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La questione meridionale nel PNRR

Qualche settimana fa, la ministra per il Sud e la coesione territoriale ha dichiarato: “D’altra parte, all’Italia spettano 209 miliardi di Next Generation EU proprio perché esiste una questione meridionale ancora aperta” (5 marzo 2021). La frase che può apparire innocua e ribadire una situazione nota, si può interpretare come una dichiarazione politica di notevole rilevanza. Infatti, da questa espressione originano due quesiti. Il primo attiene all’esistenza o meno di una “questione meridionale” e di quali siano i suoi contenuti. Il secondo, riguarda invece, la funzione svolta dalla questione meridionale e le sue implicazioni rispetto alle scelte politiche dei governi. Si tratta di un tema ampio e complesso. Mi limito a formulare alcune risposte a questi interrogativi a partire dalle parole della Ministra e da alcuni fatti recenti, primo tra tutti l’ampia disponibilità di risorse economiche di cui l’Italia potrà disporre grazie al fondo Next Generation EU1. Com’è noto, il Governo ha predisposto un “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR) che si articola in 6 missioni e, al loro interno, in 16 componenti. Al Piano sono destinati 191,5 miliardi di euro, finanziati attraverso il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza, lo strumento chiave del Next Generation. Ulteriori 30,6 miliardi sono parte di un Fondo complementare, finanziato attraverso lo scostamento pluriennale di bilancio approvato nel Consiglio dei ministri del 15 aprile. Il totale degli investimenti previsti è pertanto di 222,1 miliardi di euro. A questi si aggiungono altri 13 miliardi resi disponibili dal programma REACT-EU per gli anni 2021-2023.

La finalità dichiarata è quella di incrementare la quota di investimenti pubblici del PNRR e di sostenere gli interventi per il riequilibro territoriale, con una forte attenzione al Sud mediante il rafforzamento delle infrastrutture materiali e immateriali e il potenziamento dei servizi pubblici essenziali.

Il programma è ambizioso dato che si propone di invertire l’andamento dell’economia, ma anche di superare i più importanti divari che caratterizzano l’Italia. In particolare, il PNRR individua tre grandi questioni da cui originano sistemi strutturali di disuguaglianze: i divari di genere, quelli generazionali e quelli territoriali, in particolare quello Nord-Sud.

Riferendosi a quest’ultimo, le parole della Ministra e i principali documenti della programmazione economico-finanziaria del Governo richiamano esplicitamente la “questione meridionale”. Il Mezzogiorno e la sua strutturale arretratezza economica, politica e sociale favoriscono l’arrivo in Italia di consistenti finanziamenti europei e il Sud è individuato come prioritario nella programmazione dei fondi. Al momento sono stati indicati alcune grandi opere nell’ambito delle infrastrutture, soprattutto sulla mobilità e il rafforzamento dei trasporti. Vi sono poi gli investimenti della missione 2 di attuazione delle transizioni ecologiche, a partire dall’uso di risorse energetiche sostenibili. Si tratta di aree strategiche, ma sarà la loro distribuzione territoriale delle risorse e i progetti realizzati che determineranno la riduzione dei divari tra i territori. Al momento il Governo ha stabilito che la parte più consistente dei fondi sarà destinata ai “nuovi progetti”, anche se non manca una quota riservata ai “progetti in essere” coerenti con il regolamento Recovery and Resilience Facility (RRF). Rispetto alla distribuzione territoriale delle risorse, qualche precisione è stata fatta dalla ministra Carfagna nel corso del Question Time al Senato del 15 aprile in cui è emerso che la quota riservata al Sud raggiunge il 40% dell’intero PNRR, così come confermato nella stesura presentata il 25 aprile2; inoltre, di recente è stato consegnato alla Commissione europea il documento di programmazione del piano europeo REACT-EU in cui si è stabilito di dedicare al Mezzogiorno 8,5 miliardi dei 13,5 disponibili. Ulteriori misure riguardano il potenziamento delle zone economiche speciali (ZES), la rete dei servizi pubblici e la pubblica amministrazione3. Anche in questo caso, la Ministra Carfagna ha dichiarato la piena soddisfazione rispetto all’intervento che testimonia la volontà di intervenire sul Mezzogiorno, sfatando la comune percezione che gli investimenti al Sud costituiscano un dispendio inutile di risorse. Quest’ultima rappresenta un’opinione condivisa anche da autorevoli esponenti del dibattito politico accademico4.

