Dopo Palamara, Amara. Assonanze che rimandano a scandali di diversa entità e consistenza che concorrono, entrambi, a gettare discredito sulla magistratura. Discredito ampiamente giustificato ma, per lo più, accompagnato da una superficialità di analisi che non promette nulla di buono in punto rimedi. Così, mentre editorialisti e politici tuonano in modo acritico contro le “correnti” della magistratura, gli interventi moralizzatori preannunciati dai governi (pur di diverso colore), tutti centrati sulla composizione del Csm e sul suo sistema elettorale (con aperture finanche al sorteggio), restano assai distanti dai problemi reali. Conviene, dunque, andare con ordine.
Non è ‒ questo ‒ il primo passaggio delicato della storia dell’autogoverno giudiziario per fatti connessi con la “questione morale” da quando, nel 1981, la polizia giudiziaria varcò i cancelli di Palazzo dei Marescialli per perquisire lo studio del vicepresidente Zilletti (poi costretto a dimettersi perché lambito dalle indagini relative al banchiere Roberto Calvi) e sino a che, nel 2011, il consigliere laico (allora) di fede leghista Matteo Brigandì venne sorpreso con le mani nel sacco in un’operazione di delegittimazione del pubblico ministero milanese Ilda Boccassini attraverso documenti consiliari secretati indebitamente sottratti. E non è la prima volta in cui emergono collegamenti di personaggi autorevoli dell’associazionismo giudiziario o della magistratura tout court con lobby o ambienti affaristici e finanche criminali. Basti ricordare, tra i casi più eclatanti, quello di Carmelo Spagnuolo, potente procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma e poi presidente di sezione della Corte di cassazione, radiato dalla magistratura nel 1979 per l’affidavit rilasciato il 21 novembre 1976 a garanzia della correttezza del confratello piduista Michele Sindona, o quello di Domenico Pone, segretario di Magistratura indipendente e già componente del Csm, anch’egli radiato dalla magistratura (con sentenza 9 febbraio 1983 della Sezione disciplinare) per la sua appartenenza alla P2 e i suoi rapporti con Licio Gelli diretti al finanziamento della stampa del suo gruppo associativo. E, per altro verso, l’esistenza di lottizzazioni e malcostume nelle nomine a incarichi direttivi è vecchia come il Consiglio: personalmente ho cominciato a sentirne parlare quando sono entrato in magistratura, nel lontano 1970, e la relativa denuncia è stata, proprio in quegli anni, una delle bandiere del neonato gruppo di Magistratura democratica.
Tutto ciò va ricordato per consentire un necessario sguardo largo e per individuare interventi coerenti. Ma la situazione odierna è connotata da una gravità particolare. Ci sono questa volta, insieme, il numero e l’eterogeneità dei magistrati coinvolti (parte consistente delle componenti consiliari delle correnti di Unità per la Costituzione e di Magistratura indipendente); l’emergere di un sistema lobbistico a cui partecipano senza remore magistrati autorevoli – per storia o per ruolo – e settori della politica; il condizionamento delle procedure per la nomina dei dirigenti di uffici giudiziari nevralgici e insieme – fatto ancor più grave – la pretesa di scegliere i magistrati preposti ai propri processi; una spregiudicatezza di progetti e di obiettivi lontana le mille miglia dal costume e dall’habitus della giurisdizione; un linguaggio e una volgarità da Suburra. E c’è un elemento ulteriore. Alla descritta crescita di pratiche clientelari e di contatti impropri con centri di potere di varia natura (rivelata dall’affaire Palamara) si affianca la sostituzione della cultura delle regole – unica fonte di legittimazione del sistema giustizia – con quella del risultato (che è il punto dolente del caso Amara e della circolazione di verbali segretati che lo ha accompagnato).
Non vale dire che pratiche analoghe sono tristemente praticate anche nelle nomine dei prefetti o dei questori, dei presidenti delle aziende sanitarie o dei direttori dei telegiornali, dei rettori delle Università o dei vertici di polizia e carabinieri. È vero, come la cronaca quotidiana dimostra. Ma non è buona cosa usare come giustificazione del proprio operato le malefatte altrui e, soprattutto, il malcostume è doppiamente grave quando riguarda organi o istituzioni (come la magistratura) preposti al controllo sull’altrui correttezza.
