Nella lista delle armi adoperate sui campi di battaglia dell’Ucraina si aggiungono ora anche le cluster bombs, le scellerate bombe a grappolo. Scellerate perché funzionano così: un aereo sgancia a bassa quota degli involucri, che roteando nell’aria si aprono lasciando cadere grappoli di submunizioni, cioè decine di piccole bombe che in maggioranza esplodono subito, mentre altre si depositano intatte sul terreno o sugli alberi. Lì rimarranno per anni ad attendere il passaggio di un malcapitato, spesso un bambino attirato da quei simil-ninnoli pendenti dagli alberi come strenne natalizie.
Nel 2008 le Nazioni Unite, sotto la spinta di un’opinione internazionale più sensibile, aprirono alla firma di una Convenzione che vieta la produzione, il commercio, lo stoccaggio e l’uso delle bombe a grappolo. Nota come Convenzione di Oslo, è stata ratificata da oltre cento Stati, ma non dai tre principali membri del Consiglio di Sicurezza: Cina, Russia, Stati Uniti (e nemmeno dall’Ucraina). Ecco perché i rispettivi governi si sentono legalmente “autorizzati” a servirsene, e lo hanno fatto in Iraq e in Yemen, pur sapendo che occorreranno anni e soldi a palate per bonificare i terreni minati prima di renderli nuovamente coltivabili. Infatti, i fabbricanti di bombe a grappolo, come anche i fabbricanti di mine antiuomo, garantiscono con una certa fierezza che i loro prodotti potranno esplodere anche dopo decenni: non hanno una scadenza. Sono assassini silenziosi eternamente vigili. Se molti animali marcano con l’urina i confini del proprio territorio, gli esseri umani sembrano fare lo stesso con le mine e le bombe a grappolo.
È curioso che – parlando di bombe a grappolo – non si citi quasi mai Israele. Eppure è uno dei Paesi non firmatari della Convenzione di Oslo. Non solo, nel 2006 ha anche utilizzato gli stock che aveva in riserva, in attesa di ricevere dagli USA quelle di ultima generazione. Il giorno prima di ritirarsi dal Libano, nella guerra dell’estate 2006 costata 1.100 morti e 4.000 feriti, l’aviazione israeliana sganciò bombe a grappolo sui campi, sugli uliveti e sugli agrumeti già martoriati da un mese di bombardamenti. Arrivato sul posto con i “caschi blu” dell’Onu, li vidi anch’io quegli oggetti metallici pendere dagli alberi come strenne natalizie. Dopo i primi incidenti – soprattutto bambini mutilati – i contadini corsero a chiedere agli artificieri dell’UNIFIL di bonificare i terreni: una lotta contro il tempo per non perdere il raccolto autunnale delle olive. Ancora oggi i libanesi ricordano con pari gratitudine i milioni di dollari donati dai Paesi del Golfo e la solerzia dei “caschi blu” nel bonificare i terreni minati da cluster bombs particolarmente efferate, perché il 40% di quel tipo di bombe non era esploso al primo impatto. Aspettavano in silenzio un contadino malcapitato.
Se la proliferazione nucleare è una minaccia virtuale, quella delle bombe a grappolo e delle mine anti-uomo è stillicidio di morte reale: migliaia di vittime all’anno nel vasto mondo dedito alla guerra.
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