Quando è partito da Tel Aviv alla volta di Roma, il 9 marzo scorso, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato costretto a raggiungere l’aeroporto a bordo di un elicottero, perché centinaia di manifestanti avevano bloccato le strade circostanti, impedendo il passaggio dell’automobile su cui viaggiava con sua moglie Sara.
Qualche giorno prima, proprio Sara era stata protagonista, suo malgrado, di un episodio simile: mentre si trovava in un salone di bellezza a Tel Aviv, i manifestanti anti-governativi avevano circondato la struttura, impedendole di uscire. Solo l’intervento massiccio della polizia aveva impedito conseguenze ben più gravi. La folla inferocita protestava al grido di: “Il Paese è in fiamme e tu ti tagli i capelli”.
Curioso che, proprio in quelle ore, a essere in fiamme, letteralmente, non fosse Tel Aviv, bensì il villaggio di Huwwara, alle porte di Nablus, nel nord della Palestina, dove orde di coloni israeliani stavano dando vita a ciò che è stato giustamente definito da molti come un vero e proprio pogrom.
Ma la folla che gridava contro Netanyahu e consorte si riferiva a un tipo diverso di fiamme: quelle che, secondo lo stesso Presidente israeliano Isaac Herzog, potrebbero portare il Paese verso il baratro di una guerra civile, e che sono principalmente focalizzate sulla controversa riforma giudiziaria fortemente voluta da questo Governo.
Paradossalmente, questo accade all’indomani delle uniche elezioni, dopo quattro appuntamenti elettorali in soli tre anni, che hanno consegnato a Israele un risultato stabile e una chiara maggioranza. Le divisioni che attraversano la società israeliana, tuttavia, sembrano molto profonde e accentuate, al punto che i demoni del dissenso hanno raggiunto Netanyahu anche al suo arrivo a Roma.
Il giorno precedente al viaggio, infatti, la traduttrice Olga Dalia Padoa ha scritto su Facebook un lungo post, in cui spiegava i motivi che l’avevano indotta a rifiutarsi di svolgere il ruolo di interprete durante la visita del premier israeliano in una sinagoga romana, prevista per la sera del 9 marzo.
“Non condivido le idee politiche di Netanyahu e le ritengo altamente pericolose riguardo al benessere e alla salvaguardia della democrazia nello stato d’Israele,” si leggeva nel post.
Stessi timori sulla tenuta ‘democratica’ dello Stato d’Israele sono stati formulati addirittura da Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la quale, dopo aver ribadito il suo assoluto sostegno allo Stato sionista e la necessità di lottare “contro la cecità dell’odio integralista”, ha voluto esprimere una sua riflessione in merito all’importanza di preservare “il livello delle istituzioni israeliane.”
Dopo aver ricevuto tante critiche rivolte a lui e al suo Governo di estrema destra, sarà stato un vero sollievo, per il premier israeliano, confrontarsi con esponenti del governo italiano, che invece hanno ritenuto di non dover sollevare alcuna obiezione, neanche in maniera velata, all’operato di Netanyahu e dei suoi ministri.
Il copione collaudato di Netanyahu
Prima ancora degli appuntamenti ufficiali, in una lunga intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica, Netanyahu aveva avuto modo, senza alcun contraddittorio, di enunciare le intenzioni della sua visita romana.
“Vorrei vedere una maggiore cooperazione economica tra i nostri Paesi,” aveva enunciato il premier, rimarcando la possibilità di elargire il tanto agognato gas naturale a Roma: “Ne abbiamo tanto, e vorrei discutere su come farlo arrivare in Italia per sostenere la vostra economia”.
Anche l’acqua e la cybersicurezza sarebbero state oggetto delle promesse avanzate da Netanyahu al governo italiano. Ovviamente, c’è una contropartita a cotanta generosità. Israele chiede, in cambio, un ritorno di natura politica, su due fronti principali: da una parte, l’impegno a non votare contro Tel Aviv in seno alle Nazioni Unite, dall’altra il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale dello stato di Israele.
La promessa di sicurezza e risorse naturali – peraltro contese o illegalmente sottratte ai palestinesi – in cambio di favori di natura politica non suona come una novità assoluta a chi ha seguito la politica estera del premier israeliano. Questo è stato, negli anni, il copione collaudato delle sue relazioni con molti stati del continente africano. L’Africa che, per prima, aveva identificato il sionismo come “una forma di razzismo e discriminazione razziale” nella Risoluzione 77 (XII) dell’Organizzazione dell’Unità Africana, è stata oggetto di particolari attenzioni da parte di Netanyahu.
