Ripensare all’esperienza del Social Forum Europeo di Firenze, a vent’anni dal suo svolgimento (novembre 2002), ci porta a ragionare su un tema importante benché poco frequentato nel dibattito culturale e politico: quello del dialogo diretto tra istituzioni e movimenti.
Questo tema fu certamente il tratto distintivo e il carattere originale del SFE, anche se non una “prima” assoluta. Si erano già svolte due edizioni del Meeting di San Rossore, organizzato dalla Regione Toscana nell’ex-tenuta presidenziale presso Pisa, nelle quali partì un ampio confronto tra gli amministratori toscani e molte associazioni ambientaliste, pacifiste, impegnate sui diritti sociali essenziali.
E c’era già stata la grande manifestazione nazionale della C al Circo Massimo, dove il sindacato di Cofferati interloquì con alcuni pezzi del “movimento”.
Ma al SFE di Firenze la ricerca di questo dialogo fu un obiettivo esplicito, voluto, consapevole. E si sviluppò su un terreno vastissimo. Le istituzioni (la Regione, le Province e moltissimi Comuni) e i movimenti collaborarono, per quasi un anno, a concepire ed organizzare l’evento, a difenderlo dagli attacchi politici e mediatici, a garantire il dibattito libero e l’ordine pubblico.
Perché successe questo? Vari furono i fattori.
Potrei citare innanzitutto la determinazione di tutti i protagonisti di superare in avanti – nel nome della civiltà e della non-violenza – il grande trauma di Genova 2001, la grave rottura che ancora indica un “giorno nero” della nostra vita repubblicana. Così come la volontà di sviluppare l’esperienza fatta a Porto Alegre sui temi del “bilancio partecipativo”, tema allora molto sentito.
Pesò molto, va detto sinceramente, anche l’intenzione di trovare nuovi terreni per la battaglia politica contro il Governo Berlusconi e contro gli orientamenti dell’amministrazione Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York.
Le ragioni furono dunque soprattutto politico-programmatiche e si agganciarono a uno spettro largo di grandi temi concreti: pace e guerra, disuguaglianze, ambiente, povertà, migrazioni, lavoro, beni comuni, diritti.
In sostanza il contenuto del dialogo Istituzioni-movimento fu l’essenza stessa della nuova e moderna globalizzazione, innescata e realizzata dal grande capitalismo finanziario.
I risultati di questo dialogo furono importanti. Basterà guardare ai numeri di quel SFE (35.000 delegati, 60.000 accreditati provenienti da 105 Paesi, 400 assemblee, un’immensa manifestazione contro “tutte le guerre” di quasi un milione di persone). E anche ai contenuti di quelle discussioni e risoluzioni, notevoli ed ancora attuali quanto largamente sconosciute.
Va anche detto che però quel dialogo non durò a lungo, specie su scala europea. Già l’anno successivo, nel SFE tenutosi a Saint-Denis e Parigi, ne trovammo poca traccia. E poi sempre meno.
In Toscana riuscimmo a tenere aperto il confronto – pur con fatica crescente – fino al 2009, grazie alle edizioni annuali del Meeting di San Rossore, agli incontri promossi dal Meeting Antirazzista di Cecina e ad altri eventi più locali.
È però molto interessante sottolineare che questo dialogo ha prodotto, nella nostra Regione, delle concrete ricadute sul piano programmatico e legislativo.
E questo non solo sul terreno dell’iniziativa culturale, dove pure le occasioni di collaborazione furono tantissime. Basti pensare agli impegni per la pace, alla cooperazione con i paesi del Terzo mondo, alle campagne sull’acqua pubblica, alla battaglia contro gli ogm, alla realizzazione del Manifesto sul cibo e della banca dei semi (anticipando di gran lunga ogni odierna rivendicazione di paternità sul tema della “sovranità alimentare”), alla redazione del Manifesto Antirazzista di San Rossore nel 2008 (a 70 anni di distanza dal giorno in cui, nello stesso luogo, vennero varate le famigerate Leggi razziali del Fascismo).
Per finire con gli importanti esiti del Progetto “Saving Children”, grazie al quale centinaia di bambini palestinesi gravemente malati sono stati curati in ospedali israeliani da équipe mediche miste di dottori arabi ed ebrei.
Anche negli atti di governo della Regione i segni del dialogo si sono visti concretamente. Merita citare almeno tre momenti significativi.
Innanzitutto la legge n. 43 della Regione Toscana che, nel 2003, rigettava il condono edilizio del Governo Berlusconi e proponeva una visione alternativa nella gestione del territorio, basata sul protagonismo dei Comuni e su un’interazione positiva tra Regione ed Enti locali.
Nel 2009 venne poi approvata una legge regionale sull’immigrazione, la quale garantiva in Toscana, anche agli extra-comunitari, i diritti primari di accoglienza e di assistenza sociale e sanitaria. L’approvazione di quella norma avvenne alla fine della più aspra battaglia consiliare di tutti i miei 10 anni di presidenza, per il durissimo ostruzionismo organizzato dai consiglieri del centrodestra toscano.
