Nel bellissimo Scrivere la vita di una donna, pubblicato in Italia da La Tartaruga nel 1990, la studiosa femminista Carolyn G. Heilbrun osservava come vi siano molti modi per scrivere di una donna, tra i quali l’autobiografia, il romanzo, la biografia. In Maria Giudice. La leonessa del socialismo (Perrone editore 2022) Maria Rosa Cutrufelli coniuga biografia e romanzo insieme alla propria autobiografia per scrivere la vita di una donna d’eccezione come Maria Giudice, nata nel 1880 sulle colline dell’Oltrepò pavese e vissuta attraversando da protagonista tutto il Novecento, le sue lotte, le sue guerre, fino al 1953, data della sua morte a Roma.
Lo sguardo narrativo di Maria Rosa Cutrufelli accompagna da sempre con un tono e un timbro particolare le storie di personagge e personaggi dei molti romanzi storici a sua firma, da La Briganta del 1990 che racconta in prima persona l’autobiografia finzionale di una donna del secondo Ottocento italiano, alla coralità polifonica de La donna che visse per un sogno, del 2004, dedicato a Olympe de Gouges e alle donne che insieme a lei vissero in modi diversi la Rivoluzione francese; per passare poi a D’amore e d’odio (2008) che tramite le voci di donne e uomini attraversa tutto il secolo scorso. Ma sono solo alcuni dei titoli dell’ampia opera narrativa di Maria Rosa Cutrufelli, che sceglie di rappresentare una donna importante ma poco nota del Novecento italiano come Maria Giudice in un modo particolarmente efficace, partendo da sé e dalle motivazioni che l’hanno indotta a scriverne e a indagarne la biografia facendone narrazione. In questo modo Maria Rosa Cutrufelli si pone al di là del verosimile del romanzo storico assumendo interamente la relazione propositiva con una donna del passato, non conosciuta di persona ma che le è nota grazie alla figlia Goliarda Sapienza: ed è conoscenza e interrogativo che si attiva non solo nella relazione con l’altra, ma che passa negli incontri del gruppo di scrittrici che negli anni Novanta del Novecento si riunì a lungo, discutendo anche della prima guerra del Golfo e di che cosa significasse pacifismo, resistenza, “necessarietà” – termine di Goliarda Sapienza – di alcune guerre, questioni tutte tra le nostre mani anche adesso.
È a partire da quella esperienza che Maria Rosa Cutrufelli inizia la narrazione della vita di Maria Giudice interloquendo con le sue poche ma significative fotografie, nelle quali il ritratto di Maria Giudice emerge dal fondo scuro del tempo storico: ecco allora “il ritratto intimo di una donna reale”, alla quale piaceva scrivere articoli, grande lettrice che la madre e al padre fecero studiare, comprendendo che la prima forma di emancipazione per le donne è quella culturale. Maria Rosa Cutrufelli segue passo passo le forme dell’apprendimento di una ragazza di fine Ottocento che impara dal padre, ateo, garibaldino prima repubblicano poi, il senso morale della politica; dalla madre, che le insegna l’amore per i classici, la forza della parola scritta. E quindi a Voghera e poi a Pavia Maria Giudice studiò nel convitto e presso la Regia Scuola Normale femminile, l’allora istituto magistrale, divenendo maestra e coniugando insieme allo studio la passione per la politica e la lettura appassionata di Turati, Treves, Bakunin, e passando attraverso le rivolte del 1898, represse dai cannoni di Bava Beccaris. In quegli anni Maria Giudice cominciò a collaborare con il settimanale “L’uomo che ride” diretto da Ernesto Majocchi, poi nel 1902 con il quindicinale socialista “La parola dei lavoratori” su cui scrive sulle donne e il diritto di voto. E grazie a Cutrufelli sentiamo risuonare la sua parola ferma e disinvolta che afferma: “No, signori miei, non vi scalmanate tanto, non gridate allo sfacelo. La donna è nel suo diritto quando prende parte alla lotta della scheda”.
Tra i molti meriti di questo libro, infatti, vi è il restituire a Maria Giudice la sua parola e seguirne le tracce nei tantissimi rapporti della polizia dopo la sua iscrizione nel 1902 al Partito socialista e le molte denunce per manifestazioni non autorizzate, incontri e riunioni clandestine, poiché era divenuta intanto a soli 24 anni Segretaria della Camera del lavoro di Voghera. Spesso è l’unica donna a parlare nei comizi e scrive a questo proposito con ironia: “Voialtri signori siete così socialisti quando si tratta di voi, così poco socialisti quando si tratta di noi!”. Condannata talmente tante volte al carcere al punto da divenire la sua unica dimora stanziale, è lì che conosce Carlo Civardi, anarchico e sovversivo, con il quale andrà a vivere senza mai sposarsi e rivendicando la libera unione come forma intima, assolutamente personale, ben diversa dalla potestà maritale del matrimonio di allora.
