Un’altra lettura della storia
Alla Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma si sono tenuti tre seminari di grande interesse, dal dicembre 2022, e un quarto si terrà il 24 di marzo. Gli studiosi che li hanno promossi (Gaetano Azzariti, Alessandra Di Martino, Alessandro Somma) hanno scelto di fare riferimento a un convegno tenuto a Catania nel 1972 sull’uso “alternativo” del diritto (atti a cura di P. Barcellona, L’uso alternativo del diritto, 2 volumi, Laterza 1973: I, Scienza giuridica e analisi marxista; II, Ortodossia giuridica e prassi politica).
L’incrocio tra esigenza di storicizzazione e approcci disciplinari diversi nel campo degli studi giuridici, consapevolmente voluto dagli organizzatori dei seminari, ha avuto il merito di allargare il modo in cui si deve riflettere su quell’evento. Sotto il profilo storico la comparazione aiuta a vedere che esso aveva a che fare con fermenti giuridici presenti in ogni altro paese, anche quelli in cui mancava una costituzione democratica (America latina): in questa prospettiva più larga non era solo la battaglia per l’interpretazione del diritto secondo il progetto della Costituzione il problema (che era il modo in cui in Italia era stata lanciata la sfida dalla corrente di Magistratura democratica), ma la rilevanza generale nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale dello sviluppo del costituzionalismo come pensiero costituente delle democrazie.
La vittoria su fascismo e nazismo aveva infatti portato i vincitori a fare dello sviluppo democratico il proprio vanto: anche i paesi socialisti, tra i vincitori, indicavano una sfida su questo terreno, ma ovviamente rivendicavano d’essere portatori di una democrazia diversa, sostanziale, superiore a quella formale astratta dell’Occidente.
Naturalmente ciascun paese secondo la propria storia e livello di sviluppo democratico elaborò un pensiero politico del ruolo del costituzionalismo in quella fase. In Italia, al sopraggiungere della crisi di fine anni Sessanta si produsse ancora una volta l’incontro tra cattolicesimo democratico, pensiero liberaldemocratico e pensiero delle sinistre socialiste e comuniste, le culture fondanti di un costituzionalismo molto innovativo, basato sul riconoscimento di diritti sociali e sul valore programmatico della Costituzione. In particolare, nel convegno di cui stiamo parlando proposero un fascio ampio di linee di lavoro sulla funzione di un’interpretazione progressiva della Costituzione: sviluppo delle persone, garanzie dei diritti, tutela del “contraente debole”. Quest’ultima era la linea con cui, recuperando la critica marxista dell’economia, i giuristi di sinistra elaboravano letture radicali di cambiamento della società.
Nel convegno ci furono diverse posizioni, nella comune convinzione che si potesse parlare di una politica del diritto (Stefano Rodotà, Gino Giugni, Nicolò Lipari, Francesco Galgano…). In particolare, si metteva al centro la responsabilità culturale di giuristi e magistrati per una interpretazione progressiva della Costituzione. La critica, implicita ma in certi momenti anche esplicita, alle generazioni precedenti di magistrati e accademici, indicava che giovani trentenni operavano uno “scarto generazionale” nella cultura del diritto e nel ruolo della giurisdizione. Che questo fosse il punto di arrivo di una “onda lunga” del dopoguerra è dimostrato dalla diffusione mondiale di fermenti analoghi e dal confronto e stimolo con la “contestazione” dei nati nel dopoguerra. Questo infatti è un aspetto caratteristico, visibile particolarmente nei paesi europei, che dette origine a forti impegni di mutamento della didattica e nuovi manuali per i giovani universitari.
