Le elezioni americane di metà mandato si sono risolte in una sorta vittoria di Pirro per il partito repubblicano. Il GOP riprenderebbe quasi certamente il controllo della Camera dei deputati (il condizionale è obbligatorio visti i margini millimetrici e gli spogli che in regime di voto misto – in persona e per posta – si prolungano a dismisura), e non è escluso che possa ancora strappare la maggioranza di un voto anche al Senato. Ma la “rimonta” del GOP è talmente ridimensionata rispetto alle aspettative e ai pronostici dei sondaggi, per non dire dello tsunami pronosticato da Trump, da costituire quasi una sconfitta.
Come a fotografare un paese prigioniero di una spirale infinita, lo scenario più probabile per quanto riguarda il Senato potrebbe ricalcare precisamente quello del 2020, con gli equilibri bloccati su un vantaggio di 50 seggi a 49 a favore dei Repubblicani in attesa che il cruciale centesimo senatore venga determinato a dicembre da un ballottaggio nella fatidica Georgia. Come ha detto la candidata repubblicana a governatrice dell’Arizona, per l’America nuovamente divisa nettamente in due è una specie di Giorno della Marmotta nazionale.
Non tutto però si ripete uguale. Due anni fa gli scarti microscopici fra i due partiti fornirono a Donald Trump il pretesto per imbastire la sua strumentale narrazione del grande complotto ordito dal “deep State” ai danni suoi e dei patrioti americani che fu sua cura scagliare all’assalto del Parlamento nella sgangherata e mortifera rappresentazione di un golpe.
Questa settimana Trump non era più asserragliato nello studio ovale e le elezioni pur combattutissime si sono svolte in maniera regolare. Non senza qualche eccezione, gli elettori hanno accettato anche le sconfitte di misura e anche quelle determinate dalle schede spedite per posta o depositate nei plichi sigillati durante il mese precedente allo spoglio. Soprattutto sembrano averlo fatto i candidati perdenti, perfino quelli più trumpiani, reclutati specificamente in base alla professata fede nella grande menzogna delle elezioni rubate. Il dato è fondamentale perché non erano solo Biden e Obama a paventare un replay della strategia del rancore che avrebbe inferto un’ulteriore pericolosa spallata all’istituzione elettorale.
Lo svolgimento dell’appuntamento del midterm lascia invece ora sperare che nel corpo politico sia “scesa la febbre” trumpista (anche se ricorsi “per frode” non sono ancor del tutto esclusi in stati come l’Arizona.) E serve a spiegare la paradossale euforia con cui i perdenti hanno festeggiato e i vincitori sono usciti con facce da funerale.
Allo stesso tempo i democratici non possono illudersi. L’esigua maggioranza parlamentare è molto meno di quello che i Repubblicani speravano ma il controllo, anche di misura, della Camera permetterà loro comunque di scatenare il programma già dichiarato: da gennaio si preannunciano “spedizioni punitive” quali indagini su avversari politici, l’FBI (reo di persecuzione politica), e possibilmente procedure di impeachment contro lo stesso Biden, reclamato a gran voce dall’ala destra.
Con una maggioranza risicata Kevin McCarthy, l’ultraconservatore californiano che dovrebbe succedere a Nancy Pelosi come speaker della Camera, sarà semmai costretto a fare maggiori concessioni agli estremisti MAGA.
E sarebbe ingenuo pensare che non permangano strascichi di livore trumpiano nel partito e nella base. Lo dimostrerebbe anche il successo debordante dei repubblicani in Florida, a partire dal governatore celodurista Ron De Santis, trumpista doc, anzi di più. Il governatore trionfante è più realista del re, e temuto dal grande capo, che lo ha già diffidato dal porsi come alternativa e concorrente diretto nelle prossime primarie presidenziali.
È lampante invece come il consolidamento del potere di De Santis apra uno spiraglio ai molti trumpisti per comodo o per paura che potrebbero aver bisogno solo di un’alternativa plausibile per seguire un nuovo condottiero. Nel frattempo i governatori “ribelli” come De Santis e i suoi omologhi (come Youngkin in Virginia e Abbott in Texas) continueranno a usare le proprie amministrazioni locali come laboratori di politiche autoritarie e identitarie, mettendo alla prova i limiti del federalismo con politiche performative che comprendono già deportazioni di immigrati, emarginazione LGBTQ, intimidazione di insegnanti e liste di proscrizione secondo il repertorio necessario a compattare la base e a consolidare il potere.
Ma anche in materia di culture wars le elezioni di midterm sono parse indicare un limite di tolleranza. Il diritto costituzionale all’aborto, unilateralmente abrogato dalla Corte suprema blindata dal fanatismo “originalista” ha costituito senza ombra di dubbio il principale motore motivante per gli elettori democratici e per quelli che hanno votato referendum garantisti in cinque Stati, compresi i conservatorissimi Montana e Kentucky.
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