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Riccardo Terzi: la pazienza e l’ironia

In ricordo di Riccardo Terzi, pubblichiamo la prefazione di Mario Tronti al suo libro La pazienza e l'ironia ("Citoyens", CRS, EDIESSE, 2011).
Pubblicato il 24 Settembre 2015
Materiali, Officine Tronti, Scritti

Nel titolo La pazienza e l’ironia c’è la persona di Riccardo Terzi. Così lo conosciamo e in questo modo l’abbiamo frequentato. Non c’è però l’intero della persona. In mezzo a queste due dimensioni – che sono due dimensioni del vivere più che dell’agire – ce n’è una terza, determinante, che questo libro documenta: l’inquietudine. Ricerca, e poi ancora ricerca, aperta, un continuum di riflessione, mentre non si smette di fare, non si tralascia, nemmeno per un momento, di partecipare alla vicenda pubblica. L’inquietudine descrive una ricerca in libertà: analisi, giudizi, interventi, mai misurati sulla convenienza personale, a volte pagati di persona, piuttosto sempre tesi a capire la sostanza delle cose  e ad aiutare a far si che le capisca l’organismo collettivo, sia  il partito sia il sindacato, di cui si fa parte. Il saggio introduttivo, e riassuntivo, si chiude con un “nessuna proposta conclusiva” e semmai con la raccomandazione di prendere la decisione dell’”essere in cammino”.

Se ricordo bene, ho conosciuto Riccardo da segretario della Federazione milanese del Pci, una promessa per il nuovo partito che alcuni di noi avevano in mente. Una figura di politico intellettualmente curioso di ciò che si muoveva nella cultura in subbuglio di allora. Il suo saggio di critica del compromesso storico, rifiutato da “Rinascita” – come Terzi racconta qui – lo pubblicammo poi su “Laboratorio politico”, una rivista di intellettuali-mosche cocchiere, che allora – primi anni Ottanta – coordinavo con molta fatica, a causa dell’eccesso di autorevolissime e individualissime teste pensanti che lì si raccoglievano. La sua analisi coincideva con la nostra, fondamentalmente ostile a quella stagione. Qui viene opportunamente ripresa e se ne fa anzi l’inizio di un percorso che arriva fino ai nostri giorni. E’vero che Moro aveva del compromesso storico, e dei conseguenti governi di unità nazionale, una visione più lucida e nello stesso tempo più articolata; mentre Berlinguer aveva messo quella scelta forse troppo dentro una congiuntura, che all’inizio aveva addirittura giustificato con un del tutto improbabile pericolo cileno. Tutto vero anche sulle pericolose conseguenze che quella iniziativa politica aveva provocato nel difficile sociale della fine anni Settanta. Ma c’è da dire, a distanza di molti anni, e col triste senno di poi suggerito dai decenni successivi, che quell’idea fu l’ultimo grande progetto strategico tentato, se non praticato, a sinistra. Poi, più niente. La stessa svolta successiva dell’alternativa non ebbe il necessario respiro per imporsi e non riuscì ad esprimere lo stesso carattere di novità, tale da convincere e da mobilitare. La situazione non era favorevole. Non si può fare l’alternativa di sinistra mentre è in atto il duello a sinistra.

Del rapporto con i socialisti, Terzi è stato un protagonista, non solo a Milano: bisogna dire, con qualche oscillazione, prima e dopo, tanto da essere arruolato, come confessa, tra i miglioristi, malgrado il suo approccio, documentato da questi testi, sia stato sempre molto estraneo a quel modo di fare politica. In realtà il senso della raccolta vuole mostrare “un filo di continuità e di coerenza” e al tempo stesso “una certa insistenza ossessiva” intorno a certi temi e nodi ritornanti nel trentennio in questione. La mia non sarà una presentazione, vuole piuttosto essere, subito, una prima apertura di dibattito. Riccardo Terzi non ha bisogno di essere presentato. Si presenta da sé con le sue idee, che spingono e provocano al discorso e al confronto. Nell’ultimo periodo, gli anni più recenti, nella sua presenza al Crs e nella sua produzione su “Argomenti umani”, ho trovato le sue posizioni molto consonanti. L’intelligenza sempre vigile, la puntualità delle analisi, l’acutezza delle osservazioni, la limpidezza della scrittura, la curiosità intellettuale, il tutto unito, devo dire, alla mitezza del carattere e all’assoluto antiprotagonismo personale, mi hanno sempre incuriosito e mi hanno predisposto a un attento ascolto. Sull’analisi circa quella che lui chiama – mi pare giustamente – non la transizione ma la mutazione della nostra storia nazionale, compresa la storia dei soggetti collettivi, classe, partito, sindacato, di cui ognuno di noi, è stato parte, ecco, sul merito dell’anali e dei giudizi, non tutto mi convince. Scelgo alcuni punti più significativi, di differenza, tralasciandone altri, di consenso, per aprire subito, appunto, una discussione sul libro, che spero continui, a pubblicazione avvenuta. Materia ce n’è molta.