Altro punto da chiarire è la governance delle risorse. Infatti, nel Piano si prevede una responsabilità diretta dei ministeri e delle amministrazioni locali per la realizzazione degli investimenti e delle riforme entro i tempi indicati, e per la gestione regolare, corretta e efficace delle risorse. È previsto un ruolo significativo degli enti territoriali a cui competono investimenti per circa 87 miliardi di euro. Il Ministero dell’economia e delle finanze assume il compito del monitoraggio e il controllo dei progressi nell’attuazione delle riforme e degli investimenti e funge da unico punto di contatto con la Commissione europea. Sarà istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri una cabina di regia con il compito di verificare l’avanzamento del Piano e i progressi compiuti nella sua attuazione; di monitorare l’efficacia delle iniziative di potenziamento della capacità amministrativa; di assicurare la cooperazione con il partenariato economico, sociale e territoriale; di interloquire con le amministrazioni responsabili in caso di riscontrate criticità; di proporre l’attivazione dei poteri sostitutivi, nonché le modifiche normative necessarie per la più efficace implementazione delle misure del Piano. Un aspetto interessante riguarda la parte sul sistema di audit e controllo dato che, in considerazione della specificità dello strumento finanziario ed in linea con quanto raccomandato dalla Commissione Europea, il PNRR prevede verifiche aggiuntive rispetto all’ordinario e vigente controllo amministrativo stabilito dalla regolamentazione nazionale per l’utilizzo delle risorse finanziarie assegnate. Anche se sarà necessario osservare come concretamente si struttureranno i controlli, sembra palesarsi un nuovo modo di intenderli che risponde alle indicazioni che provengono dalla Commissione europea e dalla Corte dei conti europea che concentrano la propria attenzione sulla capacità di usare i controlli e l’audit per il monitoraggio “in corso d’opera” e non solo nelle fasi di chiusura e di rendicontazione dei progetti. L’efficacia di questi processi di innovazione istituzionale dipenderà direttamente dalla capacità dell’attore politico di avvalersi di questi strumenti al fine di migliorare la qualità della governance multilivello e, in particolare, dell’azione delle amministrazioni pubbliche. Anche da questo punto di vista, si tratta di un’occasione da non perdere.

