Il volume che viene qui pubblicato raccoglie la trascrizione di otto conferenze tenute da Arturo Labriola nel 1906, in occasione del trentacinquesimo anniversario della Comune di Parigi. Per chi, come gli uomini e le donne di questa nostra contemporaneità, ha avuto in sorte di vivere in un tempo post, in un «tempo senza epoca»[1], nel quale si presentano «davanti a noi solo avvenimenti, niente eventi»[2], può risultare persino spiazzante l’approccio all’insieme degli avvenimenti di cui questo libro tratta e al modo politico, parziale, partigiano, ma non per questo privo di rigore, in cui l’autore ne dà conto. Appunto, perché l’insieme degli avvenimenti qui narrati, analizzati e commentati costituisce un evento, inteso come un fatto nel quale e attraverso il quale si esprime una forza capace di dire l’epoca. Un evento che si frappone nel preteso continuum della storia, per sostituire alla consolatoria apparenza di uno scorrere la realtà conturbante di un irrompere. In questo irrompere che dice l’epoca, che impone un ritmo nuovo e diverso al movimento che gli esseri umani compiono nel terreno discreto e nient’affatto fluido della storia, risiede l’arcano della Comune di Parigi, del suo fascino, della persistenza del suo mito, dell’interesse e dei dibattiti che, dopo centocinquanta anni, ancora oggi suscita.
Il bagno di sangue proletario riservato a Parigi dalla reazione del governo repubblicano di Thiers chiude il secolo breve delle rivoluzioni in Francia. Il lampo del 1789 aveva svegliato la vecchia Europa dal torpore aristocratico; la caduta della testa coronata di Luigi XVI aveva indignato e spaventato le dinastie del continente, che giustamente colsero, in quell’atto e in quella rivoluzione, un messaggio di portata universale che travalicava i confini di una nazione; una minaccia esistenziale per le classi che avevano fino ad allora dominato su popoli e territori; uno squillo di tromba che, sotto il vessillo dell’égalité borghese, annunciava l’avvento di un mondo nuovo. La reazione delle monarchie europee fu tremenda, tanto da costringere prima il popolo francese a una eroica resistenza e controffensiva in armi (dal 1793) e poi la Rivoluzione a ripiegare su sé stessa, a negare il proprio principio repubblicano, a farsi Impero. L’epopea napoleonica – la storia della lotta delle forze dell’ancien régime per soffocare la rivoluzione borghese e della rivoluzione borghese per autoaffermarsi di fronte e contro l’ancien régime nel campo di battaglia europeo – fu una immane tragedia per la Francia e per il continente. Dei circa 30 milioni di abitanti che poteva contare la Francia a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo[3], furono 1,3 milioni quelli che, arruolati negli sterminati eserciti napoleonici tramite la coscrizione obbligatoria di massa, non sopravvissero. In tutto, quella stagione sanguinosa costò all’Europa quasi 5 milioni di vite umane tra soldati e civili appartenenti a tutte le forze in campo. Mai l’Europa aveva assistito a una simile catastrofe, che rimarrà insuperata, per impatto e proporzioni, fino ai due conflitti mondiali del secolo successivo[4].
Solo in maniera effimera, dopo Lipsia prima e Waterloo poi, le potenze controrivoluzionarie vincitrici si illusero di poter restaurare lo stato di cose anteriore al 1789. Il fuoco della rivoluzione covava ancora, infatti, sotto le ceneri del defunto Impero. Il mito dell’89 muoveva le coscienze e gli intelletti dei segmenti più moderni, dinamici e avanzati della società europea: un quarto di secolo di rivoluzioni, guerre, tragedie di massa e profonde trasformazioni sociali non era trascorso invano e nuove esplosioni si preparavano. La prima replica rivoluzionaria si fece attendere, in Francia, per soli quindici anni.
La dinastia dei Borbone, reinsediata sul trono di Francia nella persona di Luigi XVIII per volontà delle altre case regnanti europee, fu dapprima costretta a concedere almeno il simulacro di istituzioni e libertà liberali a una società ormai abitata nel profondo dalle idee della rivoluzione e da una borghesia che aveva già sperimentato sia la gestione del potere politico sia l’emancipazione dai vecchi vincoli feudali, e che difficilmente poteva accettare il ritorno sic et simpliciter dell’assolutismo e dell’ancien régime. Quando però, nel 1824, a Luigi XVIII successe Carlo X, insofferente agli elementi liberali della Carta del 1814, l’equilibrio della restaurazione mostrò tutta la sua fragilità. A farlo crollare bastò il tentativo del Primo Ministro Polignac di far approvare con le Ordinanze di Saint-Cloud del 1830, una serie di provvedimenti che – tra l’altro – comprimevano la libertà stampa, restringevano i criteri censitari del suffragio e sfidavano il Parlamento a maggioranza liberale, imponendo lo scioglimento di un’assemblea appena eletta e non ancora insediata. La protesta contro quello che veniva visto come un tentativo di ripristinare l’assolutismo sfociò nelle tre giornate di luglio, al termine delle quali la dinastia dei Borbone, espressione dei vecchi ceti agrari e dei latifondisti, fu finalmente destituita dall’insorgenza di elementi sociali popolari e borghesi, liberali e democratici, radicali e conservatori, repubblicani e monarchici costituzionali. Al suo posto, fu instaurata la monarchia di Luigi Filippo d’Orléans, espressione dei nuovi ceti dell’alta borghesia e dell’aristocrazia finanziaria.
