Il giorno 13 febbraio, nella città di Al-Khalil (Hebron), nel sud della Cisgiordania occupata, il giornalista statunitense Lawrence Wright, corrispondente per il New Yorker, ha assistito a una scena che lui stesso ha definita inusuale.
Mentre intervistava Issa Amro, noto attivista palestinese per i diritti umani, un militare israeliano si è avvicinato ai due e non ha esitato ad aggredire e poi a detenere brevemente il palestinese.
La scena è stata interamente filmata da Wright, il quale ha poi denunciato l’episodio su Twitter, dicendo a chiare lettere: “Fino a oggi, non mi era mai capitato che una fonte venisse aggredita davanti ai miei occhi”. Wright non si è limitato a riportare quanto accaduto, ha dovuto smentire categoricamente la versione prontamente offerta dall’esercito israeliano che, in un comunicato, giustificava l’episodio dipingendolo come la conseguenza di un acceso confronto fisico e verbale, in cui Amro avrebbe insultato e ingiuriato il soldato occupante.
“L’IDF (Israeli Defense Forces) ha rappresentato i fatti in modo fuorviante,” ha scritto Wright. “È stato il militare a iniziare il tutto, Amro non lo ha insultato, ha solo chiesto di chiamare un superiore. Niente giustificava il ricorso alla violenza”. A seguito delle parole del giornalista del New Yorker, una breve indagine interna ha condannato il militare a dieci giorni di detenzione, una risposta che sarebbe adeguata se quanto accaduto fosse l’eccezione, e non la quotidianità, per gli oltre due milioni di palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata.
Questo episodio, inoltre, è esemplificativo di un altro modello di vessazione, anch’esso parte integrante delle dinamiche del colonialismo di insediamento messo in atto da Israele: una vera e propria guerra delle narrazioni, tesa a produrre una realtà parallela che edulcori l’oppressione quotidianamente esercitata ai danni dei civili palestinesi, e funzionale al progetto sionista di graduale eliminazione della popolazione nativa.
Infatti, se un giornalista statunitense non fosse stato presente sulla scena, a prevalere nella narrazione mainstream, nei momenti immediatamente successivi ai fatti, sarebbe stata la versione fallace e “fuorviante” dell’esercito israeliano.
Un meccanismo collaudato
Quello che ho brevemente descritto è un meccanismo collaudato, che chiunque si occupi di Israele e Palestina conosce fin troppo bene. Dalla cronaca di tutti i giorni fino alla rivisitazione, alla negazione e al revisionismo dei fatti storici, quella che deve emergere non è la realtà, bensì una “versione” della realtà, filtrata dai meccanismi della hasbara, ovvero della propaganda tesa a trasmettere un’immagine positiva di Israele. Una strategia, questa, che non viene negata, ma che anzi, viene incoraggiata sin dagli albori del movimento sionista.
È infatti lo stesso Theodor Hetzl, padre del sionismo moderno, a citarla al Congresso Sionista del 1899 e a spronare i seguaci del sionismo a farsi “promotori della propaganda”.
Sarà la hasbara a permeare tutti i miti di fondazione di Israele: dalla “terra senza popolo per un popolo senza terra” fino al “deserto che gli ebrei dovranno far fiorire”.
Nel maggio del 2013, il quotidiano israeliano Haaretz pubblicò un documento fino ad allora secretato, il GL/17028, molto rilevante per capire la logica che ha accompagnato Israele sin dal 1948. Il documento svela, infatti, i meccanismi messi in atto da David Ben-Gurion, uno dei padri fondatori di Israele, per rimuovere dall’immaginario collettivo l’efferatezza che aveva accompagnato la fondazione dello Stato ebraico, con l’espulsione forzata di quasi un milione di nativi palestinesi per mezzo di azioni portate avanti da gruppi militari e paramilitari che sarebbero poi confluiti nell’attuale esercito israeliano. Ben-Gurion spiega come la narrazione ufficiale debba invece delineare un’altra interpretazione dei fatti, una secondo cui i palestinesi avrebbero lasciato le loro terre “volontariamente”, convinti che prima o poi sarebbero potuti tornare grazie alla vittoria dei Paesi arabi nel conflitto.
La pubblicazione di questo documento, così come interi volumi dedicati alla comprensione dei terribili fatti accaduti nel 1948, che i palestinesi descrivono con il termine Nakba (catastrofe), non sono bastati, evidentemente, per limitare i danni storiografici prodotti dalla manipolazione consapevole dei fatti storici. Ancora oggi, moltissime spiegazioni fornite in merito all’origine del cosiddetto “conflitto arabo-israeliano” hanno un’impronta prettamente negazionista: la violenza che ha causato l’esodo forzato dei palestinesi scompare dal racconto per lasciare in evidenza solo le fonti israeliane, rimaneggiate ad arte per esplicita ammissione dei padri del sionismo.
