Articolo pubblicato su “Strisciarossa” il 29.09.2022.
L’intervista al Corriere della Sera in cui il capo gruppo di FdI alla Camera Francesco Lollobrigida rivendica il primato del diritto nazionale su quello europeo chiarisce – se ce ne fosse stato ancora bisogno dopo il discorso di Giorgia Meloni a Milano sulla “pacchia” – che l’obiettivo della coalizione di destra-centro o almeno dei due partner sovranisti guidati dalla leader di Fratelli d’Italia e da Matteo Salvini è quello di disintegrare dal suo interno l’Unione europea. Il progetto delineato dal più stretto collaboratore di Giorgia Meloni, infatti, sarebbe chiaramente indirizzato a far prevalere nell’ibrido sistema di poteri consolidato nel Trattato di Lisbona la dimensione confederale degli Stati (il “federalismo degli esecutivi” criticato da Habermas o l’“Europa delle nazioni” di cui, in ben altro contesto, parlò a suo tempo Charles De Gaulle) rispetto a quella comunitaria immaginata da Jean Monnet.
Non-discriminazione e parità
L’affermazione del primato del diritto europeo su quelli nazionali non riguarda solo i rapporti fra le Corti, e cioè fra la Corte di Giustizia che ha sede a Lussemburgo e le Corti costituzionali nazionali, che dalla metà degli anni sessanta dialogano su un tema che ha al suo centro la natura stessa dell’ordinamento comunitario definito dai giudici europei sui generis, ma la vita o meglio la vitalità delle leggi europee, la non-discriminazione fra i cittadini dell’Unione e il principio della parità degli Stati membri.
La vitalità delle leggi europee è legata in primo luogo a tutto quel complesso di norme che garantiscono l’esistenza del mercato interno su cui sono stati i fondati i trattati di Roma e che garantiscono le quattro libertà della circolazione – delle persone (che fu avviata nel 1958 con quella dei lavoratori dipendenti), dei prodotti, dei servizi e dei capitali – a cui si sono aggiunte negli anni le politiche dell’economia reale, senza le quali il mercato interno non può funzionare, e poi anche le norme sulla concorrenza su cui l’Ue ha una competenza esclusiva, così come la politica commerciale verso tutti i paesi terzi con una tariffa esterna comune e una parte della politica della pesca.
Nel corso degli anni, le politiche su cui l’Ue ha una competenza concorrente o condivisa – come quella sociale, regionale, ambientale, dei consumatori, dei trasporti e delle reti transeuropee, dell’energia ma anche della cooperazione giudiziaria civile e penale e, da ultimo, della salute – hanno creato quello che in francese si chiama acquis communautaire e che può essere tradotto in italiano in patrimonio delle realizzazioni comunitarie composto non solo da regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e accordi internazionali ma da un’evoluzione culturale che – malgrado le politiche di informazioni sciagurate dei governi nazionali – ha impregnato di sé tutte le società europee. Di questo patrimonio fa naturalmente parte l’integrazione monetaria con una moneta comune che è considerata la valuta unica dell’Ue anche se ad essa hanno fino ad ora aderito diciannove paesi che presto saranno venti.
La Carta dei Diritti
Su iniziativa del governo tedesco, della SPD e dei Verdi, si ritenne – alla fine dello scorso secolo e in vista del grande allargamento verso i paesi dell’Europa centrale che avevano trovato o ritrovato la democrazia – che il progetto politico dell’integrazione europea non poteva limitarsi all’economia ma doveva trovare le sue radici vere nei diritti. Nacque così nacque la Carta, che vincola tutti gli Stati membri che l’hanno ratificata e le migliaia di giudici che la applicano da oltre dieci anni nelle sentenze nazionali. Nonostante la dialettica fra Corti nazionali e Corte Europea, nessun giudice costituzionale nazionale, finora, ha mai contestato il principio secondo cui un giudice nazionale deve disapplicare una legge nazionale nel caso in cui essa contrasti con una norma europea adottata in conformità ai trattati.
In questa logica, la modifica dell’art. 117 della Costituzione italiana – avvenuta nel 2001 nel quadro più ampio della definizione dei rapporti fra Stato e Regioni – ha riempito un’assenza che non poteva essere colmata dall’art. 11 della stessa carta costituzionale, al contrario di quel che stato fatto nelle costituzioni francese, tedesca, belga e spagnola.
Le sentenze di Karlsruhe
In Polonia invece la Corte costituzionale (artificiosamente e illegalmente “addomesticata” dal governo con l’imposizione di giudici “amici”) ha contestato proprio il primato del diritto europeo sul diritto nazionale. Quanto alle sentenze della Corte di Karlsruhe, il tribunale costituzionale della Germania, cui molto impropriamente fa riferimento Lollobrigida, va precisato che il governo di Berlino e la Bundesbank hanno ritenuto che emettendole i giudici di Karlsruhe abbiano agito ultra vires e cioè oltre le loro competenze. Parere condiviso dalla Commissione europea.
Quelle sentenze, insomma, non possono essere presentate come un precedente tale da giustificare la pretesa che il diritto nazionale sia prevalente su quello comunitario. In realtà la proposta di revisione costituzionale annunciata da Francesco Lollobrigida colpisce il cuore stesso del sistema europeo, mette in discussione il principio della non-discriminazione delle cittadine e dei cittadini e scardina il principio della parità degli Stati.
Se per ipotesi la destra-centro trovasse in Parlamento una maggioranza costituzionalmente valida per modificare l’art. 117 l’Italia si collocherebbe inevitabilmente fuori dal sistema dell’Ue obbligando le istituzioni europee ad attivare tutti gli strumenti di garanzia previsti dai Trattati. A cominciare dall’articolo 7 evocato finora per gli amici e alleati di Giorgia Meloni: i sovranisti polacchi e ungheresi.
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