A proposito dei rapporti politici e di classe che si instaurarono con la Monarchia di luglio, sulle contraddizioni emergenti all’interno della stessa borghesia, sul ruolo giocato dallo Stato e dall’indebitamento pubblico in questa dinamica, e infine sul modo in cui si arrivò alla rivoluzione del febbraio 1848 e alla nascita della seconda Repubblica, non si può che rimandare alla mirabile lettura che di tutto ciò diede Karl Marx ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, primo capitolo della sua trilogia di scritti sugli sconvolgimenti politici che riguardarono la Francia del suo tempo. La coalizione di forze sociali e politiche che fu alla base della rivoluzione di febbraio – una volta risolta in favore della borghesia industriale e repubblicana la contesa con la frazione parassitaria, finanziaria e monarchica del capitale – ripropose immediatamente un nuovo più profondo e radicale antagonismo tra le due classi principali della moderna società capitalistica: la borghesia e il proletariato. Marx interpreta da questa prospettiva le convulsioni e i conflitti che da subito attraversarono il Governo provvisorio e poi l’Assemblea costituente della seconda Repubblica francese, fino ad arrivare alla disfatta di giugno, avvenuta quando la maggioranza borghese dell’Assemblea costituente, eletta con le elezioni di aprile, e il nuovo Governo che ne fu espressione, disposero la soppressione dei Laboratori nazionali voluti da Louis Blanc, presidente della Commissione sui temi del lavoro insediata al Palazzo del Lussemburgo (un surrogato di quel vero Ministero del lavoro la cui istituzione le frazioni borghesi non vollero mai concedere). I Laboratori nazionali erano il segno più visibile e politicamente rilevante della preponderante presenza operaia nell’insurrezione di febbraio, nonché il primo sperimentale tentativo di partecipazione operaia alla gestione di una parte della produzione nazionale e di affermazione di quel diritto al lavoro che era stata la principale parola d’ordine delle componenti socialiste della coalizione rivoluzionaria. Facile capire come le frange borghesi del Governo e dell’Assemblea vedessero come una minaccia la forza politica acquisita dalla classe operaia con la rivoluzione; perciò, appena le elezioni ebbero ridotta quella forza, esse lavorarono affinché venissero presto soppressi sul nascere i Laboratori nazionali di Blanc. Ciò spinse gli operai alla sommossa, che si sviluppò in quattro giornate dal 23 al 26 giugno. Fu una disfatta, che la classe operaia parigina pagò con il sangue di migliaia di uomini, con l’estromissione dei suoi rappresentanti dal Governo, con la cancellazione di tutti i provvedimenti a carattere sociale attuati dopo la rivoluzione. Ma quella sommossa sancì anche l’ingresso in grande stile sul terreno della storia europea della moderna classe operaia rivoluzionaria[5].