A questa impostazione generale, si aggiunge poi il pregiudizio di stampo orientalista per cui la versione fornita dai palestinesi – storici, intellettuali, giornalisti o semplici testimoni della cronaca di tutti i giorni – non sarebbe credibile e dovrebbe essere dunque sempre avvalorata da una versione fornita da una controparte, sia essa occidentale o israeliana. Sorprendentemente, questo non accade solo in contesti ostili alla causa palestinese o esplicitamente filosionisti, ma talvolta anche in ambienti teoricamente vicini alle ragioni del popolo occupato.
Permesso di narrare
Ne 1984, due anni dopo l’eccidio compiuto dall’esercito israeliano con l’ausilio delle Falangi Libanesi nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila, a Beirut, il grande intellettuale palestinese Edward Said scrisse il saggio “Permesso di narrare”, in cui lamentava l’impostazione generale che aveva ispirato la narrazione di quegli eventi nella stampa occidentale. Una impostazione secondo cui, nelle parole di Said, “si percepiva Israele come Paese civile e democratico, incapace di condurre azioni barbare contro i palestinesi e la popolazione non-ebraica,” e che dunque giustificava “ipso facto l’invasione del Libano.”
“La narrazione palestinese,” continua Said, “non è mai stata ufficialmente ammessa nella storiografia israeliana… La presenza della componente ‘non-ebrea’ della popolazione era… come un inconveniente da ignorare o rimuovere”.
A quasi quarant’anni dalla compiuta elaborazione di questo apparato teorico da parte di Said e dalla forte denuncia articolata dal docente della Columbia University, non molto pare cambiato nella percezione degli eventi.
Sebbene il popolo palestinese, nella madrepatria e in diaspora, abbia prodotto fini letterati, poeti, giuristi, storici, giornalisti, politici, accademici, diplomatici, intellettuali, non è raro trovare, ancora oggi, contesti in cui si parla di Palestina e di causa palestinese senza che siano presenti le loro voci e i loro punti di vista.
Con l’eccezione delle realtà del sud globale, in occidente si tende ad accettare la sporadica testimonianza dei palestinesi solo nei casi in cui si vuole descrivere la portata umanitaria del dramma dell’occupazione e dell’apartheid. Tuttavia, solo di rado si accetta un approccio teorico e narrativo che parta dal punto di vista palestinese e che non sia, invece, schiacciato sulle priorità occidentali.
In questo quadro fortemente falsato e permeato dalla hasbara, le fonti palestinesi, semplicemente, scompaiono e non vengono accettate dalla narrazione ufficiale.
Questo avviene anche e soprattutto in ambito accademico. Negli ultimi anni, grazie al lavoro di grandi intellettuali come Ghada Karmi, Uri Davis e soprattutto, dello storico israeliano Ilan Pappé, è stato possibile aprire dei Centri di Studi Palestinesi all’interno delle università, che hanno prodotto un’elaborazione teorica di valore incommensurabile. Ma questo potrebbe cambiare, come denuncia lo stesso Pappé in un articolo scritto per il Palestine Chronicle, in cui mette in guardia dall’apertura di un centro sionista, la “New Israel and Zionism Society”, nell’università inglese di Exeter, dove il professore israeliano dirige il rinomato Centre for Palestine Studies.
“Non c’è una via accademica o professionale per contestare l’immenso lavoro che stiamo svolgendo, non solo a Exeter ma anche negli altri otto centri di Studi di Studi Palestinesi nel mondo,” scrive Pappé. “Per questo, la controparte cerca di vincere sul piano morale con la forza, grazie a questi tentativi patetici di intimidire, con la sua mera presenza, l’inesorabile produzione teorica in Palestina”.
Ancora più grave, secondo Pappé, è l’atteggiamento di alcuni Paesi, tra cui l’Italia, che “non osano neanche aprire un centro di studi palestinesi o cambiare i loro programmi di studio, pur sapendo che ciò che insegnano nelle loro università è frutto di pura propaganda”.
Se questo è l’atteggiamento nel mondo accademico, timoroso e sempre preoccupato dalla possibile e strumentale accusa di antisemitismo, non diversa è la tendenza che si registra nel mondo del giornalismo. Anche qui, la versione palestinese tende a scomparire dalla narrazione dei fatti, nella sostanza e nel linguaggio utilizzato. Partendo da postulati fasulli e poggiando sulla mera propaganda diramata ad arte dai sionisti e dalle autorità israeliane, si produce una sorta di finta “neutralità” che invece distorce completamente i fatti e fornisce, nelle parole di Lawrence Wright, delle “versioni fuorvianti”.
