Articolo pubblicato per la rubrica “Divano” de “il manifesto ” il 16.07.2021.
Nella notte di lunedì, ho avuto modo di assistere con agio dalle finestre di casa alle manifestazioni di entusiasmo per l’Italia campione d’Europa. Gli azzurri, sul campo londinese di Wembley, hanno da pochi minuti battuto ai rigori la nazionale inglese. È mezzanotte. Da Piazza del Popolo, dove hanno seguito su grandi schermi la partita, due o tre migliaia di tifosi imboccano via del Corso. Non si riversano a formare un corteo. Non si abbracciano, non si mescolano. Entrano a gruppi e restano tra loro più o meno compatti e separati dagli altri. Nella stragrande maggioranza si tratta di giovani e di adolescenti che avanzano a passo celere, ma non di corsa, e alcuni, piuttosto, a saltelloni. Donne e uomini in età scolare, come si dice, tra i quindici e i venticinque anni. Nessuno tra loro è munito di mascherina. Certi gruppi sono riconoscibili a colpo d’occhio, perché vestono magliette e shorts dello stesso colore e con le stesse scritte. Questi piccoli branchi accettano d’esser preceduti da un capo che si agita sbracciandosi, e si volge ai suoi incitandoli a un urlo coordinato o a gesti tra di sfida ed esultanza, ballati sulle gambe e agitati con le braccia. Non ho notato, se non per pochi casi, altrettante giovani donne procedere strette insieme. E invece ho visto più di una ragazza capeggiare esigui drappelli di sedicenni.
La più parte delle ragazze vestono pantaloncini assai succinti e attillati, minimi top che lasciano scoperte braccia frequentemente tatuate. I ragazzi in gran numero transitano a torso nudo, roteando t-shirt a mo’ di frombole, nell’altra mano qualcuno sventola una bandierina tricolore. Nella maggioranza scorgi i disegni tatuati sui bicipiti, sui polpacci, sulle schiene. Altri sventolano bandiere grandi che garriscono al vento quando scattano in brevi, rapide corse. E c’è chi, incedendo a gran passi, si fa magnifico alfiere e rotea la lunga asta di un vessillo tricolore. Molti fan rumore con certe trombette a pompa che emettono un suono penetrante, stentoreo, sempre uguale. Si tratta, constato, di uno strumento perfettamente congegnato per produrre, uno qua uno là, in un discorde crescendo, un universale fracasso. Altri hanno fischietti. Non sai se questo baccano sale dalla gazzarra o il trambusto si adegua ai tempi dello schiamazzo. In questa baraonda, a tratti e curiosamente, lo strepito tace quando, mille le braccia al cielo, più alte si levano le grida di vittoria.
Tra le più frequenti una che, ripetuta a intervalli regolari, si accende imponente e trascorre il mobile assembrarsi dei giovani come un richiamo convenuto: «Inghilterra vaffanculo, Inghilterra vaffanculo». E certo non sorprende il ricorso al «vaffanculo» rivolto all’avversario ad esaltazione dell’Italia vincitrice. È il «vaffanculo» che nel nostro paese da tempo è assurto a progetto politico, apprezzato e condiviso dal trentadue e passa per cento degli elettori, è la divisa di cui si fregiano duecento ventisette deputati e centododici senatori e, da quel 4 marzo 2018, non pochi ministri della Repubblica, i vincitori dell’ultima tornata elettorale.
Tra lo scoppio di petardi e certo fumo di candelotti qui rossi, laggiù bianchi, è doveroso prendere atto che i giovani tifosi uno slogan originale, per quanto mi è dato sapere, rivolgendosi alla squadra sconfitta, hanno aggiunto stanotte al parlamentare «vaffanculo». Esso suona un perentorio «si sono attaccati al cazzo», scandito mentre da Piazza del Popolo avanza uno striscione bianco, teso da un marciapiede all’altro quanto è larga la strada. È mantenuto da due giovani in pantaloncini neri e maglietta bianca, l’uno con nera barba e avvolto nel tricolore, l’altro glabro. In lettere maiuscole vi si legge: «La regina cia rotta la vagina». Adolescenze italiane stanotte libere, dopo mesi di scontento e demotivazione, nell’allegria della vittoria. Allegria? No, non mi pare la parola giusta. Vedo in loro non una condivisione, ma uno sfrenarsi in successioni di scatti, un esplodere in gesti compulsi e reiterati, un serrarsi, non un aprirsi, e un darsi, e un confidare. Per chi, come me, ha avuto vent’anni mezzo secolo fa è difficile farsi un’opinione dei ventenni di oggi.
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