Molti hanno sottolineato che il movimento del ’68 espresse appunto una “contestazione generazionale” e qualcuno (di recente Marco Revelli) lo ha individuato come un “primo movimento globale”. Se si riconosce che sia stato il prodotto di una “onda lunga”, nelle coscienze e nei pensieri, della catastrofe di una guerra mondiale, cogliamo un tema finora poco elaborato: le catastrofi di questo ordine provocano un mutamento antropologico, che si svolge nella forma di elaborazioni culturali e teoriche – cui un arco molto ampio di forze contribuisce – fondato sulla fortissima determinazione politica che “mai più l’umanità” possa essere trascinata in tali tragedie. “Mai più la guerra” è stato scritto nella Carta dell’Onu del ’45, e in Costituzioni come quella italiana del ’48. E la dichiarazione universale dei diritti umani del ’48 ha dato fondamento a un modo progressivo di lottare per il cambiamento in ogni paese.
La tesi interpretativa, che qui si prospetta, è rafforzata se prestiamo attenzione al rapporto che si stabilì tra le due generazioni (nati prima, nati dopo la Guerra) sul piano etico. Non è un modo di pensare diffuso, ma è del tutto evidente che il ‘68 abbia messo in campo un movimento di radicalismo etico ovunque nel mondo. E la più matura reazione della generazione dei nati prima della Guerra era venata da una analoga spinta, che però con più matura riflessione si traduceva in etica della responsabilità rispetto al mantenimento delle promesse democratiche con cui si diceva fosse iniziata una nuova era. Kennedianamente quei trentenni si interrogavano su cosa ciascuno potesse fare per il proprio paese. La politicizzazione di due successive generazioni, pur con punti sostanziali di diversità, andarono al confronto, talvolta scontro, ma comune era la direzione del cambiamento, dettata da istanze etico-politiche. Era la “rivoluzione del cittadino” che dispiegava l’onda, non a caso si videro per la prima volta movimenti politici non in forma di partiti.
Negli Stati Uniti i legal studies,per quanto critici, non ebbero alcun rapporto esplicito con le contestazioni dei campus contro la Guerra del Vietnam (lo ha fatto notare Luca Marini, rilevando come in quel paese la questione del diritto alternativo avesse avuto spazio marginale). Tuttavia la comparsa nel ’77 di uno dei saggi giuridici più importanti in America, sui diritti presi sul serio (Ronald Dworkin), segnala che anche in quella cultura la sensibilità per un diritto dell’homo democraticus si stava rafforzando.
Approfondendo questa analisi, colpisce che la scienza politica americana, pur riconoscendo che nel ‘68 s’era manifestato un conflitto non di interessi ma di valori ( Samuel P. Huntington 1981), portò il problema sul piano della “forte innovazione” del sistema politico, non di quello giuridico. Huntington ne fu appunto il teorico: governi decisionisti, capaci di porre limiti al “sovraccarico di domande” delle democrazie, furono evocati in un rapporto famoso del ’75 a una Commissione trilaterale in cui erano presenti americani, europei e giapponesi. La possibilità che si potesse risolvere lo scontro con un diverso “stile” della politica, senza mettere mano a riforme costituzionali, era favorita in America dalla storia lunga e lenta con cui emendamenti introdotti per tutelare i cittadini non erano mai giunti, oltre i diritti civili e politici, al riconoscimento di diritti sociali (sappiamo che negli USA istruzione, sanità e pensioni sono affidati a un sistema di assicurazioni e iniziative private). Negli Stati “sociali” europei sviluppati nel dopoguerra, invece, il fondamento costituzionale di un ruolo diretto dei poteri pubblici in quelle materie era alla base di una più forte possibilità di azione e di tutela della cittadinanza: cambiare questo avrebbe significato – e di fatto ha significato – travolgere o comunque svuotare le costituzioni democratiche.
Comprendere tutto ciò, dentro una prospettiva storico-politica, significa collegare la questione dell’uso del diritto alle contraddizioni e specificità culturali e politico-istituzionali del tempo. Se si vuole trarre da tutto ciò argomento per una ripresa oggi di quella tematica si deve partire dalle differenze che da allora si sono introdotte nella natura stessa del diritto e negli ambiti della sua incidenza. La questione del ruolo dell’interpretazione viene dopo, e ne è determinata.
