Giorgia Meloni ha recentemente spiegato le ragioni della sua posizione nei confronti dell’UE; è stata una occasione quasi unica poterla ascoltare in un contesto che non fosse un comizio, dove, si sa, scappa la frizione e anche l’acceleratore. La pacatezza e l’apparente ragionevolezza, però, nascondono solo in parte l’ambiguità delle argomentazioni e la reale natura della sua posizione.
Sollecitata a proposito della Proposta di modifica dell’articolo 117 della Costituzione, presentata nel marzo 2018 e di cui è prima firmataria – che elimina come vincoli alla legislazione nazionale l’ordinamento europeo e gli obblighi internazionali – ha difeso la stessa proposta con un argomento singolare quanto accattivante: la non democraticità dell’Unione europea e la conseguente critica al suo impianto intergovernativo. “Gli organismi europei decisionali sono organismi di governo”,“la sovranità popolare si manifesta nelle scelte parlamentari”, chiedendosi poi se, secondo i nostri principi democratici, sia possibile “che cediamo sovranità parlamentari a governi che decidono al posto del parlamento?”. La malizia delle sue affermazioni risiede nel non aver mai pronunciato il termine “sovranità nazionale”; parla bensì di “sovranità parlamentare”, ma non dice mai “parlamento nazionale” o “parlamento italiano”. Tuttavia tutto il suo argomentare senza aver mai nominato il Parlamento europeo, rendono evidente che quando parla di preminenza delle “scelte parlamentari” su quelle dei governi, si riferisce al parlamento nazionale.
Giorgia Meloni si spertica nell’affermare che non vuole affatto che l’Italia esca dall’Unione europea, facendo intendere di non avere niente a che fare con i concorrenti (nella cattura dei voti dei neofascisti) di Italexit. Infatti, se passasse la sua proposta, non ce ne sarebbe bisogno. Tenendo conto che questa “ricollocazione europeista” potrebbe essere seguita da altri Stati Membri – non solo da Ungheria e Polonia – il risultato sarebbe la totale atrofizzazione dell’Unione.
La sua sembra una posizione in linea con quella di voler trasformare l’UE in una confederazione di Stati sovrani, ma solo in apparenza, non elimina l’assetto intergovernativo, anzi, per certi aspetti, lo rafforza. Perché il ruolo del Parlamento europeo diventerebbe soltanto decorativo e perché, ancora di più di quanto succede oggi, sarebbero i governi a mediare le diverse posizioni degli Stati membri. Mediazione che, in assenza di forti coordinate politiche e di principi comuni, diventerebbe proprio quel mercanteggiamento “politico” che la stessa Giorgia Meloni denuncia quando critica la posizione assunta dal Parlamento europeo – con i voti contrari dei parlamentari di Fratelli d’Italia e Lega – che definisce l’Ungheria, a causa delle violazioni dello Stato di diritto, una “minaccia sistemica” per i valori fondanti dell’UE, e chiede non solo la sospensione dell’erogazione dei finanziamenti dei Fondi di coesione, ma l’applicazione dell’art. 7 del Trattato che prevede la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Unione Europea (ad esempio, il diritto di voto in sede di Consiglio) in caso di violazione grave e persistente, da parte di un paese membro, dei principi sui quali poggia l’Unione (libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto).
Il voto contrario al Parlamento europeo è stato motivato dalla sua presunta connotazione politica: volete punire Orban perché è amico di Putin. C’è un solo modo per dimostrare la pretestuosità di questa argomentazione: che il Parlamento Europeo assuma al più presto una posizione analoga sulla Polonia, condannata dalla Corte di giustizia per analoghe violazioni. In questo modo, Commissione e Consiglio dovranno rendere chiaro e trasparente il motivo per cui finora non si è chiesta, anche per la Polonia, la sospensione dei finanziamenti e cioè se ciò sia dovuto ai progressi che il paese sta compiendo o a una diversa valutazione del contesto politico. Ne va della credibilità e del prestigio del Parlamento stesso; sarebbe,infatti, molto grave che il Parlamento europeo per primo trattasse il rispetto dello Stato di diritto come qualcosa di “negoziabile”.
C’è un evidente filo “nero” che unisce le due posizioni, quella sulla sovranità nazionale e quella sull’Ungheria. Ma sostenere che il Presidente Orban, essendo stato eletto, può impunemente violare elementi fondamentali dello Stato di diritto, liberamente accettati dal suo paese al momento dell’adesione alla UE, ha anche un altro significato: equivale a riconoscere esclusivamente la dimensione economica e mercantile dell’Unione europea, proprio mentre si invocano da parte dell’Unione politiche in grado di fronteggiare pandemie, crisi energetiche e climatiche e chi più ne ha più ne metta. Se è questa l’Europa che vuole, Giorgia Meloni lo dovrebbe dire chiaramente.
Al di là del loro significato specifico, queste posizioni sono fortemente preoccupanti sotto un duplice profilo. Il primo è la tendenza a reagire alla crisi dei sistemi democratici con il ridimensionamento della stessa democrazia e delle forme e dei modi in cui essa si esprime. Pensiamo all’Italia e a una legge elettorale che stravolge la rappresentanza e impedisce di fatto agli elettori di scegliere gli eletti, per poi recriminare sull’astensionismo.
Il secondo è che esse rappresentano una sorta di allarme ultimativo per le sorti dell’Unione europea, da sempre un’entità a metà strada tra federazione e confederazione, ma in cui, con il Trattato di Lisbona, attualmente in vigore, la tendenza intergovernativa si è accentuata facendo sì che oggi assomigli sempre più a una confederazione di Stati, proprio quello che le destre europee e nostrane indicano come modello cui aspirare.
La vicenda della guerra, che ha trasformato in vagheggiamenti ogni aspirazione a un’autonomia europea, ci dice che non c’è più tempo per stare in mezzo al guado e che occorre scegliere subito la strada da imboccare: quella della federazione o quella della confederazione, ovvero della dissoluzione di tutta la costruzione europea.
Al contrario, sembra che i governi, soprattutto quelli che contano, abbiano scelto una terza via, quella di una sorta di autarchia europea: un’Unione fortemente accentrata e priva di assetti democratici. Non è un caso che il dibattito sul futuro dell’Europa, persa per strada ogni velleità riformatrice, si stia concentrando quasi esclusivamente sulla modalità di voto del Consiglio europeo proponendo di passare dal voto all’unanimità a quello a maggioranza.
La guerra, la crisi energetica, il cambiamento climatico e le sue conseguenze, la crisi economica e la necessità rispetto ai cambiamenti in atto nel mondo di dover ripensare lo stesso modello economico europeo, la crescita della povertà e delle diseguaglianze, meriterebbero ben altre e radicali riforme che il topolino della modifica del sistema di voto del Consiglio europeo.
È inspiegabile che anche forze che si definiscono europeiste e perfino federaliste, invece di mettere in causa alla radice lo strapotere del Consiglio, stiano facendo del suo sistema di voto la panacea di tutti i mali.
Più volte e da più parti è stato segnalato il rischio che inoltrarsi in nuove fondamentali competenze europee come quelle della politica estera e di difesa, in assenza di un assetto federale e con una Costituzione europea che riprenda la migliore tradizione costituzionale nazionale, può essere molto pericoloso.
Sempre che questa terza via non si trasformi nel ballo sul Titanic che affonda. La destra sta portando una sfida senza precedenti alla stessa sopravvivenza del progetto europeo e non è questo il tempo di risposte minimaliste.
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