Articolo pubblicato su “transform! italia” il 03.03.2021.
Nel mare di banalità e di distorsioni diffuse in questi mesi, da storici improvvisati e intellettuali arrangiati, sulla nascita e sulla dissoluzione del Pci circola, di tanto in tanto, un assunto: all’indomani della svolta della Bolognina, fu Pietro Ingrao a raccogliere la bandiera del dissenso interno, dando vita alla mozione “Per un vero rinnovamento del Pci e della sinistra”. Ma a fronte del «deludente risultato» ottenuto dalla sua mozione nel XX Congresso del Pci (febbraio 1991), il dirigente comunista decise di abbandonare il partito e di non aderire al nuovo soggetto politico. La prima parte di questa ricostruzione è esatta. La seconda è del tutto priva di fondamento.
Ingrao, all’indomani del Congresso di Rimini, non solo non aderì alla scissione, ma decise di rimanere «nel gorgo», aderendo al nuovo soggetto politico (il Partito democratico della sinistra) nella speranza di trovare, al suo interno, «ancora uno spazio di discussione».
E discussione ci fu, soprattutto quando il leader dei “comunisti democratici” decise di schierarsi apertamente contro il referendum per l’introduzione del maggioritario, voluto da Mario Segni e attivamente sostenuto dalla segreteria di Occhetto.
Ma anche in quell’occasione il dissenso di Ingrao non si tradusse in rottura. La rottura avvenne, invece, qualche settimana dopo, quando gli eredi del Pci decisero «a cuor leggero» di entrare a far parte del Governo Ciampi. La decisione di appoggiare un governo “tecnico”, guidato da chi aveva fino a quel momento rappresentato il vertice della Banca d’Italia, fu da Ingrao giudicata «gravissima».
Ad agitare il dirigente della sinistra erano, innanzitutto, le sorti della Costituzione italiana. Una Costituzione – aveva evidenziato già negli anni della sua Presidenza della Camera – fondata sul primato dei diritti e sulle ragioni della democrazia. E in quanto tale ontologicamente avversa a «una visione “elitaria”, tecnocratica, del potere» (P. Ingrao, Un deficit di collante politico e di rappresentanza).
Di qui la critica di Ingrao alla retorica della «repubblica degli esperti» che già nei primi anni Novanta iniziava a serpeggiare in Italia (P. Ingrao, Un deficit di collante politico e di rappresentanza, in Dem. dir, 1993) e il cui punto d’approdo sarebbe stata la genesi dei cd. governi tecnici: una vera e propria perversione tecnico-istituzionale partorita dal funzionalismo comunitario e avente quale recondita missione quella di sottrare alla politica ambiti di decisione sempre più rilevanti per trasferirli a organi neutrali, banche, autorità indipendenti, comitati di esperti. Soggetti del tutto sprovvisti di legittimazione democratica e, pertanto, non sottomessi alle regole della responsabilità politica.
È a partire da queste istanze che, nel corso del tempo, sono venute scaturendo le inquietudini del potere tecnocratico e le pretese del sistema finanziario finalizzate a blindare l’indirizzo politico dei governi e assicurare il loro «allineamento al trend neoliberista internazionale di matrice reaganiana e thatcheriana». Fu questa – secondo Ingrao e Rossanda – «la strada imboccata dal governo Amato nel ’92, poi ripresa dal Governatore Ciampi e Dini» (P. Ingrao – R. Rossanda (1995), Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma, 1995, p. 35). Tendenze del tutto inedite con le quali la sinistra post-Maastricht doveva necessariamente fare i conti.
Ma quali furono esattamente le ragioni che spinsero Ingrao a rompere definitivamente con il partito in occasione della formazione del Governo Ciampi? E perché, nell’assumere quella decisione, impiegò le parole: «vedo buio»? Per scoprirlo dobbiamo risalire alla relazione introduttiva svolta da Ingrao alla “riunione d’area” tenutasi alle Frattocchie il 15 maggio 1993.