A partire dal 2016, anno della sua storica visita in Kenya, la parabola ascendente di Netanyahu nel continente africano sembrava inarrestabile. A ogni miglioramento delle relazioni tra Israele e uno Stato africano corrispondeva lo stesso modus operandi: armi, risorse e sicurezza in cambio di voti favorevoli sul piano della comunità internazionale. Quando il Senegal osò votare a favore di una risoluzione ONU contro gli insediamenti coloniali illegali, Tel Aviv ritirò immediatamente i progetti di irrigazione del Mashav.
Nonostante i successi iniziali, tuttavia, nel lungo termine Israele non è riuscito a conquistare profondamente il cuore del continente africano. Ora che si aprono nuovi spazi geopolitici, infatti, si nota anche un mutamento radicale nell’atteggiamento verso Tel Aviv. Una chiara dimostrazione in tal senso è arrivata il 18 febbraio, quando la delegazione israeliana è stata allontanata dalla inaugurazione dell’assemblea dell’Unione Africana ad Addis Abeba.
Adottare la stessa strategia con l’Italia, Paese membro dell’Unione europea e decima potenza economica mondiale, potrebbe risultare persino più arduo, per una molteplicità di fattori.
L’Italia riconoscerà Gerusalemme come capitale di Israele?
Il vicepremier Matteo Salvini ha accolto “convintamente” la bizzarra proposta di Netanyahu sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, “nel nome della pace, della storia e della verità”, qualunque cosa questo significhi.
La voce di Salvini, che aveva già in passato espresso simili opinioni, è però rimasta sostanzialmente isolata. La premier Giorgia Meloni non si è espressa ufficialmente in merito e, in un’intervista rilasciata alla Reuters nello scorso mese di agosto – prima della formazione del suo Governo – aveva cautamente risposto che era una materia da affrontare “con il Ministero degli Esteri”.
Al di là dei proclami, anche abbastanza azzardati, suonerebbe davvero improbabile per Roma effettuare una scelta del genere, in primis perché questo porrebbe l’Italia al di fuori dei principi basilari del diritto internazionale, che riconosce Gerusalemme Est come città palestinese occupata e reputa illegale l’annessione operata da Tel Aviv nel 1980.
In una lettera aperta alla premier Meloni, Francesca Albanese, la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla Situazione dei Diritti Umani nei Territori Occupati, ricorda al Governo italiano come, soddisfacendo la richiesta di Netanyahu su Gerusalemme, l’Italia si macchierebbe di un illecito grave sul piano del diritto internazionale, che “proibisce tassativamente l’annessione del territorio occupato”.
Peraltro, l’Italia è membro dell’Unione europea, che ha più volte ribadito che la propria posizione in merito a Gerusalemme non si discosta da quella espressa dalle Nazioni Unite, che considerano la città un “corpus separatum” da amministrare per mezzo di una presenza internazionale.
Chiedere all’Italia di porsi completamente al di fuori dell’assetto convenuto in seno all’ONU e all’Ue sembra quantomeno azzardato. Ma non è solo questa la ragione per cui Giorgia Meloni potrebbe avere qualche difficoltà a sposare interamente le richieste di Tel Aviv.
Alla disperata ricerca di un partner che potesse assicurare approvvigionamenti stabili di gas naturale – visto che l’Italia era, dopo la Germania, il Paese europeo maggiormente dipendente dal gas russo – Meloni ha siglato, di recente, un accordo di portata storica con l’Algeria. Nel corso di una conferenza stampa, a conclusione della sua visita nel Paese nordafricano il 23 gennaio scorso, la premier italiana aveva dichiarato che ora l’Algeria è “il nostro principale fornitore di gas”.
Considerata la solidità del rapporto e alla solidarietà che legano l’Algeria al popolo palestinese e alla sua lotta per la liberazione e l’autodeterminazione – a livello istituzionale e di società civile – riconoscere Gerusalemme come capitale ‘unica e indivisibile’ di Israele potrebbe compromettere irrevocabilmente il rapporto tra Roma e Algeri, e questo non sembrerebbe molto lungimirante sul piano strategico.
