Per comprendere il Palio bisogna leggere nei Commentaires di Blaise de Montluc (1502-1577) le pagine dedicate alla caduta della Repubblica di Siena nel 1555, l’eroica e disperata difesa della città assediata, conquistata infine nel sangue dai fiorentini e dagli spagnoli. E chi si rechi a Siena per assistere alla corsa dovrà osservare la Fortezza militare di Santa Barbara, e considerarne, rispetto all’estensione della città, la gigantesca mole eretta, una volta assoggettati i senesi, come un «piede straniero sopra il cuore». Salvatore Quasimodo (una guerra, ancora, tra 1939 e 1945 a devastare il mondo) in una sua celebre lirica dice: «Alle fronde dei salici, per voto,/anche le nostre cetre erano appese,/oscillavano lievi al triste vento». Diresti che il ‘voto’ che allora, dopo la sconfitta, i senesi fecero sia stato proprio quello di affidarsi alle ‘cetre’ nel senso di fissare nel canto (si dica in una rappresentazione fantastica) il fastigio della libertà perduta. E il loro canto, da allora, da cinquecento anni si dispiega nel Palio.
Una gara ispirata alla valentia militare, congegnata a risarcire la sconfitta in cifra figurata e a rifletterla in un gioco regolato: i senesi affidarono al cerimoniale di una competizione (una conferma da ribadirsi due volte l’anno, il 2 luglio e il 16 agosto) la consapevolezza acquisita che la vittoria, per quanti assennati maneggi predisponi, per quanto sacrificio di vite spendi, sta nel caso, vola sulle ali della fortuna, l’altro nome della malasorte.
Nel Palio i senesi, con serietà integrale di passione e di intelligenza, trattano il gioco come reale cosa, e da allora, mentre con somma cautela e circospezione si attengono alle virtù pubbliche, riservano una attenzione disincantata all’effettuale, al cogente, al ‘vero’ volta piuttosto al vantaggio particolare e privato. Ogni passione che si accenda in loro come sentimento ‘politico’, i senesi la liberano nei maneggi che precedono la gara e la fanno librare negli ardori della corsa perché la competizione senza scampo si volga finalmente in tripudio, tuo e della tua parte.
Tra la disperazione e la speranza i senesi sanno che c’è l’insperato. E l’insperato – ciò che, con sorpresa, di favorevole, fausto, atteso ci viene dalla sorte elargito – è quanto li esalta. Pure, il tripudio di chi vince contiene a Siena un fondo di disperazione: i vincitori sanno che la vittoria è sempre insperata, non il risultato di pur profuse competenza e dedizione, non la sicura conseguenza di calcoli ben eseguiti, di analisi corrette e decisioni opportune. Per i senesi ogni vittoria è caso. Dunque sempre ingiusta. Come deve essere considerata ingiusta quella che arrise agli assedianti spagnoli e fiorentini.
I senesi si son costituiti in diciassette ‘parti’, le contrade, alcune tra loro alleate, altre tra loro fieramente avverse. Impedire la vittoria del tuo avversario vale più che vincere: tu ti sei sostituito al caso, ne hai preso le parti e indirizzato il suo cieco movimento secondo il tuo scopo: che il mio nemico non vinca.
Nella tradizione del Palio, il vincitore è un infante, è colui che ignora l’uso del costrutto attraverso la parola, il rapporto tra mezzo e fine. È, propriamente, innocente non responsabile del risultato conseguito. La vittoria sta nella fortuna sicché il personaggio centrale, anche per il vincitore, viene ad essere lo sconfitto. Lo sconfitto è l’erede diretto della caduta della Repubblica, ne incarna al vivo l’orrore. Aver vinto è sogno, illusione, incredulità mista a esaltazione, delirio. Cruda realtà, al contrario, il ludibrio al quale va esposto colui che vede vincere il suo avversario e giusto il senso di sgomento e di paura che prende alla notizia della vittoria del nemico, perché è la notizia della tua sconfitta.
Michel de Montaigne visita Siena nel 1580 e nota che ai senesi, mentre ricordano la sconfitta con le lacrime agli occhi, la guerra sembra «più dolce, se accompagnata da una certa qual forma di libertà, che la pace di cui godono sotto la tirannia». Così è nel Palio, forme de liberté, che i senesi si rappresentano in una loro guerre plus douce che è balsamo contro la tyrannie.
Bello!
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