Partiamo dalla fine. Come è stata raccontata nella società svedese (che 1932 al 2006 ha quasi sempre visto, la socialdemocrazia al governo) e come può spiegarsi la forte ascesa dei Democratici Svedesi (Sverigedemokraterna), che li consacra come seconda forza del paese e prima all’interno dello schieramento di centro-destra uscito vincitrice dalle elezioni?

Sulle maggiori testate del paese sono apparsi commenti angosciati (ed esagerati) rispetto al fatto di essere ormai “una delle società più reazionarie in Europa”. Qualcuno (riprendendo articoli della stampa tedesca) ha scritto di Pippi Calzelunghe che osserva la croce gialla al centro della bandiera svedese mentre si trasforma in una svastica. Sono reazioni che conosciamo bene. Ma per indagare i motivi e la natura del successo nazional-populista (con, questo è vero, vicinissime radici nazi-fasciste) è essenziale tener conto di due elementi.

Il primo è che fino al 2010 non erano nemmeno mai riusciti a entrare in Parlamento, quindi, rispetto ad altri partiti simili europei, la loro ascesa è stata tanto forte quanto rapida, nonostante non siano stati promossi dai media più importanti, come i quotidiani rispettivamente vicini ai liberal-progressisti e ai socialdemocratici Dagens Nyheter e Aftonbladet, da cui, anzi, sono ancora oggi fortemente avversati.

Il secondo si riferisce invece alla tattica utilizzata per contenere l’estrema destra. I due altri maggiori partiti svedesi del centro-destra, democristiani e conservatori, hanno da qualche anno apertamente accettato l’eventualità di governare assieme ai nazional-populisti. Il punto su cui discutere è se tale atteggiamento sia stato un incentivo al voto per i Democratici di Svezia, oppure se il mantenimento del cosiddetto “cordone sanitario” sarebbe stato a ogni modo inefficace, favorendo invece un fenomeno simile a quello francese, dove la destra radicale è man mano sempre cresciuta fino a competere seriamente per la presidenza.

In ogni caso, le ragioni del successo dei Democratici di Svezia poggiano primariamente su quello che una recente ricerca1 ha definito “il malcontento svedese”, ovvero lo scontento sociale, specie nei ceti con un non elevato livello d’istruzione ed una presenza problematica nel mercato del lavoro2. A questo si aggiunge il mix efficace ai fini elettorali tra la figura rassicurante e affabile del suo leader Jimmie Åkesson e quella di altre personalità più controverse (in alcuni casi espulse dal partito), spesso provenienti da militanze estreme e capaci di dichiarazioni come: “I lapponi e gli ebrei non sono svedesi”.

La fine dell’isolamento politico delle posizioni politicamente più estreme, porterà i Democratici di Svezia – che intanto hanno già ottenuto la presidenza di quattro importanti commissioni parlamentari (giustizia, affari esteri, affari economici e mercato del lavoro) e altre quattro vice-presidenze (affari civili, traffico, difesa e tassazione) – ad avere un ruolo all’interno dell’istituente Governo svedese o pure si ne ritaglieranno uno meno impegnativo di appoggio esterno?

Ritengo più probabile un non ingresso nell’esecutivo da parte dei Democratici di Svezia, per due principali motivi.

Innanzitutto, il più piccolo dei partiti della coalizione di centro-destra, comunque fondamentale per la maggioranza, quello dei liberali, subirebbe delle serie frizioni interne se dovesse appoggiare o far parte di un Governo con ministri espressi dagli Sverigedemokraterna. I liberali fino a non molto tempo fa si erano addirittura staccati dagli altri partiti borghesi e insieme al Partito di Centro avevano sostenuto il Governo a guida socialdemocratica, proprio perché non accettavano la svolta dei democristiani e dei conservatori, ovvero sostenere l’ipotesi di una maggioranza di Governo insieme ai Democratici di Svezia. Essendo già scesi a un primo compromesso di far parte con questi ultimi di una maggioranza di governo unica, è difficile che compiano immediatamente il prossimo passo di formare con loro un Governo. L’attribuzione dei ruoli parlamentari sopracitati può quindi essere interpretata sia come un riconoscimento che come un risarcimento per gli Sverigedemokraterna.

In secondo luogo, i maestri di Åkesson – vista anche la sua provenienza geografica dal sud della Svezia – sono stati i danesi del Dansk Folkeparti (Partito del Popolo Danese), apripista dell’ascesa della destra in Scandinavia (sebbene non di origine filo-nazista, come invece sono i Democratici di Svezia). I nazional-populisti danesi, sebbene oggi sopravanzati da altre formazioni analoghe, sono arrivati fino al loro massimo successo elettorale (20%) senza aver mai avuto dei ministri all’interno dei Governi conservatori, che hanno sostenuto dall’esterno. Sono così riusciti a spostare molto a destra il dibattito pubblico e le politiche migratorie, contenendo al contempo alcune politiche sociali neoliberali, ad esempio con l’opposizione ai tagli che riguardano le casse assicurative di disoccupazione sindacali (esattamente come sta facendo ora Åkesson).