Motivo ricorrente – un leit-motiv che attraversa tutto il discorso – è la polemica con quello che Riccardo chiama “il mito del primato della politica”. Da politico che approda – non proprio per scelta spontanea – al sindacato è naturale la rivendicazione di una precedenza del sociale. Ma c’è, credo, qualcosa di più: una diffidenza caratteriale con il terreno della manovra politica, e anche un’esperienza personale che si scontra con la rigidità della struttura organizzata e con la compattezza conclamata dei gruppi dirigenti. C’è, è vero, la continua ribadita necessità del partito politico, al tempo stesso, però, la ripetuta presa di distanza da quella forma realizzata di partito, che è stato il Pci. Ora, siccome considerare le cose in questo modo è diventato il modo comune di considerare le cose, metterei in guardia dall’accentuare troppo questo punto. Tutto quanto c’è stato dopo, nelle varie figure di partito senza partito, o addirittura di partito antipartito, che si sono susseguite in quel campo, mi portano a guardare, francamente, con più indulgenza all’esperienza complessiva dell’organizzazione Pci. Non si può dire che mancasse lì la rappresentanza di interessi sociali ben determinati, che sta giustamente a cuore a Terzi. In più c’era quell’altro livello che sempre fa della rappresentanza qualcosa di efficiente e di efficace, il livello della decisione. Qualcuno alla fine dirigeva, qualcuno parlava di politica alla società, qualcuno orientava, o cercava di orientare, i processi e di intervenire nei meccanismi economico-sociali o politico-istituzionali, con una propria idea complessiva, dall’opposizione magari, non potendolo fare dal governo. Eccessi di dirigismo, chiusure di burocratismo, sordità alle innovazioni, certo che ci sono state. Ma oggi, guardando da lontano, siamo in grado almeno di riequilibrare il giudizio, senza concedere nulla all’opinione corrente del “tutto fu sbagliato”. Io credo che si è cominciato a sbagliare veramente nel dopo Berlinguer, non con Berlinguer. E’corretto vederlo come figura della crisi, crisi di un mondo di riferimento e di una forma di sua rappresentazione, ma il problema è se quella crisi andasse assunta come ineluttabile prova della fine di un’esperienza storica, come si è fatto, o se non andasse invece contrastata con la riforma delle idee e delle pratiche, con un nuovo possibile “rinnovamento nella continuità”, come era avvenuto in un altro drammatico frangente.

C’è questa simpatica propensione di Riccardo  per il Tao, la Via di raggiungimento della saggezza, anche della saggezza politica: il “non agire”, più efficace, per il raggiungimento degli obiettivi, di quanto non lo sia l’ossessione per l’azione ad ogni costo. A parte che i cinesi, che se ne intendono, stanno oggi con questo giustificando le briglie sciolte sul cavallo del mercato e il libero movimento delle leggi spontanee dell’economia capitalistica. Il consiglio, che si ripete negli anni, dal 1987 a dieci anni dopo, fino ad oggi, nel finale del saggio introduttivo, mi pare, specialmente ora, altamente pericoloso. Anch’io coltivo interiormente alcuni insegnamenti della saggezza orientale, un po’ perché la considero una benefica cura dei mali dell’anima, in po’ in odio all’Occidente, tutto ragione strumentale calcolante. Ma quando passo a pensare la politica, o a praticarla, per quel minimo che mi è concesso, metto subito da parte questo armamentario e torno rapidamente ai maestri del buon agire politico, quelli del realismo e del disincanto, Machiavelli e Hobbes, Weber e Schmitt, che fanno di più al caso nostro. Esemplificando, forse aveva ragione D’Alema, quando, da nuovo responsabile dell’organizzazione, 1987, si preoccupava di salvare una forma riformata del partito di massa, poco prima che si abbattesse sulle nostre spiagge lo tsunami del “nuovo inizio”, a fare strage di casematte e di persone, a fare terra bruciata non solo di strategie, e quindi di idee, ma, secondo me, anche di tattica, e dunque di politica. E’ strano, ma appena un anno dopo, 1988, Terzi smentisce il suo Lao-tse, con un lucidissimo saggio su MicroMega, forse il più impegnativo di questa raccolta, di deciso intervento sul contesto critico del momento.