Al di là dell’esito concreto di questi incontri con il primo ministro israeliano, ad ogni modo, resta la ferita nel constatare che le istituzioni italiane non abbiano avvertito l’opportunità di muovere alcuna critica all’operato di Netanyahu, né sul piano formale né sul piano sostanziale, in un momento storico in cui persino gli alleati storici di Tel Aviv, gli Stati Uniti, hanno espresso il loro dissenso.
Perché Netanyahu andava contestato
Il Governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu e insediatosi lo scorso dicembre è al centro dell’attenzione internazionale per varie ragioni.
Il primo piano di dissenso è, sostanzialmente, di natura interna e raramente si spinge a considerare le palesi violazioni del diritto internazionale e umanitario ai danni dei palestinesi.
In questo senso, le contestazioni sono rivolte principalmente alla riforma del sistema giudiziario israeliano, fortemente voluta da questo Governo e dallo stesso premier che, come ricordiamo, è oggetto di vari procedimenti giudiziari.
Riducendo il raggio d’azione della Corte Suprema, la riforma determinerebbe uno squilibrio nella divisione dei poteri e, secondo molti analisti, spingerebbe il Paese verso una deriva autoritaria, compromettendo le istituzioni israeliane e l’assetto ‘democratico’ di Tel Aviv.
La riforma è stata contestata anche sul piano internazionale. Durante una visita della controparte israeliana il 28 febbraio scorso, il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock ha contestato apertamente la riforma. In queste ore, ci sono pressioni per annullare la visita di Netanyahu in Gran Bretagna e in Germania, per le stesse motivazioni.
Negli Stati Uniti, figure di spicco della comunità ebraica hanno esposto le loro riserve in più occasioni. I rapporti con Washington sono molto tesi, tanto che Netanyahu avrebbe ordinato ai suoi ministri di non recarsi in visita negli Stati Uniti, finché il premier non riceverà un invito formale da parte del Presidente Joe Biden.
D’altro canto, l’amministrazione Biden non si è limitata a questo primo piano di dissenso e ha esteso le critiche a un altro piano, soprattutto dopo le dichiarazioni inaudite del ministro israeliano Bezalel Smotrich. L’esponente del gruppo ultranazionalista di estrema destra Sionismo Religioso, infatti, ha dichiarato che il villaggio palestinese di Huwwara – dato alle fiamme dai coloni nella notte del 26 febbraio – avrebbe dovuto essere “spazzato via” dallo Stato stesso.
Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price ha definito questi commenti “ripugnanti” e ha chiesto a Netanyahu di dissociarsi. Le scuse sono arrivate in modo alquanto bizzarro. Smotrich ha dichiarato che non avrebbe mai pensato che le sue parole venissero tradotte in inglese, come se, in ebraico, risultassero meno razziste e feroci.
Purtroppo, i misfatti di questo governo non si limitano alle parole. Dall’inizio dell’anno, Israele ha trucidato ben 84 palestinesi, tra cui 15 bambini, nella Cisgiordania occupata. Continuano le campagne di arresti indiscriminati, l’espansione selvaggia degli insediamenti coloniali, le insopportabili provocazioni nei luoghi sacri, la devastazione di cimiteri arabi cristiani e musulmani, la demolizione di abitazioni private palestinesi, lo sfollamento e la deportazione forzata di intere comunità.
Durante la Prima Repubblica, l’Italia si è relazionata con Tel Aviv come una potenza in grado di poter esprimere opinioni forti e condannare in modo risoluto le aberrazioni e le palesi violazioni del diritto internazionale.
Non ci aspettiamo da questo governo le parole nette e cristalline del Presidente Sandro Pertini, che nel 1982, all’indomani della strage di Sabra e Chatila, sostenne che il responsabile di quel massacro, che ancora sedeva al governo di Israele, avrebbe dovuto essere messo al bando. Non ci aspettiamo neanche la coraggiosa dichiarazione di Bettino Craxi che, nel 1985, ribadì in Parlamento persino la legittimità del ricorso alla lotta armata per un popolo che si difende dall’occupazione.
Ci aspettiamo, tuttavia, che siano quanto meno rispettati i principi basilari del diritto internazionale e umanitario, accolti dalla nostra Costituzione.
E ci aspettiamo anche che l’Italia possa ritrovare una sua dignità sul piano globale e nella regione del Mediterraneo, che non la pongano nelle condizioni di dover elemosinare risorse in cambio di presunti favori politici.
*Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del “The Palestine Chronicle”. I suoi articoli appaiono in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.
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