Il PNRR come “punto di svolta” della governance multilivello

In questo momento l’Italia si trova in una fase politico-istituzionale, economica e sociale particolarmente importante in cui si può segnare una rottura nelle scelte politiche rispetto a quanto fatto negli ultimi due decenni, in particolare dopo la crisi del 2008. La pandemia da Covid-19, che ha fatto emergere una mappa di efficacia ed efficienza dei servizi pubblici (primi tra tutti il sistema sanitario e quello scolastico) non interpretabile secondo lo schema Nord-Sud, offre la possibilità di riflettere sui divari territoriali, sulla governance multilivello, sui rapporti tra governo nazionale e autonomie locali e sui contenuti attuali del rapporto centro-periferia. Le disparità interne al paese sono inserite in un sistema di trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali che si sviluppa a livello nazionale e internazionale. Le politiche e gli effetti che queste possono produrre sui territori dipendono direttamente non solo dai divari territoriali interni, ma dal ruolo che ciascun territorio assume nei contesti internazionali, soprattutto nella divisione internazionale del lavoro e nelle catene globali del valore. Per queste ragioni, le politiche necessitano di conoscenze complesse, di una centralizzazione degli interventi, o almeno di una progettazione, programmazione, monitoraggio in ogni fase attuativa anche al fine di valutare gli effetti sui territori. Infatti, sono i meccanismi di attuazione sostanziale degli interventi che, se non gestiti, possono originare e accrescere le disuguaglianze secondo una mappa che non necessariamente segue i divari Nord-Sud. I rischi sono accresciuti anche dalla governance multilivello che concede alle autonomie locali capacità di programmazione e spesa senza che si verifichi la loro coerenza criteri e obiettivi del governo nazionale5. Nell’articolazione del PNRR questi elementi sono presenti, ma frammentari. Se si considerano gli interventi delle missioni 1 e 2, si intravede l’idea di un rinnovamento del sistema produttivo a cui dovrà corrispondere una politica industriale che sintetizzi le scelte dell’Italia rispetto ai settori produttivi su cui si intende investire al fine di riposizionare i settori produttivi nelle catene globali del valore, soprattutto in quelle a più alto valore aggiunto. In questa complessità l’identificazione del Mezzogiorno con la “questione meridionale” può rappresentare un limite dato che induce a considerare il Sud come una totalità indistinta, ma soprattutto come un contesto economico e sociale isolato e destinato a perdurare in una condizione di ritardo rispetto alle altre regioni italiane. Si tratta di un processo di ipostatizzazione della realtà che fino a ora ha condizionato la programmazione e gli interventi pubblici. L’azione differenziata per le diverse aree del paese ha ridotto le capacità di definizione di obiettivi di crescita e il superamento dei divari, anche per una limitata azione di coordinamento e una inefficace attività di controllo sulle amministrazioni regionali e gli enti territoriali nella loro funzione di attuatori delle politiche. Inoltre, la disponibilità di fondi alle regioni con la conseguente possibilità di intervento, così come previsto dalle politiche di coesione, e l’attribuzione crescente di funzioni agli enti locali e territoriali ha attenuato il ruolo del Governo. I risultati delle azioni degli ultimi decenni testimoniano che le capacità di governo e di spesa delle regioni sono estremamente differenziate e che in molti casi sarebbe stato necessaria una linea di indirizzo nazionale e una programmazione degli interventi concordata tra i diversi attori della governance multilivello. Strategie analoghe avrebbero dovuto interessare anche l’azione della pubblica amministrazione con strategie che andassero oltre la mera definizione dei livelli standard delle prestazioni e dei servizi che, nei fatti, sono stati usati solo strumenti per garantire l’economicità dell’azione amministrativa mediante il controllo sulla spesa.

Infine, ma non meno trascurabile, la rappresentazione pubblica del Mezzogiorno come “questione meridionale” può favorire contrapposizioni tra i cittadini e i gruppi sociali sulla distribuzione delle risorse, nella creazione di stereotipi che rafforzano gerarchie sociali incentrate sull’idea della dipendenza e dell’assistenzialismo di un’area del paese da un’altra6.

Dalla questione meridionale al Mezzogiorno: il vero problema sono le disuguaglianze, a partire dall’istruzione.

Gli esiti delle ricerche e i dati disponibili evidenziano la persistenza di notevoli divari territoriali, di cui il più importante contrappone il Mezzogiorno al Centro-Nord7. Vi sono almeno quattro grandi dimensioni in cui si può declinare il divario tra le due aree del paese: l’istruzione, la demografia, la politica industriale e il funzionamento della pubblica amministrazione sia nella sua funzione di erogazione i servizi, sia nella sua capacità di spesa dei finanziamenti pubblici. Tutti i principali indicatori relativi alle quattro dimensioni forniscono un quadro preoccupante della situazione delle regioni del Mezzogiorno. Di particolare gravità i dati sull’istruzione e la scolarizzazione sia in termini quantitativi, sia qualitativi. Le difficoltà cominciano nel modesto accesso ai servizi formativi per l’infanzia. La quantità dei posti disponibili negli asili nido, la loro distribuzione territoriale, la loro accessibilità e la qualità dei servizi erogati compongono un puzzle di disuguaglianze che penalizza soprattutto il Mezzogiorno8. L’esclusione da questa fase della formazione condiziona i percorsi e gli esiti dell’intero percorso scolastico dei ragazzi e delle ragazze. Sebbene inseriti nei percorsi obbligatori, completato il ciclo e conseguito il titolo secondario inferiore, iniziano percorsi discontinui che spesso si concludono con l’abbandono o la dispersione nella frequenza della scuola secondaria superiore. Al momento, è questo il segmento che desta maggiori preoccupazioni. Nel 2018, vi erano in Italia oltre 600 mila giovani che hanno conseguito la licenza media inferiore che non erano inclusi in nessun percorso formativo. Di questi, circa il 50% viveva nelle regioni meridionali.