La guerra delle narrazioni
Quando, l’11 maggio scorso, la giornalista palestinese Shireen Abu Akleh è stata uccisa da un militare israeliano nel campo profughi di Jenin, l’esercito israeliano ha diramato una velina in cui forniva una propria versione degli eventi, che è stata immediatamente recepita dalle redazioni di tutti i quotidiani e notiziari mainstream mondiali.
Abu Akleh, secondo l’IDF, era stata presumibilmente colpita durante scontri a fuoco tra milizie armate palestinesi. A nulla è valso il fatto che, sulla scena, vi fosse un altro giornalista palestinese, Ali al-Samoudi, il quale ha immediatemente smentito la versione dell’esercito. Si trattava di una fonte primaria che, dal letto d’ospedale in cui era stato ricoverato per aver ricevuto un proiettile alla schiena, ha escluso subito, a chiare lettere, la presenza di milizie armate palestinesi sulla scena. Eppure, la testimonianza di al-Samoudi è stata completamente ignorata o sottovalutata nell’immediatezza dei fatti.
Con il tempo, la verità è emersa e le indagini portate avanti da diversi gruppi internazionali hanno confermato la versione del giornalista di Jenin. Il fine della hasbara israeliana, tuttavia, era stato raggiunto. Il seme del dubbio era stato seminato e la portata gravissima degli eventi era stata sminuita.
La delegittimazione della versione palestinese dei fatti di cronaca è una costante nella storia recente: anche quando, nel 2000, il dodicenne Mohammed al-Durrah venne ucciso a Gaza mentre suo padre tentava di ripararlo inutilmente con il braccio, si parlò di “fuoco incrociato” e si tentò di scaricare la responsabilità sui palestinesi, colpevoli anche di “esagerare” nel loro presunto vittimismo.
In questa ottica, infatti, i palestinesi vengono continuamente deumanizzati, con diverse strategie. Prima di tutto, attraverso il lessico, che esclude il contesto degli eventi e dunque li descrive come vittime o carnefici. Nel migliore dei casi, vengono tollerati, se percepiti come vittime di violazioni o abusi; ma vengono immediatamente definiti “estremisti” se a quegli abusi osano rispondere.
Mentre, in altri contesti, la terminologia usata per chi si oppone a un potere occupante è quella di “ribelli”, “oppositori”, “resistenti”, financo “eroi”, nel caso dei palestinesi, lo spazio di manovra nella narrazione è praticamente inesistente. Sono “bugiardi” se provano a narrare gli eventi; sono “antisemiti” se praticano forme non violente di resistenza, come il boicottaggio dei beni israeliani; sono “terroristi” e “nemici del mondo civile” se praticano forme organizzate di Muqawama (resistenza), nonostante questa sia prevista anche dal diritto internazionale.
E che la narrazione degli eventi sia, essa stessa, una forma di resistenza è cosa nota, tanto agli israeliani quanto ai palestinesi.
Per questo motivo, l’occupante sionista arresta, tortura, ferisce e uccide i giornalisti palestinesi che, come denunciato da un rapporto del Palestinian Journalist Syndicate (PJS), sono “bersaglio costante” delle forze di occupazione e dei coloni armati.
Ma è anche questo il motivo per cui i palestinesi non rinunciano a narrare, raccontare, testimoniare, denunciare, ben consapevoli dei rischi, ma anche coscienti del fatto che questo sia parte integrante del loro progetto di liberazione.
Ricordo ancora le parole di Dima al-Wawi, intervistata durante la stesura del libro ‘These Chains Will Be Broken’ dell’intellettuale palestinese Ramzy Baroud. Dima, ancora dodicenne, era stata ingiustamente arrestata da un colono armato, e poi torturata fisicamente e psicologicamente dagli ufficiali israeliani, che l’avevano interrogata per ore e tenuta in detenzione per settimane.
“Da grande voglio fare la giornalista,” ci aveva detto Dima, con lo sguardo ancora offuscato da un velo di malinconia che probabilmente le resterà addosso per sempre. “Perché voglio raccontare al mondo cosa devono subire i bambini palestinesi.”
Non basteranno la hasbara, la malafede, la manipolazione degli eventi, a soffocare per sempre la voce di Dima, che dalla sua parte ha un un unico, importante vantaggio: quello di dire la verità.
Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del “The Palestine Chronicle”. I suoi articoli appaiono in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.
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