Interventi

Può anche darsi che abbia ragione Giuliano Ferrara, è in campo il connubio del tempo postmoderno. Conte, con il suo curriculum modestissimo, come lui dice, è comunque un epigono di Cavour. E Zingaretti, con le sue incertezze amletiche, è pur tuttavia, quantomeno di riflesso, l’interprete odierno di Rattazzi. Se poi è nel vero anche Cicchitto, quando promuove Bettini, da stratega dei negoziati per mettere una toppa nei municipi romani a scaltro campione “neogramsciano” alla conquista dell’egemonia nello Stato, allora c’è poco da aggiungere. Altro che palude italiana, qui si vola alto, molto in alto, tra connubio ed egemonia.

E però, un po’ di sano empirismo politico non guasterebbe dinanzi a certi voli ermeneutici degni della più antica filosofia della storia. L’avvocato del popolo ha una sua grandezza, indubbia, va riconosciuta senza però scomodare Cavour. Per la prima volta uno sconosciuto, proprio perché da tutti ignorato nella sua veste pubblica, diventa il capo di governo in un sistema politico occidentale. Alla faccia della retorica dell’età del pubblico, della comunicazione nel villaggio globale, e anche alle leggende della democrazia immediata, alla responsabilità del potere è stato chiamato un professionista di cui nessuno sapeva cosa pensasse sulla città.

Di norma, un politico conquista un ethos pubblico che con il tempo lo porta al potere. In Italia, non accade più così: per vie misteriose si è indicati alla guida del governo per poi acquisire una qualche riconoscibilità nel regno delle opinioni. Un Presidente del Consiglio che prima della chiamata non è mai intervenuto su un quotidiano, preso parola in un convegno pubblico sulle questioni statali è comunque un problema di analisi storico-politica, perché rovescia il percorso ascendente di una democrazia nella parabola discendente per cui il potere da funzione cui si accede dopo il consenso è una postazione da cui si parte (già Monti ha operato qualcosa di analogo) per andare alla caccia del consenso. Del resto, un governo che aveva avuto il permesso di esprimere un ministro per introdurre la democrazia diretta si muoveva al di fuori della cornice della democrazia rappresentativa.

Cosa c’è dietro la forzatura istituzionale della democrazia diretta e del governo di un anonimo? Al fondo, l’idea che il comando politico non richieda autorevolezza, capacità, consenso. È stata proprio questa la prima sensazione a presentarsi alla mente dei due vincitori antisistema del 2018, quando Salvini e Di Maio estrassero dal cilindro una figura assai ghiotta proprio perché priva di spessore, e quindi disponibile a servire i due vice capo nell’attuazione del loro “contratto” persino esibendo cartelloni di propaganda imposti dal capitano artefice dei decreti sicurezza. Da quando gli toccava chiedere l’autorizzazione all’ex capo politico per poter pronunciare qualche verbo in aula, l’avvocato del popolo ha quanto meno acquisito una sua autonoma loquacità in dirette Facebook nel “favore delle tenebre”. E però un’altra anomalia è incarnata da Conte. Mai era accaduto, nella storia delle istituzioni prima liberali e poi repubblicane, che lo stesso presidente del consiglio guidasse maggioranze spacciate come opposte tra loro.

Il mutamento di maggioranza nell’invarianza della leadership, che anzi viene riproposta come punto di equilibrio imprescindibile anche per avviare una terza variante di governo escogitata durante la stessa legislatura, è giustificato in origine dal disegno di addomesticare lo spirito ribelle del populismo con elementi di gentilezza. Questa cura non ha dato frutti se è vero che il principale giornale governativo “Il Fatto Quotidiano” giustifica il governo Conte uno e trino sulla base dell’argomento per cui un “cittadino che ha una professione” è un benedetto “usurpatore” dei privilegi del ceto politico. Appare evidente quale sia il fondamento culturale-politico del governo secondo una importante area di sostegno. Si tratta di un impianto tecnicamente populista, che diffida delle mediazioni politico-istituzionali, del ruolo dei partiti, e investe nella leadership di un outsider che merita lo scettro proprio in nome della sua estraneità al professionismo politico e ai suoi riti. Del resto il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari aveva alla sua radice questo impianto.