Tre i rilievi formulati in quell’occasione, a partire dai quali il leader comunista argomenterà il suo «radicale dissenso di analisi». Rilievi che sarebbe errato oggi liquidare come “contingenti”, trattandosi di profili generali concernenti la natura e la comune fisiologia dei governi tecnici:
a) I governi tecnici non sono un’ineluttabile necessità imposta dalle fibrillazioni degli assetti parlamentari, dalla «crisi di un sistema politico e di una trama di partiti» (crisi, in quel caso, determinata dal referendum del 1993, dalla dissoluzione dei partiti di massa, dalle inchieste di Tangentopoli contro il “Parlamento dei corrotti”). La loro formazione discende piuttosto dalle dinamiche di accelerazione del processo di integrazione europea. Un processo destinato a investire «in modo flagrante il tipo di sviluppo», l’ordine economico, la tenuta stessa del «blocco sociale» entrato in crisi (anche) perché «debito, bilancio statale, moneta, inflazione non reggono più lo scontro europeo».
Erano questi i nodi reali che il governo Ciampi era chiamato ad affrontare. D’altra parte – dirà Ingrao – non si arriva a scomodare il Governatore della Banca d’Italia per «approntare solo la legge elettorale». La “narrazione” ostentata in quei giorni dal sistema mediatico italiano si fondava su «una finzione penosa». Perché il governo Ciampi non era nato per affrontare la crisi dei partiti, ma per “risolvere” alcuni nodi essenziali della vita economica e finanziaria del paese e dello Stato: «approntare la nuova legge finanziaria; concludere la trattativa con la Confindustria e i sindacati; procedere nelle privatizzazioni; affrontare tutto il problema del pubblico impiego e i capitoli rimasti dolorosamente aperti dello Stato sociale».
b) La «soluzione tecnica», sottesa alla formazione di questo tipo di governi, sebbene transitoria e temporalmente delimitata alla risoluzione dell’emergenza, non mira al ripristino dello status quo ante, ma punta piuttosto a delineare nuovi scenari per gli anni a venire. D’altra parte il governo tecnico – precisa Ingrao – «non è un governo neutro», ma piuttosto un punto di coagulo di interessi economici e finanziari protesi a orientare le trasformazioni del sistema, stabilizzarne il quadro politico, «ricostruire un centro moderato poggiato su una nuova forma di oligarchia borghese». Non è un caso che in occasione della formazione del governo Ciampi un ruolo determinante sia stato assolto dalla «corrente referendaria di Segni» e dal «mondo del laicismo azionista con i suoi rapporti con la grande finanza, con l’arco delle competenze, delle tecnocrazie e dei grand commis che hanno la loro punta di lancia e il loro primo strumento pratico e ideologico in quel giornale di schierata battaglia che è Repubblica».
c) Il debole e remissivo coinvolgimento delle principali forze politiche nell’arena di governi tecnici altera gravemente il processo di formazione degli esecutivi permeandolo di tratti oscuri, consultazioni blindate, passaggi opachi. Ingrao si riferisce alle gravi alterazioni della prassi costituzionale registratesi in occasione della formazione del governo Ciampi, via via trasformatasi in «una trattativa occulta … alla faccia dell’articolo 92». Ma il leader comunista menziona anche la bizzarra riconversione, verificatesi in quell’occasione, dell’istituto della fiducia parlamentare in «fiducia morale»: un «consenso gratis» al Governo espresso in assenza di una compiuta «verifica delle scelte politiche sui programmi». Dirà Ingrao: «io non so letteralmente dire se il programma di Ciampi è stato ritenuto dalla direzione del Pds esistente o inesistente e se esistente anche valido oppure non valido e dove non valido. Personalmente io ho sempre ritenuto e affermato … che i programmi si giudicano in rapporto agli uomini che li realizzano e alle forze che li sostengono, ma qui vedo svanire l’oggetto stesso, quella della verifica dei programmi definiti come il primo e vero banco di prova».
La riflessione di Ingrao risale a circa trent’anni fa. Ma da essa possiamo trarre spunti interpretativi quanto mai efficaci per leggere la storia italiana e il nostro presente. Perché – a ben vedere – è proprio lungo il crinale lucidamente delineato da Ingrao che si sono mossi i governi tecnici (e tecnico-politici) degli ultimi trent’anni, con i loro capi, le loro virtù salvifiche. E soprattutto con la benedizione perpetua dei poteri finanziari: «altro che nuovo Giolitti, altro che New Deal ed ecologismo…».
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