Il ritorno sulla scena della guerra è acquisito nel discorso pubblico come un fatto normale, inevitabile. Con la conseguente riduzione della politica alla contrapposizione amico/nemico. Negli ultimi trent’anni, la guerra ha compiuto un salto di qualità: dalla “guerra preventiva” in Iraq, alla “guerra umanitaria” in Kosovo, fino alla guerra tra democrazia e autarchia, tra libertà e dispotismo, in Ucraina. Per non subire la logica bellica dello schieramento occorre sottrarsi alla retorica del discorso pubblico, alla confusione tra fatti e valori di cui è intriso. È davvero inevitabile contrastare la violenza e l’aggressione con le armi? Non è forse questo il terreno più congeniale al riprodursi del dominio? Non è più efficace “muoversi su un altro piano”? La politica femminista ha modificato l’esperienza e le relazioni umane conquistando i cuori e le menti, e non il potere sulle vite. Riattraversando criticamente la tradizione culturale maschile, è risalita alle cause della violenza incistate nella virilità. Del resto, nessun sistema di potere può durare affidandosi solo alla forza: per vincere deve necessariamente convincere. Alleanza dei corpi, vulnerabilità, relazioni, interdipendenza sono alcune parole chiave utili per pensare la guerra e lottare per la pace.
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