Il frutto legislativo più importante di tutta quella stagione fu senz’altro la Legge sulla partecipazione dei cittadini alle scelte di governo, la n. 69 del 2007, rivisitata poi nel 2013.
Questo atto è davvero emblematico di tutte le riflessioni maturate nella fase del confronto con i movimenti, perché ha aperto la strada a un intervento attivo di associazioni, comitati, rappresentanze popolari varie nei processi decisionali più importanti e delicati (infrastrutture, smaltimento rifiuti, aree commerciali, eccetera).
Non fu nemmeno questo un approdo facile, visto che perplessità e dubbi esistevano anche nel campo dei nostri amministratori, preoccupati che i già lenti iter burocratici potessero essere ulteriormente appesantiti dai processi partecipativi.
Ma la scommessa della legge era proprio dimostrare, come in diversi casi è poi realmente avvenuto, che la partecipazione attiva “a monte” era un fattore che accelerava le procedure!
L’incontro istituzioni-movimenti non fu dunque solo dialogo, ma produsse anche rilevanti ricadute di merito nelle leggi toscane. A conferma del carattere strategico e non episodico che gli fu attribuito da tutti i protagonisti.
Dietro questa esperienza ci fu una teoria? Sinceramente devo dire di no. In quell’intensissimo 2002 ci fu soprattutto uno slancio culturale e politico. La teorizzazione venne magari dopo, strada facendo, senza però mai diventare un pensiero compiuto, senza una vera e propria sistematizzazione.
Chi pensò e organizzò il SFE del 2002 a Firenze non aveva in realtà un’ambizione intellettuale, né le competenze per rivendicarla.
Del resto un approccio teorico al tema del dialogo istituzioni-movimenti è assai complesso e si articola su vari aspetti, tra loro connessi.
C’è intanto una riflessione sul tema specifico del “metodo”. Il dialogo è ovviamente uno strumento, non di per sé un contenuto. Ma ha un’indubbia importanza “formale” e quindi procedurale e relazionale.
Esso apre infatti la discussione sul nesso tra “generale” (le istituzioni) e “particolare” (i movimenti), tra rappresentanza orizzontale e verticale. E squaderna tra queste due realtà, che dialogano ma sono sostanzialmente “diverse”, il tema cruciale del “reciproco riconoscimento”.
Le questioni che già conosciamo esistere sul terreno del rapporto tra istituzioni e associazioni “consolidate” (sindacati, rappresentanze di categoria, Terzo settore, ordini professionali ecc.) si ripropongono in termini qualitativamente più pregnanti quando si parla del dialogo con soggetti meno strutturati e assai spesso dichiaratamente “alternativi”.
Vi è poi il tema del carattere “impegnativo”, per tutti, degli esiti che questo dialogo produce. In altri termini: ciò che scaturisce, come conseguenza “pratica” di questo confronto, viene assunto coerentemente da entrambi i soggetti? Al punto da introdurre cambiamenti, evoluzioni, in senso reciproco? Non è un tema da poco.
Ancora: esiste la dimensione del “merito”. Sappiamo che il dialogo si svolge tra soggetti diversi per natura e ruolo sociale, i quali hanno impostazioni, analisi e proposte talora contrapposte.
Quando possiamo dunque considerare produttivo, fecondo questo dialogo? E che nesso stabiliamo tra i risultati (positivi o negativi che siano) e il permanere scontato di un’autonomia di pensiero ed azione, di un libero posizionamento di ognuno dei due? Dov’è il confine tra “dialogo come buona volontà” e “dialogo impegnativo”?
E ancora: i soggetti sociali sono tanti, non solo quelli classificabili come “movimenti”. Esiste una modalità utile per la quale il dialogo specifico tra istituzioni e movimenti diventa un tassello del dialogo più complessivo, nel quale entrano in gioco più attori e nel quale nessuno rifiuta di parlare con nessun altro. E nel quale vige un principio di “pari dignità”, anche in presenza di posizioni molto diverse.
Sono temi che merita analizzare attentamente.
C’è infine un ultimo aspetto, non del tutto secondario. Il dialogo istituzioni-movimenti è stato di fatto un dialogo tra gli esecutivi delle istituzioni e i leader dei movimenti.
Restando alla dimensione istituzionale c’è da chiedersi, anche in chiave teorica, quale possa mai essere su questo tema lo spazio per le assemblee rappresentative, ovvero i Consigli regionali e comunali.
Anche ragionando di questo si incontra il tema generale della progressiva marginalizzazione delle assemblee, il prevalere ormai indiscusso del ruolo dei governi. È il Governo che rappresenta l’ente. E il Consiglio? E le forze politiche?
Il problema si fa più acuto anche perché spesso abbiamo Governi fortemente politicizzati, con visioni e proposte che non rappresentano tutti gli eletti. Sul piano democratico non è un piccolo problema.
Che prospettive ha, nell’oggi e per il domani, il dialogo tra istituzioni e movimenti?