Ma c’è un punto che mi interessa di sottolineare. Non trovo  nel discorso, e nel percorso, di Terzi la riprovazione e la condanna di quella sindrome intellettuale di massa, che è stata, ed è tuttora in modo pesante, la reazione antinovecentesca, processo non di innovazione ma di vera e propria restaurazione. Il punto di crisi, l’origine di tutte le difficoltà presenti, è sempre lì, in quella voluta cesura di una storia, subalterna al dettato delle forze dominanti, che ne avevano bisogno per imporre la nuova veste scintillante del capitalismo contemporaneo. Nessuna grande forza politica, come nessuna potenza sociale e statuale, nessuna istituzione, espressione di autorità e popolo insieme, può permettersi il lusso di interrompere la propria storia, nell’illusione di ricominciare daccapo. Non si ricomincia, si ritorna al punto di partenza, non si avanza, si indietreggia.

Terzi ricava dalla sua esperienza umana e politica l’esigenza di salvaguardare il libero movimento della singolarità dentro le strutture collettive organizzate. Ma è proprio questo oggi il problema? O non è, questo sì, un problema, serio, di ieri? La libertà non la vedo ora minacciata nello Stato, nel partito, forse nemmeno più nella Chiesa. C’è qui un Elogio del relativismo. Ce n’è effettivo bisogno, nel nostro campo? Dove sono più gli Assoluti? Ci sono più domande dette dal basso senza senso che risposte di senso imposte dall’alto. Non lasciamoci distrarre dal teatrino quotidiano, metà paese a favore di una persona, l’altra metà contro. Anche questo è una sorta di intrattenimento, giocato che sia nella piazza virtuale o in quella reale. A me pare di vedere il bisogno di nuove certezze, vere, serie, di fondo, appartenenza a ragioni diverse, anche di parte, a mondi vitali alternativi, sicuramente non una verità, ma più verità, in civile confronto e conflitto tra loro, non tra loro assimilabili, sovrapponibili, omologabili. La libertà, come autonomia di pensiero, di giudizio, di comportamento delle persone è minacciata da meccanismi tutti oggettivi, da logiche sistemiche, invisibili e tuttavia reali, compatibilità, vincoli, parametri, sempre più lontani, perché globali. Stati, nazioni, e governi, parlamenti, e quindi cittadini, devono obbedire non a leggi, tanto meno a organizzazioni, ma solo a processi, indiscutibili, inattaccabili, una costituzione materiale del mondo che ci comanda. C’è una Installazione di Pistoletto, realizzata in collaborazione con alcuni detenuti del carcere di San Vittore a Milano. La si può vedere riprodotta nel numero di “alfabeta2”, n. 06. Si intitola “Spazio libero” ed è una grande gabbia, si può vedere tutto da fuori a dentro e da dentro a fuori, assolutamente trasparente, ma è una gabbia, la weberiana gabbia d’acciaio del nostro tempo. La forma attuale dell’obbligazione politica è questa, niente affatto lontana da quella leviatanica, solo che è liberamente scelta. E non c’è democrazia con la forza in mano per contestarla.

Ha ragione Riccardo a sottolineare l’importanza decisiva dei fattori ideologici. La guerra di classe del Novecento l’abbiamo persa, non solo, ma certo anche, su questo terreno. Ed è vero: “il territorio dell’ideologia non è quello della verità, ma quello dell’efficacia”. E su questo terreno, dopo fasi alterne, in alcune delle quali ci siamo battuti bene e abbiamo anche vinto, alla fine l’apparato, meglio l’armatura, ideologica dell’avversario si è mostrata più potente. Aveva dalla sua la lunga durata, che è sempre decisiva, e noi un secolo breve, che non è stato sufficiente per trasformare in grande le cose. Per questo l’imperativo era comunque di durare. Quando c’è stato il cambio di egemonia, dagli anni Ottanta in poi, il fronte è franato. Il movimento operaio non era mai stato ideologicamente subalterno. La sinistra lo è stata e non ha più contato niente. Il suo disarmo unilaterale è stato devastante.

Niente è mai perduto per sempre. Occorre trovare il pertugio attraverso cui passare per uscire dalla stretta. Nessuna proposta conclusiva, dunque, se non quella di cercare ancora, ci dice questo libro. Ma raccomando di leggere il “De senectute”, per un convegno Spi del 2004. L’elogio di quella saggezza, di cui si è parlato, non è qui rassicurante, ma stimolante. “La saggezza non coincide con la sapienza, con la conoscenza, ma può essere definita come l’elasticità del pensiero e la flessibilità nell’interpretazione della vita”. No, Riccardo, nel mettere insieme questi testi, non è venuto meno, come teme, al suo convincimento che “la pigrizia è una forma di saggezza”. Questo è un libro pigro, riflessivo, meditativo, esattamente tra inquieta pazienza e inquieta ironia, somiglia molto all’autore, mentre cammina, sempre lentamente, tra una boccata e l’altra di sigaro.

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