Pare sia questione di ore e anche l’Italia ratificherà il Trattato di modifica del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), nonostante l’attuale maggioranza e il maggior partito che la rappresenta, si fossero fatti paladini di una campagna contraria.
Come spesso accade nel dibattito nostrano che ha imboccato da tempo l’antitesi evangelica: “o con me o contro di me”, il MES è divenuto addirittura il metro di misura del tasso di europeismo tra i vari interlocutori.
In questa logica non è un caso che importanti appelli di economisti, giuristi, accademici siano stati ignorati fin da quando il ministro Gualtieri si inoltrò nel processo di modifica che porta oggi alla ratifica.
Appelli critici sull’intero meccanismo, fino a chiederne l’eliminazione, o anche portatori di alternative quantomeno discutibili.
La prima considerazione vorrei farla proprio sulla destra: quella portatrice dell’idea di Europa come insieme di nazioni sovrane, di conseguenza ostile alle istituzioni che più rappresentano o dovrebbero rappresentare la dimensione comunitaria, e far notare che questo meccanismo, così discutibile nella sua natura giuridica e nella sua funzione, è proprio il frutto di quell’Europa intergovernativa così vicina alle aspirazioni di chi persegue l’obiettivo dell’Europa delle nazioni.
Il MES, infatti, è una “organizzazione intergovernativa regolata dal diritto pubblico internazionale” con sede in Lussemburgo e frutto di un trattato intergovernativo internazionale, estraneo alle istituzioni dell’Unione e, tuttavia, ad esse raccordato con riferimento ad alcuni articoli del Trattato sul Funzionamento dell’Unione.
Nel merito, esso non è altro che una toppa alle lacune che l’introduzione dell’euro e la costituzione della Banca Centrale Europea, per come sono state realizzate, non sono riuscite a colmare.
L’introduzione dell’euro, infatti, non consente più agli Stati di poter ricorrere allo strumento della svalutazione della moneta di fronte a una crisi, così come lo stesso default di uno Stato non è concepibile nell’area euro in quanto la dichiarazione di insolvenza danneggerebbe le banche dei Paesi che ne hanno acquisito i titoli. A fronte di tutto ciò, la Banca Centrale Europea non può, per statuto, intervenire nel salvataggio di uno Stato, da qui, di fronte alla crisi del debito sovrano esplosa nel 2018, l’invenzione del MES.
Il MES ha, quindi, il compito di sopperire a queste lacune erogando crediti in cambio di “condizionalità” più o meno pesanti a seconda della situazione finanziaria de Paese (sostenibilità del debito, rispetto dei criteri del Patto di Stabilità, ecc.).
Il suo capitale è costituito da versamenti degli Stati fino a raggiungere l’obiettivo di 704,8 miliardi di euro, attualmente ne possiede 80,5 e l’Italia, terzo contribuente dopo Germania e Francia, ne ha versati 13,6 che costituiscono il 15% dei 125 miliardi del contributo totale sottoscritto.
La sua governance è formata da un Consiglio dei Governatori composto dai 19 Ministri delle Finanze dell’area Euro; da un Consiglio d’Amministrazione, composto da tecnici indicati dai Governi e da un Direttore Generale che ha tra i propri compiti, quello di fare gli interessi dei creditori.
Quanto alle “condizionalità” e alle sue “gradazioni” ricordo per tutte l’esperienza della Grecia, la quale si ritrovò in casa la famosa troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale) a imporre un piano di ristrutturazione del debito che, come il più delle volte accade in queste azioni di risanamento, ha colpito l’occupazione, il lavoro, i servizi essenziali, le pensioni, i beni pubblici; in poche parole, la parte più fragile della popolazione.
Su tutto ciò esiste una vasta letteratura che documenta come lo stigma, che in genere si abbatte sui Paesi debitori, in questo caso abbia colpito proprio la troika divenuta nell’immaginario collettivo sinonimo di ingiusta espiazione.
La conferma sta nel fatto che, sebbene durante la pandemia vi fosse una offerta di credito del MES sanitario senza condizionalità, nessun Paese vi abbia fatto ricorso proprio per paura di entrare nel mirino della speculazione finanziaria.
Un altro elemento da esaminare con attenzione è il rapporto tra questo organismo esterno (MES) e le istituzioni dell’Unione. Nell’analizzare il processo che porta alle così dette condizionalità non sfugge, infatti, l’impressione di una ennesima mortificazione del ruolo della Commissione Europea che diviene, in questo caso, il cane mastino di un programma di “recupero crediti” deciso dai Governi in una sede istituzionale del tutto esterna all’Unione.
Se tutto questo non è avvenuto a caso, bisognerebbe andare all’origine di queste storture, e comprendere perché la Banca Centrale Europea, dopo aver sostituito il potere delle banche centrali nazionali, si rivela non avere tutte le caratteristiche e i poteri di una banca centrale, soprattutto oggi, quando, non solo cesserà di comprare titoli di debito degli Stati, ma tenderà a liberarsi di quelli già acquisiti.
Una delle ragioni sta proprio nella mancanza di coraggio politico che ha portato alla creazione di istituzioni ibride le quali, nella loro opacità, sfuggono a un controllo democratico pieno, assumendo sempre più una fisionomia tecnocratica per sua natura difficilmente discutibile.
In questo quadro il MES più che causa diviene l’effetto di una politica europea in balìa del mercato finanziario e della speculazione con pochi anticorpi in grado di restituire alla politica e, di conseguenza, alle istituzioni almeno una parte dei poteri di indirizzo e di decisione.
Non sfugge, poi, un altro grave handicap costituito dalla sfiducia reciproca che domina gli Stati e i rapporti tra loro, tutto ciò non può che aggravarsi in un’ottica intergovernativa proprio perché, quest’ultima è basata sulla difesa dei propri interessi a scapito della ricerca di un “interesse comune”.
I Paesi più solidi dal punto di vista finanziario (i così detti “frugali”) hanno il terrore di dover condividere il peso dei Paesi indebitati e non sono disposti a considerare i vantaggi che la moneta e il mercato hanno offerto loro con indubbi sacrifici da parte delle economie più deboli e, soprattutto, dei territori più svantaggiati nel dover sostenere una moneta “forte” non corrispondente al proprio livello di sviluppo. Se, durante la pandemia, la sospensione del patto di stabilità e l’emissione degli eurobond a parziale finanziamento del piano New Generation EU, aveva fatto sperare in un cambiamento delle politiche europee in senso maggiormente espansivo, le politiche riproposte oggi dalla Commissione, dal Consiglio e dalla stessa Banca Centrale Europea, vanno prevalentemente nella direzione opposta, con in più il problema degli aiuti di Stato alle imprese europee che rischiano di subire la concorrenza delle imprese USA abbondantemente sussidiate; anche in questo caso c’è il rischio che ciascuno pensi per sé e chi ha più disponibilità di bilancio la usi introducendo nella stessa Europa ulteriori elementi di concorrenza e disparità.
Come si può vedere, c’è molto da discutere e da riformare nella prospettiva di un’Europa che trovi l’unità necessaria a sostenere le sfide contemporanee che nessuno Stato, da solo, è in grado di affrontare; proprio per questo, tacciare di ideologismo ogni analisi critica della situazione presente, non può che nuocere a quella causa europea che si proclama di voler difendere. E questo vale soprattutto per quella sinistra di governo che sembra aver smarrito la bussola degli interessi economico-sociali propri della sinistra in favore di un conformismo acritico che porta all’accettazione della situazione data e all’incapacità perfino di immaginarne il cambiamento.
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