Estratto dall’introduzione del volume in uscita “Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista” (manifestolibri, marzo 2023).
La guerra si è impadronita velocemente delle menti e questo è il primo grave danno da contrastare.
Mi ha colpito l’insistita ripetizione sul ritorno della guerra in Europa dopo più di settant’anni. Rimuovendo – strumentalmente? – il fatto che la guerra in Europa era tornata dopo l’89. Penso in particolare ai conflitti nell’ex Jugoslavia che hanno coinvolto l’Italia e hanno anticipato molti aspetti delle guerre a base etnico-nazionalista che si sono succedute in diverse aree del mondo, alcune delle quali sono tuttora in corso.
Certo, nei trent’anni trascorsi dalla prima guerra del Golfo (1990-1991) alla guerra in Ucraina (2022) vi è un salto di qualità, se non altro perché mai come ora vi è il rischio che precipiti in guerra nucleare. È sempre più evidente come la guerra in Ucraina sia destinata a durare; ed è difficile che possa concludersi come una guerra convenzionale. Va quindi seriamente considerato che la pace è la sola realistica alternativa al suicidio nucleare dell’umanità.
La prima essenziale condizione per affrontare questo scenario è sottrarsi al fondamentalismo etico, trasformando i complessi problemi strategici geopolitici in una lotta contro il “male assoluto”. Per questo è importante ricordare il recente trentennio di guerre, contrassegnato proprio dal ricorso al concetto di «guerra giusta»: dalla dottrina della «guerra preventiva» contro l’Iraq di Saddam, alla «guerra umanitaria» in Kosovo, alla guerra per «liberare le donne» dall’oscurantismo dei talebani in Afghanistan.
Nello “scontro di civiltà” si annullano le differenze di tradizioni, storie, identità politiche che attraversano l’Occidente, tutte emerse nelle guerre del dopo Ottantanove, in particolare nelle guerre dei Balcani. Non può sorprendere che a questa idea omogenea, e a ben vedere ristretta, di Occidente venga contrapposta un’idea di Oriente, altrettanto identitaria e integralista, ristretta alla Russia.
A fronte di questo rinnovato dualismo, basato sulla reciproca costruzione del nemico, sempre più identificato come “male assoluto”, andrebbe opposta la scelta, del tutto estranea alla logica identitaria, della pluralità delle differenze. Solo assumendo la pluralità complessa di cui è intessuta l’Europa, per storia, tradizioni e condizioni attuali, è possibile costruire un’Europa unitaria. Riconoscere la pluralità dei soggetti, delle culture e degli strumenti che consentono la convivenza e la soluzione dei conflitti è l’opposto della loro affermazione autarchica. Si avvale della disponibilità ad aprirsi all’altro, a scambiarsi saperi ed esperienze, a cercare insieme le risposte ai problemi.
La prima azione, quindi, è dare una rappresentazione della realtà differente da quella mediatica, talmente pervasiva da stigmatizzare come collusione con il nemico la sola possibilità di un’idea o un giudizio difforme. Parole che sentiamo risuonare costantemente quali nazione, popolo, democrazia, libertà, giustizia sono diventate “parole omicide”, sono talmente gonfie di sangue e di lacrime da essere screditate. Il lavoro sul linguaggio, per Simone Weil, è condizione essenziale per “preservare vite umane”1.
La prima parola di cui recuperare il significato è proprio “guerra”, dal momento che non viene adottata dai soggetti del conflitto. Per Putin l’aggressione all’Ucraina è “un’operazione militare speciale”, per i paesi della NATO si tratta di “aiuti”, solo Zelensky, in nome del popolo aggredito, parla legittimamente di guerra. Si può capire la cautela, sia della Russia che della NATO, volta a evitare l’allargamento del conflitto, con le prevedibili, terribili, conseguenze. Ma non giustifica l’elusione del fatto che “siamo in guerra”, anche noi paesi della NATO, con le nostre motivazioni, i nostri interessi, i nostri costi. È un fatto che, non a caso, comincia a essere nominato, senza però assumerne appieno la portata.