Al populismo forte e sovranista di Salvini e Meloni si contrappone dunque un populismo mite che per vocazione fugge dalle fatiche della conquista delle masse con battaglie, radicamento sociale per rifugiarsi nelle tattiche di ammiccamento e allargamento della maggioranza condotte tutte dentro gli apparati del potere. Il populismo gentile, che diventa il rifugio dell’establishment allarmato per i costi elevati della soluzione sovranista alle porte, trova un fragile terreno di appoggio in un sistema nel quale ben poco di saldo rimane. Il Pd ha poche carte da spendere come forza essenziale di tenuta del sistema. Il suo potere di ricatto è sterile perché vive in un dualismo irriducibile tra segreteria politica e orientamento dei gruppi parlamentari. Il M5S è sempre più un non-partito ingovernabile, attraversato da micro fazioni che sono paralizzate tra di loro per la sensazione di un esaurimento della funzione storica dell’invenzione grillina e anche per la certezza della contrazione drastica del numero dei parlamentari rieleggibili.

In questa elevata decomposizione del quadro politico-parlamentare, nella avanzata dissoluzione delle aggregazioni esistenti, la gestione del governo diventa essa stessa problematica e una scommessa ardita diventa l’invenzione di un indirizzo politico condiviso, difficile da far nascere per vie solo istituzionali, con l’intenzione di arrivare caoticamente sino alle elezioni del prossimo Presidente della Repubblica. La inopinata riemersione di Renzi si spiega proprio per la torsione tatticistica subita dalla politica ridotta a giochi, manovre di corto respiro, a tentativi di indebolire un alleato inaffidabile allargando in maniera raccogliticcia i confini della maggioranza. In questo scenario neo-rinascimentale, Renzi è capace più di ogni altro suo competitore di dare lezione di tattica e di disegnare a freddo delle spregiudicate manovre dirompenti e corsare. Indifferente ai tempi, sfida, rompe, minaccia nella consapevolezza che delle difficoltà obiettive lacerano la coalizione di governo e che il suo gioco doppio (quello di indurre dapprima il Pd all’abbraccio strategico con il M5S per poi denunciarne i costi culturali e i cedimenti politici giudicati insostenibili) è il solo che gli consenta di condurre una politica di movimento per la conquista di uno spazio ora assente.

Il Pd non ha approfittato delle opportunità tattiche che la rottura renziana spalancava e ha accentuato la sua identificazione con i destini di Conte (neppure cercando di impedirgli di “parlamentarizzare” la crisi e quindi di creare un problema non da poco al Quirinale) in un gioco di stabilizzazione dell’ordine infranto che lo induce al sacrificio in nome della difesa del “punto di equilibrio”. La giusta paura che incute soltanto l’idea che al governo salgano un giorno i sovranisti (proprio ora che l’asse franco-tedesco concede fondi europei per la ripresa) potrebbe non bastare per contenere il retroterra politico e sociale della destra. Non si può limitarsi a ripetere che le elezioni anticipate sono da scongiurare data la minaccia del virus (quindi Trump non doveva essere rimosso?), che il cambio di un premier è folle, come sostiene Le Monde, in tempo di pandemia (però proprio Macron lo ha sostituito nel luglio scorso). Le difficoltà dell’azione politica impediscono qualsiasi tattica utile per scuotere il monolitico blocco sovranista, con l’accentuazione della potenziale frizione tra la cosiddetta Lega amministratrice e la Lega del capitano. La mancata congiunzione tra stanca bonaccia parlamentare e promozione di movimenti della società è l’anello mancante nell’azione di una politica che si illude di sconfiggere la destra con “lodi” furbeschi e rinunciando al pensiero.

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