Ad essere sempre più chiaro in questo quadro è che il problema non sta (solo) nell’organo di governo autonomo ma riguarda il corpo della magistratura in quanto tale. Il ruolo di Cosimo Ferri (già potente dominus della corrente conservatrice Magistratura indipendente e, poi, parlamentare nelle file del Pd prima e di Italia viva poi, sorpreso “con le mani nel sacco” a fianco di Palamara) sul delicato crinale tra magistratura e politica (bipartisan…) è noto da lustri e Magistratura indipendente, che a lui continua a fare capo, ha incrementato proprio per questo i suoi consensi (finanche nelle recenti elezioni suppletive per il Csm). E l’adesione a Unità per la costituzione (il gruppo di riferimento di Palamara) è stata tradizionalmente una sorta di polizza assicurativa per giudici e pubblici ministeri alla ricerca di un incarico direttivo. Ciò evidenzia un dato fondamentale ai fini dell’individuazione degli interventi normativi e amministrativi necessari in materia, e cioè che il Consiglio superiore – questo come quelli che lo hanno preceduto – non è un corpo a sé ma la realizzazione di ciò che vuole una parte consistente della magistratura (anche se – spero – non la sua maggioranza). A ciò le correnti della magistratura (alcune di esse in particolare) hanno aggiunto del loro, ma il problema non nasce qui.
Il clientelismo e la ricerca di protezioni politiche, anche tra i magistrati, ha radici antiche se è vero che già più di un secolo fa la legge n. 438 del 1908 vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera e che il divieto, pur ribadito, durante il fascismo, da una circolare del guardasigilli Rocco del febbraio del 1930, era sistematicamente violato, al punto che uno dei successori di Rocco, Dino Grandi, si sentì in dovere di richiamarlo con il telegramma-circolare n. 2473 del 7 maggio 1940 in cui si sottolineava la necessità (quantomeno) di evitare il flusso e la permanenza a Roma dei magistrati che assediavano i componenti del Consiglio superiore per tutto il tempo in cui gli stessi erano impegnati negli scrutini o nelle promozioni. Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto con cui Dante Troisi descrive (in Diario di un giudice del 1955) il collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non può ambire alla “meritata promozione”. Se poi posso citare l’esperienza personale, aggiungo che tutto ciò ho toccato con mano durante la mia esperienza consiliare, dal 2006 al 2010, in cui molte sono state le richieste di “appoggi” e altrettante le amicizie cancellate per non averli accordati. Allo stesso modo la disinvoltura e (a volte) la spregiudicatezza nei rapporti di alcuni magistrati con il sottobosco politico e affaristico non sono – come si è detto – una novità, ancorché sottovalutata dalla corporazione (e nei rapporti dei capi degli uffici). È dunque alla situazione della magistratura che occorre fare riferimento se si vuole davvero incidere sulla sua escrescenza nell’autogoverno giudiziario e sulle relative avvilenti manifestazioni. Concentrando l’attenzione e le critiche esclusivamente sul Csm, infatti, non si coglie che il cuore del problema sta, prima che nell’organo di governo autonomo, nel corpo stesso della magistratura. E questo vizio di analisi si riverbera, inevitabilmente, sulle soluzioni proposte.
Se si concentra l’attenzione sul corpo dei magistrati, emerge un dato importante, pur rimosso dai più (e, in particolare dai protagonisti negativi di questa stagione, a cominciare da Palamara): la magistratura non è un monolite ma una realtà articolata e complessa nella quale è in corso, da sempre, un conflitto dagli esiti alterni. C’è una magistratura burocratica e corporativa, abituata a pratiche clientelari, inserita in sistemi di potere anche esterni al corpo, poco attenta alle regole e alle garanzie; e c’è una magistratura diversa, fedele al disegno costituzionale, attenta alle idee più che ai rapporti di potere e sensibile al “punto di vista esterno” (quello, cioè, dei cittadini e dei destinatari della giustizia). Agire per un cambiamento reale significa evitare il polverone in cui si stanno esibendo il redivivo Palamara e i suoi interessati portavoce e riconoscere il conflitto in atto, sostenendo la parte della magistratura rigorosa e non compromessa.
Come fare? C’è una sola strada: un salto di qualità nella ridefinizione dell’assetto, della cultura e delle prassi della magistratura, la cui involuzione burocratica e funzionariale degli ultimi anni (effetto anche dell’arroccamento corporativo conseguente alla lunga stagione del berlusconismo) ha favorito l’estendersi di malcostume e clientelismo, che – come noto – trovano terreno fertile nel corporativismo, nel pensiero unico e nel consociativismo.
