In Europa è nato il movimento Half of It, intuizione e slogan di una eurodeputata verde, Alexandra Geese, che ha trovato radicamento in tutta Europa, articolandosi in tante forme diverse, come spesso avviene nel movimento delle donne. Si tratta di uno slogan che nel dibattito italiano si è tradotto in una vivace e interessante mobilitazione delle donne, formando, disfacendo e riformando vecchie e nuove reti ed elaborando diverse posizioni e proposte, come ad esempio “Noi siamo la cura” promosso dall’assemblea della Magnolia, o la proposta di manifesto dello stesso Half of It sull’occupazione femminile come emergenza del Paese. Sono tutte forme di partecipazione che vedono protagonista anche il sindacato o, più precisamente, le donne del sindacato. Queste ultime, a livello europeo, sono molto impegnate in due obiettivi, sintetizzabili in balance e trasparency, titoli delle due direttive finalizzate a garantire diritti e tutele universali per le cittadine e i cittadini europei.
Il termine balance (bilanciare) vuole indicare qualcosa di più efficace dell’idea di conciliazione, termine invece molto utilizzato in Italia ma che riflette una logica più familista che di cittadinanza, rivelandosi come una trappola per le donne che si conciliano, ma con loro stesse. L’idea di bilanciamento, invece, affronta esplicitamente il tema della condivisione e della redistribuzione. Non si tratta certo di una direttiva femminista ma, anche per l’impegno e la mobilitazione delle donne europee e del sindacato europeo, propone la paternità obbligatoria quale norma da attuare in tutti i Paesi, definendo un numero minimo di giorni più alto rispetto a quelli previsti dalla norma italiana e invitando ad andare oltre.
Ciò si basa sul concetto di non discriminazione europeo, che non sempre gioca a favore, il quale recita: “padri e madri condividono la responsabilità ed entrambi devono avere gli strumenti per farlo”. Infatti, in tema di permessi e genitorialità, la volontarietà di scelta ripropone il gender gap, subisce gli stereotipi sui ruoli e così via e si traduce nelle donne che condividono con loro stesse.
La direttiva, infatti, non scinde ancora tra lavoro e genitorialità e propone, pur non sempre risolvendolo, il tema dell’organizzazione del lavoro e degli orari, ipotizzando una flessibilità positiva non esclusivamente femminile. Pur essendo già presente, la sua applicazione è una sfida aperta, perché sono i singoli stati a dover dare attuazione alle norme europee.
Per quanto riguarda il progetto di trasparency, come trasparenza delle retribuzioni, si tratta di una direttiva in itinere, evidentemente contrastata da molti, dal momento che la sua presentazione continua ad essere rinviata.
La strada che questo progetto propone per contrastare il gender pay gap è quella del conoscere le retribuzioni, rendere visibile dove sono le differenze e così permettere di indagare sulle ragioni delle discriminazioni e degli stereotipi a esse sottese. Tutto ciò nella convinzione, giusta, che il pregiudizio legato alla minor retribuzione delle donne si annidi nel salario unilaterale ben più che in quello contrattuale o nel salario minimo, e che i mancati percorsi professionali o di carriera fungano da ulteriore amplificatore del gap.
Questo impegno, in Europa, è stato sempre accompagnato dalla rivendicazione di rappresentanza e, contemporaneamente, è stato legato ad un tempo “tranquillo” in cui, seppur lentamente e con molte contraddizioni, l’occupazione femminile cresceva e l’obiettivo era, come è ancora, dargli qualità e piena cittadinanza. Oggi, invece, tutti i dati indicano un arretramento nell’occupazione, che in Italia è tornata ai livelli del 2005, ma che, allo stesso modo, si verifica in Europa e anche in paesi “insospettabili”.
In questo senso, rispetto a una tale situazione, la pandemia ha provocato come effetto violento ed esplicito un aumento della disoccupazione femminile, in particolare delle giovani, in Italia ben più che nel resto d’Europa. La domanda che ci si deve porre è: perché l’occupazione femminile tracolla e perché si tratta di un’emergenza non solo italiana?
La risposta sta nel carattere più precario, a termine, e più marginalizzato del lavoro femminile. Per questo le giovani rivendicano con più forza dei e delle senior il contrasto alla precarietà, guardano al riconoscimento contrattuale, per esempio quello dei lavoratori e delle lavoratrici delle piattaforme, e vogliono chiarezza e diritti non solo nel riconoscere lo stato di dipendenti per i falsi autonomi, ma anche diritti per gli/le autonome “vere”. Non stupisce, quindi, che tanta attenzione sia ora concentrata su NGUE (Next Generation UE) e sui piani nazionali.
Il lavoro, lavoro di qualità, o decent work per usare il linguaggio internazionale, torna a essere centrale, coniugato alla certezza che autonomia, libera scelta, indipendenza sono più conquistabili ed affermabili se si è autosufficienti nel reddito e nella realizzazione dei propri desideri e progetti professionali e di vita. Ciò non è scontato, essendo passati ben otto mesi tra l’approvazione di NGUE e l’introduzione del vincolo della valutazione dell’impatto di genere da parte della Commissione europea, una conquista, nonché uno strumento per l’emergenza occupazione, e un primo passo per affermare che gli obiettivi dei piani nazionali, l’ambiente e la tecnologia non sono neutri.
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