Dovremmo invece essere consapevoli che noi, italiani e italiane, “siamo in guerra”. Nel 1990 Pietro Ingrao lo affermò per motivare il dissenso dal suo gruppo parlamentare nell’intervento alla Camera sulla partecipazione dell’Italia alla guerra del Golfo2. Lo eravamo allora, senza ammetterlo, lo fummo poi nel Kosovo, lo siamo oggi in Ucraina. Allora, come ora, tacere significa rimuovere la questione cruciale della violazione dell’art. 11 della Costituzione.
Ma non si dovrebbero nascondere le scelte politiche dietro altre definizioni. Tutto quello che accade deve essere considerato a partire da questo essenziale fatto: siamo in guerra. Ognuno/a di noi, la coscienza pubblica del paese, deve sapere che cosa stiamo affrontando. Dobbiamo porci la domanda se il ripudio della guerra, enunciato nell’art. 11, è ancora realistico e convincente o se, viceversa, si ritiene che dobbiamo convivere con la guerra, perché è il prezzo da pagare per difendere il nostro sistema di vita, per governare il mondo, secondo i «nostri» principi. Dovremmo valutare se e come rimotivare il ripudio e garantirne il rispetto nelle sedi internazionali. Il confronto verterebbe sui nodi veri, i più crudi, e saremmo tutti e tutte più consapevoli delle scelte politiche fatte e delle loro implicazioni.
Non nominare la guerra serve, invece, a lasciare indefinito, quindi arbitrario quando, se e come (con quali procedure note e verificabili) si può decidere che è necessario ricorrere alla guerra. Serve cioè a tenersi le mani libere.
Dobbiamo quindi considerare il ripudio della guerra un enunciato privo di efficacia politica? Ribadendo così il nesso stringente tra forza, potere e politica e, di conseguenza, accettare il ricorso alle armi come la sola risposta possibile all’aggressione del nemico? Non a caso sulla guerra in Ucraina la critica di impotenza al pacifismo si è spinta fino all’accusa di convivenza con l’aggressore.
Ma è davvero inevitabile il ricorso alla forza, alla potenza distruttiva delle armi? Hannah Arendt è convinta del contrario; se perseguiamo la vittoria, l’affermazione dei nostri valori, con la violenza, “sovvertiamo e distruggiamo, in primo luogo, le nostre stesse istituzioni politiche”3. Detto altrimenti, le guerre, anche quelle ritenute giuste, lungi dal garantire una pace stabile e durevole, sono un modo per negare che la pace sia la condizione stessa della politica e per rendere i periodi di pace degli intervalli nel corso della storia, sempre più brevi, rispetto al succedersi delle guerre.
Perché, mi chiedo, dovremmo combattere il dominio, la violenza e la guerra facendo nostra la sua logica? Non è forse questo il terreno più congeniale al riprodursi del dominio stesso? Non è più efficace «muoversi su un altro piano»4, come ha fatto e continua a fare il femminismo? Non possiamo immaginare e realizzare altre pratiche per una differente politica?
La politica femminista che ho fatto in tanti anni ha inciso sui rapporti di dominio senza ricorrere alla forza, modificando le esperienze e le relazioni umane, conquistando i cuori e le menti ma non esercitando il potere sulle vite.
Note
1 Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, in Sulla guerra 1933-1943, Pratiche editrice, Milano 1998, p.58).
2 Pietro Ingrao, No non si può tacere, dichiarazione di voto alla Camera il 23 agosto 1990 è stato pubblicato, con uno scritto di Giuseppe Dossetti Il dovere di gridare, in numero di copie limitate in occasione dell’ottantesimo compleanno di Ingrao.
3 Hannah Arendt, Sulla violenza, Mondadori, Milano 1971, p. 64.
4 Carla Lonzi, Manifesto di Rivolta femminile, in Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974.
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