Articolo pubblicato su “Il Riformista” del 14.07.2022.
L’esperienza del governo “senza formula politica” è ormai ai titoli di coda. E non sono i ricatti di Conte ad averla esaurita così bruscamente. I “penultimatum” di un partito spaesato, che è accreditato di almeno venti punti percentuali in meno rispetto al trionfale voto del 2018, sono essi stessi espressione della crisi, non la causa della deriva sempre più vistosa dell’esecutivo. All’origine della consunzione della grande alleanza c’è il mutamento delle regole d’ingaggio di Draghi (sulla cui vicenda è da vedere il numero on line di fuoricollana.it). Egli aveva accarezzato l’idea di una missione breve. Pochi mesi al comando come esperto ragioniere della Repubblica e, dopo il servizio d’emergenza prestato distribuendo fondi senza chiedere a qualcuno di pagare, il meritato buen retiro del Colle, come premio speciale alla carriera.
Neppure il tempo di assorbire la delusione per il mancato trasferimento al nuovo palazzo che la guerra ha inferto un ulteriore colpo al ruolo dell’ex banchiere, ferito nel sogno presidenziale. La pandemia e il piano della ripartenza, da assi programmatici stringenti indicati da Mattarella, sono diventati due problemi marginali. Il virus è lasciato di nuovo fuori controllo e la politica economica, priva di ogni organicità, scivola sull’ennesima pioggia di bonus, con le solite ingegnerie creative per accollare i costi di un governo paterno e generoso alla fiscalità generale. Proprio mentre il Draghi calante somiglia pericolosamente all’ultimo Conte (persino la scissione di Di Maio ricorda le spericolate manovre di Tabacci per dar vita al “Conte ter” con l’arruolamento dei responsabili), il capo politico del M5S si agita per recuperare margini di visibilità. Il governo è di fatto naufragato, con l’inflazione impazzita, gli indicatori di povertà sociale in crescita. L’ indice di gradimento del Presidente del Consiglio è, non a caso, in chiaro affanno e palesi paiono i segnali di scollamento tra governo e società.
Tra gli analisti c’è chi coglie la cesura della guerra come una bella occasione costituente per progettare un nuovo sistema politico. Secondo il Corriere della sera la risposta alla crisi Ucraina ha mutato in radice la caratura e la stessa legittimità dei principali leader del momento. “A differenza dei suoi (confusi) partner del centrodestra, Giorgia Meloni ha conferito al suo partito caratura e piglio di forza di governo con la decisa scelta atlantista in difesa dell’Ucraina. Adesso Fdl (al pari del Pd) è un partito che ha acquistato un forte credito presso i nostri alleati occidentali. Chi pensa che in politica queste cose contino poco è afflitto da provincialismo”. Il sistema politico, secondo Angelo Panebianco, vede dunque due forze guida (purtroppo) alternative e parimenti legittime (una che reclama lo “ius scholae” e l’altra, con Meloni, che maledice i rifugiati come le avanguardie di “una sostituzione etnica”). Da collocazioni diverse, il Pd e la destra post-missina devono ricostruire i principi di una costituzione materiale all’insegna del ritrovamento dello spirito bellico e della fedeltà all’America.
Il patto atlantico, invocato come surrogato di un nuovo arco costituzionale, suggerisce i generali movimenti trasformistici che si avvertono in un’arena politica priva delle tradizionali collocazioni spaziali e incapace di stabilizzare il governo. Mentre le élite politiche e mediatiche assumono la guerra etica come uno spartiacque storico, ritenendo quindi prioritario edificare la grande diga dell’Occidente contro le cosacche invasioni barbariche, nelle pieghe della società reale i segnali di sfiducia si moltiplicano. Stridente appare già il contrasto tra l’opinione pubblica, che stabilmente nei mesi del conflitto si dichiara contraria all’invio di armi e alle sanzioni economiche contro Mosca, e gli orientamenti del governo, che ha invece cavalcato come irrinunciabili la via militare e quella delle sanzioni non assumendo alcuna iniziativa per indurre un’Europa acefala sulla via della mediazione.
Le manovre per l’allestimento di un sistema a traino trasformistico, che vede la convergenza di spezzoni trasversali di ceto politico-economico-mediatico-intellettuale, confidano in una doppia contesa. Una per i garantiti, gli scolarizzati che continuano a distribuire le loro preferenze per un’offerta politica stantia e per forze politiche prive di identità. E l’altra per gli esclusi, il mondo dei lavori non rappresentati, che restano fuori dal sistema politico. Ed è anzi auspicabile, perché le alchimie del trasformismo trionfino, che le situazioni del disagio rinuncino alla sfera pubblica così da consegnare la loro domanda all’apatia, al non voto.
Si sta definendo un sistema a due volti. Uno in entrata, riservato alle negoziazioni per il metapartito della super-élite al potere e chiuso rispetto alla voce dissonante dei portatori del disagio sociale. E l’altro in uscita, che, nel persistente vuoto culturale e organizzativo della sinistra, è destinato ad ospitare la rabbia sorda e rassegnata di una società preoccupata dagli effetti catastrofici dell’economia di guerra. La speranza coltivata da Conte è che i suoi foglietti programmatici, e il suo tatticismo vetero-parlamentare per ottenere verifiche e rimpasti, bastino per ricaricare le batterie della rivolta. Ci vorrebbe altro, però, per compiere il miracolo della resurrezione di un non-partito moribondo, che nell’attuale legislatura è stato più tempo al governo di tutti gli altri accettando tutte le formule politiche possibili. La speranza ultima di Conte è, insomma, che la tragedia incombente si affidi alla farsa ritornante.
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