Le cose non vanno meglio se si considerano i dati sulla formazione terziaria. Infatti, se dalla fine degli anni Novanta, l’Italia aveva parzialmente recuperato il ritardo rispetto agli altri paesi europei riguardo alla scolarizzazione della popolazione, compensando, seppure parzialmente il divario interno tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno, dopo il 2005 questa tendenza si è invertita, soprattutto per la formazione universitaria. Qui si si concentrano i più gravi ritardi dell’Italia rispetto agli altri paesi europei. A incidere sono molteplici fattori. Tra gli altri, le condizioni socio-economiche delle famiglie di origine e la convinzione diffusa della perdita di valore dell’investimento in istruzione superiore e universitaria. Troppo spesso, soprattutto nelle aree in cui il mercato del lavoro offre minori opportunità, si sviluppa la convinzione che il titolo di studio non incida sulla possibilità di trovare un’occupazione e di trovarne una adeguata alle proprie aspettative e aspirazioni. I dati segnalano invece che possedere un titolo di studio superiore e terziario favorisce, ancora, la possibilità di trovare un’occupazione, di guadagnare di più e di avere migliori condizioni di lavoro e di vita (Svimez 2018). Vivere in contesti socio-economici in crisi, la classe sociale di appartenenza, i rischi di esclusione e marginalità sociale rendono più difficile il ruolo della scuola e ne limitano la capacità di compensare le disuguaglianze di classe e quelle territoriali. Infatti, nonostante la centralizzazione della governance del sistema scolastico e una spesa per studente simile nelle diverse aree del paese, i risultati quantitativi e qualitativi sono molto differenti. In parte questo deriva anche dalle limitate risorse messe a disposizione dalle regioni o un loro impiego in progetti locali che incidono poco sui problemi connessi con il dimensionamento delle classi, gli orari e la qualità dei servizi disponibili. Anche in questo caso gioverebbe un coordinamento e una specializzazione dei diversi livelli della governance rispetto agli obiettivi delle politiche e alla loro attuazione. Un’indicazione in tal senso viene dai dati OCSE PISA che collocano l’Italia al di sotto della media dei paesi europei rispetto alle competenze minime ritenute necessarie per garantire una adeguata capacità di esercizio della cittadinanza e di partecipazione degli individui alla vita collettiva. In Italia oltre un quarto dei ragazzi che frequenta istituti di istruzione secondaria si trova in questa condizione. Nel Mezzogiorno, sono a rischio circa un terzo dei giovani. La gravità di questi dati e gli andamenti tra le diverse regioni del Mezzogiorno9 sono valide ragioni per rimettere l’istruzione al centro del dibattito politico e pubblico italiano. La mancata istruzione e i modesti livelli di formazione professionale condizionano le possibilità di vita degli individui e, a livello aggregato, incidono sulle opportunità di crescita economica e sociale.

Il sistema scolastico costituisce un servizio pubblico essenziale che include non solo i contenuti pedagogici e formativi, ma anche la creazione di uno spazio fisico e sociale inclusivo. Per favorire l’accesso e il miglioramento degli esiti dei percorsi scolastici è opportuno potenziare i servizi di mensa, trasporto pubblico, qualità degli strumenti didattici disponibili, la creazione e coordinamento di presidi culturali nei territori (es. biblioteca, scuole di musica, arte e teatro) consentano l’inclusione non solo di coloro che frequentano regolarmente la scuola, ma soprattutto di coloro che la abbandonano. Anche in questo caso, non si può lasciare alle regioni la discrezionalità circa la predisposizione degli interventi, né il tipo. Obiettivi condivisi e livelli essenziali dei servizi dovrebbero essere definiti all’amministrazione centrale e declinati in programmi di attuazione per le regioni, non nella logica della riduzione della spesa, ma per una sua razionalizzazione con interventi di supporto per le aree più a rischio.