Se i mesi immediatamente successivi alla rivoluzione di febbraio avevano dimostrato la radicalità dell’antagonismo esistente «tra le due classi in cui è divisa la società moderna», quelli successivi alla disfatta di giugno dovevano dimostrare che nessuna di quelle due classi aveva in Francia, in quel frangente storico, la maturità politica e la forza di ergersi a classe generale e di esercitare una reale egemonia sulla maggioranza della nazione: «La borghesia aveva già perduto la facoltà di governare la nazione e il proletariato non l’aveva ancora acquistata»[6], dirà Marx. Parigi, la sua modernità, le sue classi non erano la nazione. La maggioranza numerica del popolo francese era costituita dalla provincia e dai contadini piccoli proprietari, i quali, in assenza di una classe generale capace di guidare egemonicamente l’insieme della società, utilizzarono il suffragio universale conquistato dalla rivoluzione di Parigi per eleggere, nelle elezioni presidenziali del 10 dicembre, il loro presidente: Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone. Per Marx, «il 10 dicembre 1848 fu il giorno dell’“insurrezione dei contadini”»[7], addirittura «il colpo di Stato dei contadini»[8], «una reazione dei contadini, che avevano dovuto pagare le spese della rivoluzione di febbraio, contro le altre classi della nazione; una reazione della campagna contro la città»[9]. Nel secondo capitolo della sua trilogia, Marx dà conto, in maniera memorabile e insuperata, del modo in cui dal 10 dicembre 1848 si arrivò al 2 dicembre 1851 ovvero al 18 brumaio di Luigi Bonaparte; di come la tragedia si ripeté in farsa; di come nuovamente la Repubblica divenne Impero, il Presidente divenne Imperatore e il nipote di Bonaparte divenne quel Napoleone III che condurrà – essendovi a sua volta condotto dal più abile Bismarck – la Francia alla disastrosa guerra del 1870-1871 contro la Prussia, che sarà l’antefatto immediato della Comune. Da qui le otto conferenze pubblicate in questo volume iniziano a ricostruire fatti, avvenimenti, personaggi che condussero al massacro del maggio 1871 che concluse tragicamente la breve esperienza comunarda. La guerra fu una rapida e clamorosa disfatta per la Francia, che a Sédan perse il suo Imperatore, fatto prigioniero e costretto ad abdicare. Mentre la nazione veniva invasa, a Parigi fu proclamata la Repubblica al cui vertice si insediò un governo di Difesa nazionale guidato da un personale politico con idee e storie individuali monarchiche. La capitale assediata voleva resistere, ma ancora una volta si dimostrò che Parigi non era la nazione: la Francia voleva la pace e per ottenerla era pronta ad accettare una capitolazione umiliante; il popolo parigino voleva combattere e si preparava a resistere in armi. Proprio il fallito tentativo da parte del governo di Difesa nazionale di disarmare il popolo doveva lasciare la città nelle mani di questo, che vi instaurò il primo governo socialista della storia.
Si può pensare la Comune di Parigi come l’esito e il drammatico compimento dei decenni convulsi di cui, senza pretesa di esattezza né di esaustività, si è finora provato a restituire un quadro d’insieme, nell’arco dei quali la Francia cambiò per ben sette volte la propria forma di Stato, ogni volta passando attraverso esperienze traumatiche come rivolgimenti interni o sconfitte militari. In questo senso, si può dire anche che la Comune di Parigi chiuda il ciclo delle rivoluzioni borghesi aperto nel 1789 e apra quello delle rivoluzioni proletarie e che dunque, da questo punto di vista, annunci il Novecento. Allo stesso tempo, la Comune rappresenta l’atto finale della lunga epoca in cui la Francia fu il centro propulsivo delle innovazioni politiche in Europa, oltre che la potenza egemone del continente. Dopo l’unificazione tedesca, compiuta proprio in seguito alla sconfitta francese nella guerra del 1870-1871, sarà infatti chiaro che il baricentro politico dell’Europa migrerà da Parigi a Berlino. Ciò sarà vero sia dal punto di vista della politica di potenza degli Stati, sia dal punto di vista della capacità delle rispettive borghesie nazionali di guidare lo sviluppo capitalistico, ma anche dal punto di vista della capacità e forza politica del movimento operaio nonché degli equilibri, all’interno del movimento internazionale, tra le varie organizzazioni rappresentanti i lavoratori dei diversi Paesi.
Note
[1] M. Tronti, Dello spirito libero, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 304.[2] Ivi, p. 209.[3] C. Diebolt-F. Perrin, Understanding demographic transitions. An overview of French Historical Statistics, Springer, Berlino 2017, p. 3[4] «Overall, the Napoleonic Wars resulted in some five million dead, the same proportion of Europe’s population as was to be claimed by the conflict of 1914–18». (David Gates, The Napoleonic Wars 1803-1815, Random House, Londra 2003, p. 442.[5] Per Marx quella di giugno sarà «la prima grande battaglia tra le due classi in cui è divisa la società moderna» (Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 51). Lenin (“I destini storici della dottrina di Karl Marx”, in Opere VIII – aprile 1912-marzo 1913, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 561-562) sottolineerà come la lezione che i fatti del giugno 1848 impartirono al movimento rivoluzionario mettendo di fronte alla loro inconsistenza le teorie, come quella di Louis Blanc, che propugnavano l’idea di un socialismo senza lotta di classe: «La rivoluzione del 1848 assesta un colpo mortale a tutte queste forme rumorose, variopinte, chiassose del socialismo premarxista. […] Il massacro degli operai parigini consumato dalla borghesia repubblicana, nelle giornate del giugno 1848, attesta in modo definitivo la natura socialista del solo proletariato.»[6] K. Marx, La guerra civile in Francia, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 79.[7] K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, p. 66.[8] Ibidem.[9] K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 33.
Qui la scheda del libro
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