Al momento in cui però si palesa la gravidanza della prima figlia, piuttosto che partorire in carcere Maria Giudice si rifugia in Svizzera, dove conosce Angelica Balabanoff e insieme fondano il periodico “Su Compagne!”, perché pur essendo entrambe critiche con un femminismo che ritengono filantropico, entrambe hanno a cuore la libertà delle donne. Dopo quindici mesi di esilio però Maria Giudice tornò in Italia, rientrando di nuovo in carcere anche se incinta, e nel corso degli anni successivi metterà al mondo sette figli, che mantenne con il suo mestiere di maestra, continuando al tempo stesso le sue battaglie sulle pagine de “L’Avanti” su cui scrive insieme a Angelica Balabanoff, e poi su quelle del periodico “La Difesa delle Lavoratrici”, fondato da Anna Kulishoff e sostenuto dalla Confederazione Generale del Lavoro insieme al Partito socialista. Il licenziamento dalla scuola e la grande guerra costituirono motivo di separazione da Civardi, interventista lui che va volontario, lei fermamente contro la guerra, che dirige in quegli anni la Camera del Lavoro di Torino, diviene Segretaria del Partito socialista e direttrice del “Grido del popolo” in cui dibatte a lungo con Gramsci, che le subentra al momento del suo arresto.
La foto che la ritrae intorno al 1916 accanto a Umberto Terracini in carcere dice di lei e della sua determinazione contro la guerra, e di quanto e come sia stata parte della storia del Novecento senza mai perdersi d’animo: alla sua uscita dal carcere nel 1917 torna alla guida del Partito socialista torinese e organizza le manifestazioni delle donne per il pane e per la pace che diventano sciopero generale scandito dal ritmo “Prendi il fucile, gettalo per terra, vogliamo la pace, mai più la guerra!”, represso duramente. Oltre millecinquecento gli arresti, tra loro, di nuovo, Maria Giudice, che apprende in carcere della morte di Civardi in guerra e che per questo motivo si difenderà in tribunale pur non riconoscendone l’autorità, per poter stare accanto ai suoi figli. L’incontro con Giuseppe Sapienza, avvocato palermitano, la conduce nel 1919 in Sicilia, dove il partito la invia con un incarico di propaganda in tutta l’isola, che infatti lei percorre in lungo e in largo, tra la mafia e i fascisti che fanno agguati, e assumendo nel 1920 la segreteria della Camera del lavoro di Catania e la direzione de “L’Unione”, giornale dei sindacati. La distanza da quella che lei definì la “cultura barbuta” si accentua durante il congresso di Livorno nel 1921, al quale Maria Giudice partecipa ma non intervenne. Al ritorno in Sicilia subisce un attentato fascista da cui a malapena si salvano lei e Peppino Sapienza, con cui ormai conviveva, riunendo poi a Catania le loro numerose famiglie, di tante figlie e figli, tre lui insieme a quelli di lei, e poi Goliarda, figlia di entrambi.
Maria Giudice continuava intanto a essere dirigente del partito e direttrice di giornale, e a tornare in carcere con l’accusa di istigazione a delinquere e odio di classe dopo le cariche della polizia e gli spari sulla folla in un comizio a Lentini nel 1922. Nel 1926 “il deserto avanza”: sciolti i partiti, i circoli operai, le leghe contadine, l’arresto di Gramsci nonostante l’immunità parlamentare, “L’Unione” diviene un giornale clandestino, e lei è ormai una sorvegliata speciale, considerata un elemento pericoloso. Nel deserto che avanza, lo sfaldarsi della famiglia per problemi economici e anche per sospetti tentativi di violenza sessuale, la figura di Maria Giudice, nonostante la sua tenacia e determinazione con cui studia il greco e il latino da autodidatta in anni in cui non è possibile l’attivismo che sempre l’ha contraddistinse, progressivamente si appanna: accompagna nel 1942 la figlia Goliarda a Roma per studiare all’Accademia di Arte drammatica e lì vive isolata e sola, fino a che la caduta del fascismo e l’occupazione tedesca della città non la coinvolge nella scrittura del giornale clandestino “Vespri”, ciclostilato e fatto circolare dalla Brigata partigiana Vespri che le permettere ancora una volta di combattere con le parole, mentre la figlia Goliarda fa la staffetta partigiana della brigata che libera nel 1944 da Regina Coeli Pertini e Saragat. Nel dopoguerra la leonessa del socialismo e l’altra leonessa, Angelica Balabanoff, contribuiscono alla nascita dell’UDI e appoggiano Saragat. Ma molta la fatica del vivere e tre anni dopo la morte di Giuseppe Sapienza nel 1949 muore anche Maria Giudice e la figlia Goliarda la ricorderà in molte delle sue opere.
Come giustamente nota Maria Rosa Cutrufelli la vita di Maria Giudice è davvero sovrabbondante: tanta storia grande, tante lotte, “decenni di impegno” scrive Cutrufelli, tanto carcere, tanta vita, tanti figli. Senza così tanta sovrabbondanza, senza così tanta fame di cambiamento non è però possibile raccontare il secolo dell’emancipazione femminile e tutta l’età contemporanea, i suoi cambiamenti radicali, anche i costi che ciò comportò. Perché sta nell’intreccio tra impegno e attivismo estremo di donne come Maria Giudice il motivo per cui il Novecento è stato un tempo storico di così tanti e grandi cambiamenti, la cui eredità difficile, ma anche così ricca, arriva fino a noi grazie al lavoro di quante venute poi, come Goliarda Sapienza e Maria Rosa Cutrufelli.
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