Negli ultimi anni si sta registrando anche un preoccupante calo delle immatricolazioni negli atenei più grandi e soprattutto tra gli studenti del Sud. A preoccupare è soprattutto il tasso di passaggio dalla scuola secondaria all’università. Dal 2013-2014, il tasso di passaggio si attesta sotto il 60 per cento. Solo nel 2017-2018, la media nazionale era pari al 58,2% ma il divario tra il Centro Nord (dove il valore era pari al 60,6%) e il Sud (il valore era di 54,6%) risultava particolarmente serio. Tra i paesi europei, il netto rallentamento delle immatricolazioni, cominciato nella seconda metà dello scorso decennio, ha interessato soprattutto l’Italia. Sull’andamento hanno inciso fattori demografici relativi alla popolazione di riferimento nelle diverse aree del paese, ma anche, a parità di popolazione, il calo della propensione all’immatricolazione che interessa soprattutto i giovani meridionali. Questo andamento comincia a manifestarsi anche nei dati sui laureati che segnala una modesta crescita degli stessi nella classe di età 25-34 anni. I dati citati segnalano che la scolarizzazione della popolazione costituisce un problema complesso su cui intervengono fattori differenti: andamenti demografici, condizioni socio-professionali delle famiglie d’origine, la condizione occupazionale dei laureati e l’impoverimento delle famiglie a seguito della crisi economica del 2008 (Svimez 2018). Tali fattori si combinano in modo diverso nelle diverse aree del paese secondo divari Nord-Sud, ma anche tra aree urbane/metropolitane e rurali. Per tali ragioni, non si può assumere aprioristicamente il divario territoriale nella scrittura delle politiche, ma piuttosto strutturarle in modo che esse rispondano meglio alle criticità, che limitano l’accessibilità e la qualità del sistema scolastico. In tal senso sarebbe auspicabile un maggiore coordinamento tra ministero e amministrazioni regionali più consapevoli dei bisogni locali. Si collega a questo punto anche la migrazione che sta interessando i giovani del Mezzogiorno, i quali, ove dispongano di risorse economiche adeguate, scelgono atenei del Centro-Nord ritenendoli più competitivi sul piano formativo con quelli degli altri paesi europei e capaci di favorire migliori esiti occupazionali dopo la laurea. Di norma, la circolazione dei giovani costituisce un elemento di crescita individuale e collettiva, a meno che non dia luogo a un una vera e propria migrazione definitiva e alla sistematica perdita di risorse umane da un’area del paese ad un’altra. La circolazione potrebbe anche costituire un’opportunità se i giovani del Centro-Nord e quelli degli altri paesi europei popolassero le università del Mezzogiorno. In tal senso, le ultime scelte in ambito di politiche universitarie dovrebbero essere forse riviste nella parte che riguarda la creazione di gerarchie tra gli Atenei e distribuzione dei fondi ordinari sulla base di criteri fortemente influenzati dai contesti in cui operano gli Atenei e dai bisogni cui cercano di dare risposta.

