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Pubblicato il 8 Aprile 2022
  • In termini ideali, si tratta di tenere insieme due istanze, sperabilmente non incomponibili, ma in certo modo opposte.
  1. In primo luogo, il lato dal quale noi apparteniamo alla Terra, alla biosfera, proprio nel senso che ne siamo parte, e in verità ne dipendiamo, essendo consegnati agli stessi processi metabolici che hanno luogo presso tutti gli esseri viventi. Il titolo I piedi sulla terra vuole appunto significare questo dato elementare e pregnante di radicamento, disconoscendo il quale si lascia campo libero al dispiegarsi della hybris (largamente congeniale allo spirito del capitalismo) che filosoficamente si può leggere nel darsi della crisi.
  2. D’altro canto, la circostanza che noi siamo anche l’oculus mundi tematizzato dalla filosofia rinascimentale: certamente una parte, alla quale, però, la ‘natura’ si presenta tutta intera, come se il sistema-terra, in noi, nei nostri occhi, venisse a ricongiungersi con se stesso. Difficile negare questa unicità della posizione umana senza tradire, anche in questo caso, un dato elementare e pregnante: ma proprio qui, in effetti, si determina la possibilità del disconoscimento di cui sopra e, con esso, della funesta propensione a violare i planetary boundaries.
  • La possibilità, però, non la necessità. Secondo il programma di ricerca, la sintesi di (1) e (2) che è lecito tentare verte sull’idea che la stessa capacità di un rapporto universale con il sistema-Terra, invece che in chiave di dominio, può essere declinata in termini di responsabilità e di cura nei confronti della sua salute. Se un’ipotesi del genere risultasse perseguibile, esisterebbe un senso positivo dell’affermazione che la Terra ci appartiene, non meno di quanto noi apparteniamo a essa: come suoi custodi, appunto, chiamati a esserlo per il fatto stesso di essere gli unici a intendere la totalità delle sue determinazioni, comprese quelle estetiche.

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