Mutamenti nel ruolo della giurisdizione e nel ruolo del diritto
La linea di sviluppo nel ruolo della giurisdizione introdotta dal costituzionalismo democratico segna una rilevante crescita di responsabilità del diritto rispetto ai processi politico-sociali. Con estrema schematicità si dice che il giudice, che negli ordinamenti liberali era giudice degli uomini, nel costituzionalismo è divenuto giudice delle leggi: assume cioè potere di garanzia costituzionale anche rispetto agli indirizzi legislativi delle maggioranze di governo. Dagli anni Novanta, col tentativo di costruzione di una unione di Stati sovra-nazionale europea, il costituzionalismo ha portato il ruolo dei giudici a un’ulteriore più alta responsabilità nella costruzione pubblica: giudici degli Stati, del rispetto da loro dovuto del diritto europeo in formazione e della Carta europea dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel 2000. Questo costituzionalismo sovranazionale, nella debolezza politica del processo costitutivo dell’Unione, si avvaleva consapevolmente della capacità dei giuristi di smussare le differenze e riportare a idee di sistema unitarie quel che la politica dei singoli Stati nazionali era riluttante a concedere. Sembrava che perfino il sistema di common law inglese, che non ha una carta costituzionale scritta, stesse evolvendo per effetto benefico del nuovo costituzionalismo sovra-nazionale.
Ma la politica e il sovranismo statal-nazionale si sono presto incaricati di bloccare questo processo: la Brexit ha chiamato fuori dall’Unione il Regno Unito e in vari Stati il sovranismo ha affermato che le costituzioni nazionali non possono essere corrette per via di indirizzi giuridici superiori.
La debolezza politica del pensiero giuridico costituzionale è ancora più evidente se, dalle amare considerazioni sull’insufficienza della strategia giuridico-politica di integrazione europea, passiamo a considerare sul piano internazionale i tentativi di configurare un diritto globale, senza che una autorità pubblica globale sia riconosciuta.
Il governo mondiale abbozzato nella carta dell’Onu non ha mai preso corpo, le superpotenze con veti opposti ma convergenti ne hanno impedito lo sviluppo, ora è addirittura evidente la strategia statunitense di sostituire, all’idea di una riunione delle forze armate sotto un potere di sicurezza unitario nel mondo, l’espansione globale della alleanza militare NATO a comando americano come punto di forza di una idea unilaterale di dominio globale.
I vari percorsi di formazione di diritto planetario sono tutti sotto il cono d’ombra di questo stato di cose. Dapprima i giuristi hanno ragionato su quello che è stato definito diritto mercatorio (Francesco Galgano 1983, Maria Rosaria Ferrarese 2000) cioè regole giuridiche concepite dagli studi legali delle corporations capitalistiche dominanti: le varie giurisprudenze nazionali sono chiamate a ratificare l’uso di un diritto di origine contrattuale (segnato come è chiaro dalla straripante forza di uno dei contraenti) come primo sistema di regolazione avente ruolo ordinante nello spazio sovranazionale, rispetto alla debolezza e incoerenza dei singoli Stati. In questa prospettiva il ruolo del diritto non risponde a criteri di legittimità e di equità, ma è utilizzato per la sua capacità di fornire una tecnica utile a dare qualche certezza nel traffico economico internazionale.
La seconda strada, indicata da uno studioso di diritto comparato ( Gunther Teubner 2005), starebbe emergendo attraverso la giurisprudenza di vari tipi e livelli di Corti. Si intravede una nuova “costituzione della società-mondo”, cioè una società civile mondiale capace di spingere i processi di integrazione là dove debolezze e ambiguità delle classi politiche statal-nazionali arretrano e comunque si sottraggono al compito. Quel che qui si deve dire – a parte la discussione sulla fondatezza di questa tesi – è che non tutte le forze delle società civili nazionali sono in grado di animare questo processo, ma solo quelle dotate di forza economica, conoscenze e relazioni globali (certi ordini professionali, certi raggruppamenti di scienziati e ricercatori, molte aggregazioni di operatori della comunicazione…). Insomma tale processo non risponde a spinte di solidarietà umana, ma muove da istanze corporative e la giuridicizzazione in corso in queste esperienze non risponde a criteri di diritti universali e a equità sociale. Circa la speranza poi che, comunque, una costituzionalizzazione come processo giuridico-culturale stia prendendo forma, valgono le obiezioni che, più in generale, si rivolgono a quel che propriamente si comincia a chiamare “diritto globale”.