La dimensione politica: perché il Mezzogiorno è una questione nazionale

Quanto osservato per l’istruzione, può essere replicato anche per le altre dimensioni che strutturano la cosiddetta “questione meridionale”. La demografia italiana, l’industrializzazione e l’azione della pubblica amministrazione, segnalano che tutte costituiscono gli ambiti con i problemi più gravi l’Italia nel suo complesso (come dimostra la comparazione internazionale), ma che nelle regioni del Mezzogiorno i fenomeni assumono una intensità maggiore e gli effetti delle politiche sono più lenti e meno incisivi sugli andamenti strutturali. Ad esempio, nel caso dell’industrializzazione, gli studi più recenti sottolineano la difficoltà dell’Italia a inserirsi nelle catene globali del valore a più alto valore aggiunto, una difficoltà a competere con gli altri paesi dell’Unione europea anche a causa di una struttura produttiva costituita da un tessuto imprenditoriale di piccole e medie imprese a minore capacità di innovazione tecnologica e organizzativa. La manifattura vive una crisi persistente per il posizionamento delle imprese italiane nei settori meno produttivi e competitivi. I modesti investimenti in ricerca e sviluppo, la ridotta capacità organizzativa, il limitato ricorso alla formazione professionale, si traducono in un livello inadeguato di competenze della manodopera e soprattutto nell’indebolimento di alcuni gruppi professionali all’interno delle organizzazioni, tra cui i tecnici, che trasferiscono le innovazioni nel sistema produttivo. La situazione è particolarmente complessa, ma anche in questo caso, gli studi convergono nel sottolineare la necessità di una unitaria e coerente politica industriale che definisca in modo chiaro gli obiettivi di medio e lungo termine, e coordini le iniziative tenendo conto dell’eterogeneità che caratterizza il sistema produttivo italiano. L’esigenza è avvertita soprattutto dai territori e dagli imprenditori più dinamici che in questi anni stanno investendo in processi transizione verso forme più sostenibili di produzione mediante rinnovamento e riconversione degli impianti e introduzione di manodopera specializzata. Molte esperienze in tal senso segnalano che esiste un Mezzogiorno “dinamico” che dovrebbe essere più conosciuto e supportato10 non solo con le risorse finanziarie.

Dopo la crisi del 2008, il dibattito pubblico ha lentamente trascurato il Mezzogiorno o lo ha presentato in modo stereotipato che ne ha fatto il capro espiatorio della crisi perdurante, che interessa il paese sotto il profilo economico, sociale e istituzionale. Nel corso degli anni il Sud ha mostrato anche numerosi elementi di dinamicità mediante il tentativo di trasformare e superare lo stallo del suo sistema produttivo. Deindustrializzazione e conversione di impianti industriali, differenziazione della produzione, miglioramento delle produzioni del settore primario sono solo alcuni esempi di quanto accade nelle regioni del Mezzogiorno. La consapevolezza di questa eterogeneità è il primo passo conoscitivo da compiere anche nella prospettiva della programmazione dei Fondi europei, nazionali e regionali a disposizione nei prossimi anni. La dimensione politico-istituzionale e la sua capacità decisionale costituiscono l’elemento centrale di questo processo. Non è una novità nella storia italiana del Novecento e neppure nel dibattito sulla annosa “questione meridionale”. A tale proposito, non si può dimenticare il contributo di Antonio Gramsci che sin dagli scritti giovanili la definisce e interpreta come una “questione nazionale”. In uno scritto giovanile A. Gramsci dichiara: Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali. Ha bisogno di una politica generale, esterna e interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali11”. Questa posizione rimarrà sostanzialmente immutata nel corso del tempo, sebbene complicata dagli eventi della sua contemporaneità. Nel suo scritto del 1926, Alcuni temi della questione meridionale, ribadirà la complessità della condizione del Mezzogiorno e individuerà i fattori che, espressione delle differenti formazioni economico-sociali, secondo specifici sviluppi storici, hanno determinato la sua subalternità rispetto al Settentrione. Sebbene la sua analisi fosse finalizzata a spiegare la dicotomia tra classe operaia e contadina, e la necessità del suo superamento in vista dell’organizzazione di una massa proletaria quale attore politico della rivoluzione, la sua analisi costituisce un metodo percorribile per il superamento della visione dicotomica alla base della “questione meridionale”. Infine, ma non meno importante il discorso sugli intellettuali e i partiti politici, e il loro rapporto con le masse operaie e contadine. Nonostante le differenze con la situazione attuale, l’analisi gramsciana mantiene una straordinaria attualità nel momento in cui richiama il ruolo degli intellettuali e il rapporto con le classi dominanti, ma soprattutto il loro ruolo critico.

