di retorica europeista? Se a parti invertite avessero sottratto Mirafiori per portarlo a Varsavia come avremmo reagito? E non era questo dell’auto un settore industriale a domanda calante nel quale si dovevano concertare politiche di integrazione industriale proprio per giocare le carte europee nella competizione mondiale? Si è lasciato gestire alla sala ovale la trattativa tra Opel e Fiat, quando sarebbe stato lungimirante per la classe imprenditoriale e politica europea trovare accordi di partnership industriale almeno venti anni fa. E oggi gli strateghi dell’establishment vengono a fare lezioni di globalizzazione ai lavoratori?
Tutto sembra un pretesto per cogliere un obiettivo diverso dall’organizzazione del lavoro. Siccome c’è l’assenteismo si deve negare il riconoscimento dell’assenza per malattia anche al lavoratore onesto? Le leggi ci sono, si facciano rispettare con i controlli necessari. Sembra però che la Fiat voglia espungere la legge dai suoi stabilimenti. Eppure da oltre un secolo in Italia non si è approvata una legge che la Fiat non volesse. I suoi interessi hanno condizionato tutte le decisioni politiche, hanno succhiato le prebende statali, hanno preteso inutili incentivi alla rottamazione, hanno modificato il paesaggio italiano. Alle cure dei suoi manager sono state affidate le privatizzazioni dall’Alfa alla Telecom e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Per garantire il suo monopolio si è impedito per decenni l’ingresso in Italia ad altri industriali. Alla sua influenza sono stati sottomessi i principali giornali nazionali e questa è la qualità dell’informazione, soprattutto economica, che ci ritroviamo. Ora i manager si lamentano perfino delle troppe assenze degli operai che vanno a fare gli scrutatori; forse hanno esagerato in passato nell’assecondare le richieste di assunzioni clientelari dei partiti. Certo, l’Italia ha avuto dei vantaggi dalla sua principale azienda automobilistica, ma ha pagato anche dei prezzi, non sappiamo se il saldo è positivo o negativo, ma certo i prezzi sono stati salati.
Tutto ciò in passato serviva per lo sviluppo seppure distorto del paese, ma ora dovremmo continuare a svenarci nei diritti per un settore industriale senza futuro come quello dell’auto? Si torna a proporre al Meridione lo sviluppo basato su grandi impianti industriali, secondo una strategia che non solo non ha dato frutti, ma forse ha perfino desertificato le pur deboli capacità imprenditoriali locali. E oggi nell’economia della conoscenza le classi dirigenti nazionali non hanno nient’altro da proporre per lo sviluppo del Sud che catene di montaggio più veloci.
Ora ci vengono a dire che l’azienda torinese è diventata un’impresa globale. Ma se è diventata grande dipende anche da ciò che ha ricevuto dall’Italia. E allora non può dire o così o me ne vado all’estero. La Fiat non può fare ricatti, ha una responsabilità verso il paese. A ricordarlo a nome del popolo italiano dovrebbe essere il governo in carica. Se al ministero ci fosse stato un democristiano avrebbe già convocato le parti e trovato una mediazione. Ora ci sono i nipotini di Craxi e i dipendenti di Berlusconi che sanno seminare solo la divisione tra i sindacati. Risparmiateci almeno il chiacchiericcio politico giornalistico, i soliti editorialisti che dagli uffici ovattati discettano di turni di lavoro, i sindacalisti che fanno accordi tramite le interviste senza mai mettere piede dentro una fabbrica, i capicorrente di questo o quel partito che rilasciano dichiarazioni per dimostrare di esistere anche se non hanno mai visto una catena di montaggio in vita loro. Fateci il favore di smetterla, stavolta la questione è troppo seria, non si fa ridurre ai soliti schemini del politichese.
Ci avevano spiegato che il conflitto capitale-lavoro era finito, che eravamo ormai nell’era postfordista, che gli operai erano scomparsi. Eppure ci ritroviamo di fronte a un duro conflitto di lavoro che l’impresa vuole rendere inconciliabile. Se è così possiamo solo dire: siamo al fianco degli operai di Pomigliano.
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