È questa la terza linea di riflessione sui processi di integrazione giuridica del mondo. Sono messe sotto osservazione le leggi di origine pattizia tra gli Stati: in assenza di una autorità riconosciuta a livello mondiale, si tratta di un diritto globale in fieri, al momento valido solo tra gli Stati contraenti, estensibile ad altri sulla base di un criterio di reciprocità. Sabino Cassese ne ha scritto nel 2009, già dinanzi alla crisi finanziaria globale del 2008, ed è molto consapevole della fragilità di questa via di integrazione giuridica. Approfondendo appena un poco la questione si vede subito che questo diritto pattizio tra Stati è soggetto alla volontà preponderante della potenza posta al centro del sistema di alleanze. Quindi all’unilateralismo dello Stato dominante, secondo ogni evidenza delle relazioni geopolitiche allorché l’ipotesi di globalizzazione ha mostrato le sue contraddizioni: basta pensare a come l’America di Trump ha stracciato accordi con l’Europa e modificato le sue strategie internazionali. Non sembra che su questo piano la politica di Biden sia diversa.
Di questi tre diversi percorsi di formazione di un qualche diritto sovra-statale solo il secondo esige dai giudici la capacità di confrontare prassi particolari con linee di tendenza di tipo costituzionale nel formarsi di una comunità superiore. Le altre due cancellano del tutto l’idea che il ruolo del diritto sia quello di concorrere alla “civilizzazione” della politica. Al contrario è una funzione “ancillare” al gioco dei poteri geopolitici quella cui devono piegare saperi giuridici e ruoli istituzionali.
A questo punto, una parte della cultura giuridico-costituzionale insorge e si sposta di terreno. Trascendendo le immediate responsabilità nell’esercizio del potere giurisdizionale, la cultura giuridica si presenta come filosofia del diritto per un mondo migliore. È il disegno di Immanuel Kant, che attende da oltre due secoli d’essere messo alla prova. Nei seminari romani questa posizione è stata presentata da Luigi Ferrajoli che col suo saggio ha aperto una discussione molto coinvolgente (Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli 2022).
Dalla possibile politica del diritto concepita negli anni Settanta (in un orizzonte statal-nazionale) alla filosofia del diritto mancante nel contesto di globalizzazione degli anni Duemila: il cambio di passo della storia è evidente, e appare che le condizioni per lo sviluppo democratico sono arretrate di molto. Il giurista che assume questa responsabilità sa di non poter essere giudice, ma filosofo e politico costruttore di un’altra dimensione del pensiero e del potere. Il costituzionalismo senza costituzione (del pianeta) si fa cultura costituente e dunque, per necessità e non solo per realismo, deve fare i conti con la costruzione di un altro modo di incarnare la politica.
La schematica lettura marxista delle “lotte di classe” non darà strumenti per questo ennesimo tentativo. Occorrerà leggere il mondo con occhiali adeguati alla critica di quel che si chiama “geopolitica”: attualmente le categorie di analisi sono limitate a intendere le strategie per il conflitto tra potenze, ma le questioni sociali e l’idea stessa di umanità sono oscurate. Occorrerà pertanto assumere fino in fondo la contraddizione tra le soggettività collettive storicamente date, e l’umanità come comunità globale di una specie vivente che non tollera violenze e discriminazioni, ma aspira con la pace a vincere le guerre.
Siamo ancora una volta dinanzi alla sequenza catastrofe/cambiamenti antropologici. A seguito di pandemia, disastro climatico e nuova guerra in Europa è già riconoscibile qualcosa che vada in questa direzione? Quali sono i primi segni di questo? E quali pensieri critici, quali discipline di studio possono dare voce a una antropologia nuova?
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