Nelle vicende più recenti del Mezzogiorno, il metodo gramsciano suggerisce l’interrogativo sulla capacità della società meridionale di esprimere una propria soggettività politico-culturale e di porsi al centro del dibattito politico e pubblico fuori dagli schemi della subalternità e del divario Nord-Sud. I partiti hanno continuato a usare la “questione meridionale” come tema forte del ciclo elettorale con la proposizione di impegni cui non si è dato seguito. I governi hanno rafforzato la rappresentazione di un Mezzogiorno assistito e colpevole della propria condizione senza che si intervenisse, anche richiamando alle proprie responsabilità le classi politico-dirigenziali e sanzionandone i comportamenti illegittimi e/o illegali nell’esercizio della funzione pubblica. Essi concorrono spesso al malgoverno, all’inefficacia e all’inefficienza della pubblica amministrazione.

In altri casi, si sono enfatizzate le specificità del Mezzogiorno anche attraverso l’istituzione di un ministero dedicato che rappresenta la forma più alta di “leggi speciali”. La disponibilità di ingenti risorse economiche da destinare al Mezzogiorno non risolve di per sé i problemi. Gli esiti dipendono dalla capacità di considerare la crisi economica, politico-istituzionale e sociale che interessa l’Italia da molti decenni come una “questione nazionale”. Occorre individuare i processi che la alimentano, i limiti dell’azione pubblica e le conseguenze che questi hanno nell’accrescimento delle disuguaglianze economiche e sociali.

Note

1 Come ha dichiarato il Ministro Franco nella sua audizione alle Camere l’8 marzo scorso: “Il Next Generation EU ha non solo l’obiettivo di riparare i danni economici e sociali causati dalla pandemia, ma anche di creare un Europa più verde, digitale e capace di rispondere alle sfide presenti e future. Circa il 90 per cento dei 750 miliardi di euro dei suoi fondi sono distribuiti attraverso il ‘Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza’ (Recovery and Resilience Facility, RRF). Una volta che, conformemente ai propri ordinamenti nazionali, tutti gli Stati membri avranno ratificato la decisione sulle risorse proprie del bilancio dell’Unione nel periodo 2021-27, la Commissione potrà emettere debito sul mercato per finanziare l’NGEU e il programma sarà effettivamente operativo”.

2 In particolare, la distribuzione delle risorse (incluso il Fondo complementare) per il Sud secondo le sei missioni prevede: 1. Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura – 14,58 mld – 36,1%; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica – 23,00 mld -34,3%; 3. Infrastrutture per la mobilità sostenibile – 14,53 mld – 53,2%; 4. Istruzione e ricerca – 14,63 mld – 45,7%; 5. Inclusione e Coesione – 8,81 mld – 39,4%; 6. Salute – circa 6 mld – 35/37%.

3 Un primo intervento in tal senso è il bando per il reclutamento di 2800 tecnici il cui compito sarà quello di seguire i lavori delle opere previste nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ma anche in vista del nuovo Accordo di partenariato per i fondi strutturali europei 2021-’27 e per i progetti collegati al Fondo di Sviluppo e Coesione. In particolare, si tratta di tecnici ingegneri; esperti in gestione, rendicontazione, controllo; progettisti; amministrativi giuridici; process data analyst. Di questi, 107 andranno a rafforzare la struttura delle Regioni, 76 alle Province, 35 alle Città metropolitane, 364 alle città capoluogo di provincia, 160 ai Comuni delle aree interne, 155 ai Comuni con più di 50mila abitanti, 146 ai Comuni medi, 943 a quelli con meno di 30mila abitanti, più altri 57 destinati ad altri enti coinvolti nella gestione del PNRR. Per il dettaglio si rimanda al bando disponibile sul sito: http://www.ministroperilsud.gov.it/it/comunicazione/notizie/parte-il-bando-competenze-2800-tecnici-assunti-al-sud-in-100-giorni/

4 A questo proposito G. Viesti (2013; 2014) ha parlato del “teorema meridionale” riferendosi ad un’ipotesi interpretativa della condizione del Mezzogiorno che ritiene inutile e dannoso riservare risorse al Mezzogiorno (distraendole dalle aree considerate più produttive) e che le misure di politica economica praticate fino ad ora hanno trasferito risorse che poi finiscono nel mal governo della classe politico-dirigenziale spesso coinvolta in reti clientelari e organizzazioni criminali.