Un elemento evidenziato come centrale per il successo degliSverigedemokraterna è la percezione di un forte aumento della criminalità soprattutto nelle aree periferiche dei più grandi agglomerati urbani. Quanto è reale questo problema in Svezia?

I dati della violenza fra bande nei cosiddetti quartieri ghetto, dove risiede buona parte delle persone recentemente o da poche generazioni immigrate, sono effettivamente in crescita, molto più che in paesi come ad esempio la Danimarca. A questi si accompagna una più residuale criminalità organizzata di radice più tipicamente nordica, che si richiama al fenomeno degli Hell’s Angels.

Queste problematiche hanno generato un ampio dibattito pubblico, che ha coinvolti anche i socialdemocratici, all’interno del quale si discute, confrontandosi anche con le legislazioni degli altri paesi scandinavi, se sia il caso di inasprire le pene per quei reati (specialmente omicidi) connessi all’appartenenza ad associazioni criminali, anche se commessi da minori (come purtroppo spesso accade). In Danimarca le pene possono essere molto severe – tra i 15 e i 20 anni di detenzione –indipendentemente dall’età di chi compie il reato. In Svezia invece un omicidio commesso in una guerra tra bande da una persona incensurata costa in media 3-4 anni di detenzione. Tanto che addirittura in ambito criminale questi primi pochi anni passati in carcere rappresentano l’inizio di un cursus honorum per entrare a far parte dell’associazione (in gergo c’è un’espressione traducibile con: “fattene quattro e diventa un compare”).

Se da tempo lo slogan del centro-destra è “pene danesi per reati svedesi”, i socialdemocratici, con l’appoggio della sinistra radicale, hanno solo recentemente e (per gran parte degli elettori ancora poco affidabilmente) seguito questa agenda “legge e ordine”. Soprattutto, hanno cominciato a proporre col precedente Governo3 di adottare un’altra legge danese con un obiettivo almeno in prospettiva più progressista: rivedere con una regolazione abitativa molto stringente la composizione urbana delle aree periferiche, rompendo i conglomerati abitativi più problematici. Questa legge, una volta identificate le zone cosiddette ghetto per incidenza della delinquenza, della disoccupazione, della dispersione scolastica e – elemento ben più problematico dal punto di vista costituzionale – di persone che non hanno un retroterra etnico-culturale europeo (o nordico secondo la proposta svedese), prevede la costruzione di nuove abitazioni molto più confortevoli all’interno dell’area in cui si cerca di far confluire persone appartenenti a diversi ceti sociali, aumentando così la varietà socio-culturale dei residenti all’interno di quelle determinate zone.

Abbiamo fatto riferimento a una specifica proposta avanzata dai socialdemocratici, come e quanto è mutata la loro identità politica in una società che pare sempre più informata all’ordine neoliberale?

Il modello nordico, pur mantenendo alcune peculiarità, ha smesso di essere propulsivo nella lotta alla disuguaglianza, elemento caratteristico del socialismo svedese in particolare. Magari meno radicale rispetto ad altre compagini europee per quanto riguardava la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, era al contempo estremamente ambizioso e pragmatico nel voler conseguire un sempre crescente potere delle classi lavoratrici, e con ciò anche una forte diminuzione delle disuguaglianze.

Dagli anni Novanta in poi però, abbiamo osservato in tutta la Scandinavia e specialmente in Svezia l’espandersi di una diversa interpretazione delle politiche pubbliche, tesa a rendere il welfare più funzionale all’interno del nuovo contesto di globalizzazione orientata sull’asse della società della conoscenza. A differenza degli altri contesi europei, questo nuovo progetto politico ha avuto una pratica più coerente all’interno dei paesi Scandinavi, che avevano da tempo imparato a sostituire come elemento di competitività economica l’innovazione allo sfruttamento. Ciò ha permesso di vincere, intorno al 2000, la contesa politica col centro-destra, portatore di un modello più classicamente thatcheriano, e di una visione radicalmente pessimista sul modello nordico detta in Svezia “swedosclerosis”.

Nel conseguire questa parziale vittoria, i socialdemocratici hanno però diminuito alcune importanti garanzie come, per esempio, la fruibilità delle assicurazioni sindacali di disoccupazione, a cui abbiamo fatto già cenno, ovvero le casse di disoccupazione a programma volontario di adesione, alimentate finanziariamente dallo Stato e dagli associati (oltre che in minima parte dagli imprenditori) e gestite tramite fondi dalle organizzazioni sindacali. Esse erano una istituzione fondamentale poiché promuovevano la forza del sindacato (ancora oggi comparativamente la maggiore al mondo) e fornivano delle prestazioni monetarie in percentuale molto vicine al salario che si perdeva venendo licenziati, per periodi molto più lunghi di quanto non accadesse negli altri sistemi. Un indebolimento sostanziale di questa misura ha portato a una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, spingendo le persone disoccupate ad accettare impieghi che prima avrebbero rifiutato. È insomma diminuita la “demercificazione” del lavoro che era un obbiettivo socialista, ed anche le garanzie giuridiche dell’occupazione.