L’antidoto ai fenomeni degenerativi in atto non sta tanto in operazioni di ingegneria istituzionale (che spesso, come è accaduto in passato, aggravano ulteriormente la situazione) ma nel recupero del senso profondo della giurisdizione, della parità delle funzioni giudiziarie e dell’indipendenza (esterna e interna) di pubblici ministeri e giudici. Un recupero non facile perché il modello di magistratura ad esso sotteso è stato sconfitto all’inizio del millennio, prima sul piano culturale e poi con le riforme ordinamentali dei ministri Castelli e Mastella (leggi 25 luglio 2005, n. 150 e 30 luglio 2007, n. 111). Si fondava – quel modello ‒ su suggestioni e istituti volti a disegnare una magistratura diversa, organizzata su basi egualitarie e democratiche e aperta a forme impegnative di partecipazione popolare, estranea ai circuiti del potere e capace di inverare il modello costituzionale (che vuole, appunto, i giudici soggetti soltanto alla legge e diversificati tra loro non per gerarchie ma esclusivamente per funzioni). Da lì occorre ripartire. E nella ripartenza è indispensabile il protagonismo dei magistrati o, almeno, dei loro gruppi più consapevoli e avanzati. Con due stelle polari che devono trovar posto anche negli interventi legislativi sull’assetto della magistratura.
Primo. I fenomeni di malcostume, di clientelismo, di lottizzazione e quant’altro si concentrano – come mostra la cronaca – nelle nomine. È un caso o ciò ha a che fare con il ruolo che i dirigenti degli uffici rivestono nel sistema istituzionale? E, se è vera la seconda alternativa, non sarebbe opportuno intervenire su quel ruolo? I dirigenti degli uffici giudiziari (delle Procure in particolare, ma non solo) sono tuttora, per i compiti loro attribuiti e in una tradizione che affonda addirittura in epoca liberale e nel fascismo, dei centri di potere di primo piano (al punto che, nel manuale Cencelli della politica, il procuratore della Repubblica di Roma vale quanto due o tre ministri…). Ciò ne drammatizza la nomina e stimola appetiti e pressioni di diversa natura. E, prima ancora, stravolge il senso dell’attività giudiziaria, coinvolgendola in giochi di potere che dovrebbero esserle estranei. Occorre, dunque, cambiare strada e prevedere la dirigenza degli uffici giudiziari come incarico temporaneo affidato a un primus inter pares, preposto essenzialmente a garantire l’indipendenza e la correttezza dell’attività dei colleghi (spostando nel contempo le responsabilità dell’organizzazione a personale amministrativo dotato di specifica competenza). Secondo ciò che maggiormente nuoce alla giurisdizione sono i collegamenti impropri tra magistrati e politica, collegamenti che, invece, sono sempre più stretti anche in termini palesi e istituzionali e riguardano non già la “politica delle idee” ma la “politica del potere” (dalla quale ultima – sono parole di Marco Ramat del 1964 – la magistratura deve estraniarsi). Qui non c’entrano – o c’entrano in misura ridotta – le correnti: c’entra l’occupazione degli uffici del Ministero della giustizia (e non solo) da parte di singoli magistrati chiamati ad personam da ministri e sottosegretari e c’entrano gli incarichi di diretta estrazione politica. È – questo – un sistema privo, salvo casi eccezionali, di valide giustificazioni (non essendo dato vedere, se non in una prospettiva di protezione o di potere corporativo, perché il capo di gabinetto del ministro o il direttore dell’Amministrazione penitenziaria debbano essere giudici o pubblici ministeri…) che è fonte di un continuum tra politica e magistratura e di una cultura che non vede in esso controindicazioni o inopportunità.
Occorre, dunque, disegnare un nuovo modello di giudici e pubblici ministeri che, in attesa della sua (eventuale) realizzazione, non resterà senza conseguenze sulle prassi e sulla cultura del ruolo. Ma, prima ancora, occorre, almeno da parte delle componenti progressiste della magistratura, un’analisi attenta e una denuncia ferma delle cadute, delle compromissioni, delle deviazioni che investono la giurisdizione, la sua organizzazione, l’associativismo giudiziario. Da sempre – in ogni ambito – il malcostume si contrasta evitando le coperture corporative e contrapponendovi una cultura e un metodo di confronto alto sulle idee e sui progetti. Questa cultura – forte negli ultimi decenni del secolo scorso (grazie soprattutto all’elaborazione e agli interventi di Magistratura democratica e delle sue pubblicazioni) – si è progressivamente attenuata sino a scomparire, lasciando il posto a un marcato consociativismo (dimostrato, per esempio, dalla prassi costante, o quasi, dei governi unitari, con rotazione nelle cariche, dell’Anm) e alla difesa dell’autogoverno comunque e a prescindere (mettendo la sordina alle polemiche sugli atteggiamenti clientelari e deviati). Lo dico in maniera un po’ brutale: il problema non sono le correnti, ma il loro venir meno, la loro trasformazione in un unico indistinto correntone. Senza un recupero della cultura critica e di prassi conseguenti ‒ le vicende di questi mesi sono lì a confermarlo ‒ non si uscirà dal pantano e non si faranno passi avanti significativi, qualunque siano i cambiamenti sul piano dell’ingegneria istituzionale.
Qui il PDF
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Nome *
Email *
Sito web
Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.