Interventi

Il senso della sfida che – con il nuovo sito – il CRS sta lanciando (innanzi tutto a sé stesso) è stato precisato e illustrato da Maria Luisa Boccia e da Giulio De Petra. Mi limiterò a pochissime parole per sottolineare come –innanzi tutto per me – questa sfida sia una sorta di passaggio del Rubicone (certamente non fatale, come quello di Cesare, ma non meno radicale nel mio immaginario). Passaggio del Rubicone che consiste nell’affiancare alla attività di produzione di cultura critica il tentativo, e l’impegno, di renderla (anche) pungente, efficace, pubblica. In una parola: politica. Capace di interloquire con quel vasto mondo disperso di sinistra – istituzionale e non, e di volontariato – che non conosciamo a sufficienza. Capace di essere il piccolo avvio di quel che potrebbe diventare l’esito di una fatica di Sisifo (senza fine, ma in realtà vincente). Esito in cui arrivare in cima al monte significherebbe arrivare a scalfire l’egemonia di quella cricca di boriosi soi-disants sapienti che da decenni, occultando i veri interessi dei loro mandanti, opera come un vero Minculpop, stabilendo le coordinate e i confini della cultura italiana “rilevante”.

Questa cultura è stata il veicolo del neoliberismo, al quale vuole ancora tenere soggiogata la nostra società. Parte importante di questo disegno, spolverato di buoni sentimenti, è la subdola attenzione che dedica alla sinistra, sempre agitando il miraggio di una sua trasformazione più europea, più moderna, più liberale, definitivamente sciolta dai miti novecenteschi, e tutta interna, invece, al latinorum della finanza internazionale.

La fusione Stampa-Repubblica, il licenziamento dalla sera alla mattina del direttore di quest’ultima, la repentina chiusura di MicroMega, la crisi del governo Conte e la particolare avversione al ministro Gualtieri, il ritorno al centro della scena di Renzi (con tutte le volgarità, accuratamente studiate: dalla richiesta di abolire, oggi, il reddito di cittadinanza alla visita in Arabia saudita…) sono sintomi del fatto che la destra sta affilando le armi. Sta scendendo in campo aperto.

Non è più tempo, dunque, di sola cultura di nicchia (che resta comunque il fondo irrinunciabile).

È tempo di lotta per cercare di scardinare questa cappa avvilente e bloccare questa orda avanzante. E in ogni caso per evitare che Draghi finisca con l’essere usato come il condottiero finale di questa avanzata. Ma su Draghi, critico della “epidemia narrativa” in cui l’economia ha nuotato fino ad oggi, (profilo sul quale la cricca di cui sopra ha finora taciuto) torneremo in altra sede.

L’esito finale di questo lavoro, da programmare con altrettanta consapevolezza, è quello di seminare, nel corpo della società italiana qualche seme di cultura politica “di massa”, che, in extremis la salvi dal precipitare ancor più a fondo nella catastrofe in cui già si trova.

Catastrofe” può essere la parola che descrive compiutamente il momento che attraversiamo.

Ma assumere come concetto unificante quello di catastrofe richiede molta precisione, perché si deve assolutamente evitare che il concetto stesso venga inteso solo come una situazione oggettiva – per quanto devastante. La catastrofe solo “osservata” genera il catastrofismo, e dunque la diserzione. Sono invece i riflessi soggettivi e sociali di una situazione di fatto, distruttiva, che la parola vuole cogliere: l’emergere del male nella natura lo fa emergere – come tradimento, vigliaccheria, povertà di spirito, brama di rapina – nella società e nell’uomo, come lo sciacallaggio dopo il terremoto.

Ad illustrare questo nesso tra catastrofe e male, intimo e collettivo, utilizzo questo brano di Vasilij Grossmann, scritto nel 1943: «Era una notte cupa perché la terra era cupa. Gli uomini di Hitler erano la grande menzogna della vita. E dovunque arrivassero, viltà, tradimento, brama di omicidio e massacri ai danni dei più deboli lasciavano le tenebre e guadagnavano la superficie. E come la strega cattiva delle antiche fiabe evoca gli spiriti del male, quegli uomini facevano affiorare i lati più oscuri delle persone. Quella notte la cittadina era stretta nella morsa di quanto di cupido, cattivo, fetido e sporco si era risvegliato, smosso dall’arrivo dei nazisti. Traditori e deboli di spirito uscirono da fossati e cantine, strapparono e gettarono nel fuoco i libri di Lenin, le tessere del partito e le lettere, staccarono dai muri le fotografie dei fratelli. Le lusinghe dell’abiura trovano sempre terreno fertile tra i poveri di spirito; per una lite tra comari al mercato o una parola scappata di bocca nascevano subito pensieri di vendetta; durezza, egoismo, indifferenza contagiavano i cuori. Per salvarsi la pelle, i vigliacchi si inventavano denunce contro i vicini di casa. E così dappertutto, in città grandi e piccole di paesi grandi e piccoli, ovunque arrivassero gli uomini di Hitler la feccia si levava dal fondo di fiumi e laghi, i rospi emergevano in superficie, e dove prima si coltivava il grano crescevano cardi»1. Ovviamente il contesto storico è transeunte; ma il nocciolo della questione è sempre quello.

Note

1 Da Il vecchio maestro (1943), in Il bene sia con voi (raccolta di saggi, Adelphi Milano 2011, pp. 17-18), libro coevo de Il popolo è immortale, in cui Grossman, corrispondente con il corpo d’avanzata sovietico, esalta i sacrifici sofferti dai popoli dell’Unione Sovietica durante l’invasione tedesca.

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