Parimenti tuttavia (grazie agli elementi strutturali presenti cui abbiamo accennato) i socialdemocratici hanno implementato molto più che altrove i paradigmi della società della conoscenza, modificando il welfare affinché accompagnasse le persone da un buon lavoro a un altro. Questo ha funzionato per buona parte della società svedese, ma non per tutta.

Sicuramente le zone di sfruttamento e di povertà sono rimaste molto minori anche rispetto a paesi come la Germania, figuriamoci a paesi come il nostro, in cui la dissociazione fra sfruttamento e competitività ha da trent’anni anni problemi elevati e crescenti a farsi valere. Al contempo però la disuguaglianza, pur partendo da un livello più basso, è avanzata più rapidamente in Svezia che altrove. Il disagio sociale è dunque esploso più fragorosamente, anche per via del fatto che in molti altri aspetti il welfare è stato modificato in senso smaccatamente neoliberale, privilegiando il principio della libera scelta. Ad esempio, l’introduzione dei voucher scolastici, che forniscono a ciascuna famiglia uguali dotazioni da spendere in scuole pubbliche o private di vario tipo, ha aumentato la segregazione sociale, che in Svezia è spesso particolarmente rilevante, vista la bassa densità abitativa e quindi la maggiore distanza tra le varie aree di residenza. Praticamente unica in Europa poi è l’ammissione in questo mercato educativo dell’investimento a fini di lucro: i voucher pubblici quindi finanziano il profitto globalizzato, o, come denuncia efficacemente il sindacato, “i paradisi fiscali”.

Infine, alcuni servizi privati sono stati integrati all’interno del welfare, spesso lasciando che utilizzassero aree di lavoro fortemente precarizzate, ad esempio nei servizi di assistenza nelle case di residenza per anziani. Questa ha comportato gravi danni durante la fase acuta della pandemia di Covid-19, poiché i lavoratori, pur con sintomi di contagio, uscivano comunque per recarsi sul luogo di lavoro, perché, privi di altre garanzie economiche, e sottoposti a turnazioni intense, non sentivano di poter fare altrimenti.

I tagli di presunto efficientamento al welfare si accompagnavano all’abbassamento delle tasse, notoriamente alte, interpretando un approccio in questo caso più ordoliberale, ovvero volto a privilegiare una competitivà del sistema economico basato su un debito pubblico sempre più contenuto (anche se ormai bassissimo) e un forte attivo della bilancia commerciale dei pagamenti. Ciò comportava una crescita squilibrata verso le esportazioni, con la diretta conseguenza però di deprimere i fattori della domanda interna (salari e welfare soprattutto) e di non distribuire dunque sufficientemente le risorse presenti grazie alle competenze competitive accumulate.

Tutto questo ha insomma provocato un disagio capace di provocare un disallineamento dalle culture politiche tradizionali.

Torna il concetto del “malcontento svedese” di cui facevi cenno prima. Puoi dirci di più in merito?

Un termine storicamente chiave. La parola malcontento (missnöje in svedese) è la stessa utilizzata all’apice dell’egemonia socialdemocratica da Tage Erlander, grande leader del SAP con un primato di permanenza alla guida del governo che va dal 1946 al 1969. Il temine era utilizzato per riferirsi al fatto che, in un contesto in cui i miglioramenti sociali erano forti e costanti, le aspettative si erano fatte sempre maggiori e un rallentamento in questi avanzamenti avrebbe potuto generare appunto un loro malcontento. Si parlava infatti di “malcontento da aspettative crescenti”.

Oggi al contrario si ha un malcontento da aspettative decrescenti, che è favorevole a proposte e culture politiche che non promettono progresso e maggiore uguaglianza, ma la protezione dal peggioramento e dalle ansie che lo contornano.

Volendo rifarsi al materialismo storico, potremmo parlare di impatto psicologico del materiale. E, riferendo questo alla cultura democratica condivisa, possiamo rinvenire nell’esperienza storica svedese un’indicazione importante: cosa conduce una società reazionaria e fortemente diseguale come la Svezia del primo Novecento in pochi lustri verso vette di democrazia avanzata. E cosa poi, sempre in pochi lustri, genera le culture politiche capaci di determinare il percorso inverso.

Note

1 Johanna Lindell, Lisa Pelling, Det svenska missnöjet, Bokförlaget Atlas, Stockholm, 2021.

2 Così in base anche ad altre ricerche assai qualificate: SD störst bland arbetslösa – “Handlar om grupper som fått det sämre”, https://www.dagensarena.se/innehall/sd-storst-bland-arbetslosa-handlar-om-grupper-som-fatt-det-samre/.

3 Ygeman: Max hälften med “utomnordisk bakgrund” i utsatta bostadsområden, https://www.dn.se/sverige/ygeman-max-halften-med-utomnordisk-bakgrund-i-utsatta-bostadsomraden/.

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