5 In quest’ultimo anno, la gestione dell’epidemia ha fatto emergere l’esistenza di una elevata eterogeneità nel funzionamento dei sistemi sanitari delle regioni con esiti imprevisti. Vi sono però altri ambiti importanti nei quali le differenze sono particolarmente evidenti. Tra tutte si pensi ai sistemi di relazioni industriali e alle modalità di gestione delle crisi o la distribuzione delle risorse nazionali e regionali nello stesso ambito in cui si palesano orientamenti e processi decisionali che rispondono a interessi e finalità differenti. È il caso degli esiti delle localizzazioni delle multinazionali (anche straniere) che mette a confronto i livelli della governance nazionale e internazionale e le capacità dell’amministrazione centrale di svolgere la funzione regolatrice nel complesso rapporto Stato-mercato.

6 Su questo punto si rimanda, tra gli altri a G. Viesti (2014), “La crisi, il Mezzogiorno e i difetti di interpretazione”, in Meridiana, n.79, PATERNALISMO, pp. 9-27.

7 Il dibattito sul tema è ampio e di grande interesse. Nell’impossibilità di darne conto in questa sede, si segnalano alcuni recenti contributi che costituiscono anche un’importante fonte di dati di medio e lungo periodo. In particolare:
SVIMEZ, Rapporto Svimez. L’economia e la società del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna (anni 2018, 2019); G. Viesti (2013), Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce. Falso!, Idola Laterza, Roma-Bari; G. Viesti (2021), Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Editori Laterza; L. Cappellani e G. Servidio, “Indirizzi recenti di politica industriale e Mezzogiorno: un quadro d’insieme”, in Rivista Economica del Mezzogiorno, 1-2, 2017, pp. 19-74; A. Lepore, “Il Mezzogiorno protagonista. Dalla globalizzazione dei mercati alla nuova rivoluzione industriale: una proposta di sviluppo per il Sud e per il Paese”, in Rivista Economica del Mezzogiorno, 3-4, 2019, pp. 689-722; E. Manti, “Zone Economiche Speciali. Settori di intervento, aree produttive e poli logistici per una politica industriale nel Mezzogiorno”, in Rivista Economica del Mezzogiorno, 3-4, 2019, pp.921-962; L. Bianchi, S. Parlato, C. Petraglia e S. Prezioso, “L’impatto economico e sociale del Covid-19: Mezzogiorno e Centro-Nord”, in Rivista Economica del Mezzogiorno, 3-4, 2019, pp.921-962.

8 Il PNRR prevede interventi (4,5 miliardi) proprio sugli asili nido nella missione 4, in particolare nella componente M4C1 dedicata al potenziamento dei servizi all’istruzione.

9 Emblematico il caso della Sardegna che è una delle regioni europee con i dati peggiori sull’istruzione secondaria e terziaria sia in termini quantitativi, sia qualitativi. Nel 2020, il 24% dei ragazzi tra 18-24 anni non ha un diploma e circa il 28% di quelli tra i 15-29 anni non studia, non lavora e non segue un percorso di formazione. L’isola è la regione italiana con la percentuale più alta di persone con la sola licenza media e di conseguenza con il numero più basso tra diplomati e laureati. Lo scarto rispetto alla media nazionale è notevole (circa 7 punti di differenza dalle regioni del Centro-Nord).

10 A tale proposito si rimanda ad un numero monografico della rivista Meridiana – Sud dinamico, n.84 (2015) dedicata al tema e curato da L. Brancaccio.

11 A.G., Il Mezzogiorno e la guerra, “Il Grido del Popolo” 1° aprile 1916. Ora in A. Gramsci, Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino, 1980.

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