Non è facile rispondere, anche se la realtà che abbiamo sotto gli occhi è quella di un percorso accidentato e di un confronto rarefatto. Il sentiero si è interrotto e non è facile riprenda bene.
Anzi. Tornano in evidenza i contrasti tra Governi e ONG sull’immigrazione, le incomprensioni sulle questioni del cambio climatico, le contestazioni aspre su fondamentali questioni sanitarie (vedi la vicenda Covid) o su grandi scelte urbanistiche ed infrastrutturali.
Non vedo sereno all’orizzonte. Anche per l’esistenza di reciproci problemi interni.
Il “movimento dei movimenti”, negli ultimi venti anni ha visto crescere più gli elementi della frammentazione, della settorializzazione che non le ragioni della convergenza e della sintesi. In qualche caso abbiamo assistito anche all’emergere di un nuovo radicalismo antagonista, connotando chi lo propugna come partner indubbiamente “ostico” per le Istituzioni.
In generale, se facciamo eccezione per la nuova realtà dei Fridays For Future, il movimento ha mostrato un protagonismo meno incisivo, meno influente. Il Covid ha reso poi meno attrattiva l’idea di manifestare in molti, tutti insieme.
Andrà prima o poi analizzato a fondo anche l’effetto di individualizzazione e di “frammentazione antropologica” indotto dai social media, le cui conseguenze sulla riduzione dello spazio politico pubblico sono a mio avviso rilevantissime.
Quanto alle istituzioni non è contestabile il progressivo forte ripiegamento ideale e culturale intervenuto dal 2002 a oggi. Siamo di fatto alla rinuncia a svolgere un ruolo di interlocutore vero nei confronti di una militanza sociale talvolta scomoda ma certamente stimolante e comunque rappresentativa di una cittadinanza “attiva”.
C’è qui indubbiamente il portato della crisi profonda dei partiti, ormai ripiegati su sé stessi e incapaci di guardare al mondo reale che li circonda. Ma c’è di più.
C’è la conferma che è prevalsa in modo netto l’illusione “governista”, quel veleno sottile che è l’altra faccia del politicismo partitico. Si è affermata senza possibilità di contestazione l’idea che le cose si cambiano dal governo, dalla stanza dei bottoni, dalla macchina. E non (anche) dalla società, dal contatto quotidiano con le opinioni dei cittadini, dall’agone concreto nei territori e tra i soggetti sociali.
C’è qui una precisa responsabilità, che va al di là di singole posizioni di merito. Perché questa scelta governista ha dato un suo indubbio contributo alla drammatica riduzione della vita democratica.
Le due specifiche difficoltà, quella dei movimenti e quella delle istituzioni, renderebbero ancora più urgente e importante la ripresa del dialogo e una sua pratica impegnata e duratura. Non solo per una questione di “buone maniere” o di mera convenienza tattica.
Oggi questo dialogo serve perché di fronte all’altezza delle sfide in atto nessuno ce la fa da solo. Questa è la mia tesi essenziale, dal valore dirimente, che va discussa seriamente.
Nessuno ce la fa da solo. Né le Istituzioni, specie se restano quelle di oggi. Né i movimenti, indeboliti e privati di uno sbocco politico alle loro proposte e battaglie.
Non esiste la soluzione politicista o governista, tutta interna al Palazzo. Intanto perché mancano le competenze per organizzarla, ma soprattutto perché non c’è più il Palazzo!!
Quello che abbiamo conosciuto del Palazzo novecentesco è stato di fatto sbriciolato e disarticolato, dalla globalizzazione e dalla disintermediazione prodotta dalla rivoluzione telematica.
E non funziona nemmeno la soluzione movimentista, perché da tempo non offre un messaggio aggregatore, come invece fu nel 2002 a Firenze.
Lo dice anche la crisi dei Social Forum, esperienza conclusasi ormai oltre dodici anni fa.
Può allora la soluzione essere nell’unire le forze, anche diverse, di tante soggettività e rappresentanze, intorno ad un’idea assai diversa del “globale”?
Questo tema emerge come una delle poche piste oggi praticabili, anche se in un contesto generale molto fluido e precario, segnato più dalle inquietudini del nostro presente che dalle speranze per il futuro. Colpisce che in questi mesi nemmeno la minaccia atomica scuota davvero le persone e spinga a manifestare in grandi moltitudini per la pace nel mondo!
Tutti questi interrogativi rimandano in definitiva ad un nodo cruciale, che non riguarda solo il dialogo istituzioni-movimenti ma più direttamente il futuro della democrazia. La democrazia è il vero soggetto a rischio di questa fase.
Il pensiero filosofico, scientifico e politico deve aiutare a costruire una sintesi più alta tra le varie facce della democrazia: quella procedurale (le regole), quella attiva (la partecipazione) e quella decisionale (la politica).
Una sintesi che sia anche più efficace. La democrazia si indebolisce se non ottiene risultati. E questo deve essere preoccupazione di tutti, delle istituzioni come dei movimenti.
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