In un articolo di cui consiglio la lettura, il 9 maggio Paolo Rumiz dalle colonne de La Stampa si chiedeva: cosa c’è da festeggiare in questa giornata dell’Europa? La sua risposta è stata: niente.
Segue un’analisi sconfortante di come l’offensiva della destra, delle destre, abbia fatto breccia in istituzioni che non erano e non sono in grado a suo dire di “offrire una sponda al bisogno emozionale di appartenenza continentale”.
Il dilemma europeismo-antieuropeismo che spesso viene posto ai cosìddetti “sovranisti” risulta stucchevole e privo di senso perché “questa Europa” dimostra che vi può essere compatibilità tra neo-nazionalismi e istituzioni europee caratterizzate da un crescente potere intergovernativo, e che il mostro del nazionalismo, che ha provocato in Europa le più sanguinose guerre mai conosciute, cacciato dalla porta, può rientrare, senza creare eccessive reazioni, dalla finestra.
Cosa deve succedere ancora per capire che quell’Europa che si voleva unire proprio per contrastare quei demoni rischia di essere l’incubatore di nuove tragedie?
L’europeismo in sé non costituisce alcun discrimine se non accompagnato da altri elementi qualificanti: quale Europa? Per quale ruolo nel mondo? Con quale democrazia sovranazionale?
Le risposte implicano un nesso inscindibile tra questione democratica – istituzionale e costituzionale – e scelte politiche fondamentali che riguardano innanzitutto la guerra e il suo legame con l’economia, i diritti sociali e individuali, le relazioni con il resto del mondo, a cominciare da quella più” carnale” che esiste, cioè l’immigrazione.
Su tutto ciò le destre hanno idee abbastanza precise ed è sconfortante constatare che spesso esse siano state condivise da forze ben più ampie, che, in qualche caso, hanno compreso anche la sinistra socialdemocratica europea. Si tratta, ad esempio, della recente approvazione del “pacchetto immigrazione” in cui i voti della delegazione di Fratelli d’Italia hanno contribuito all’approvazione della gran parte dei provvedimenti con il plauso del Cancelliere tedesco Olaf Scholz. Provvedimenti che rendono legali la privazione della libertà personale dei richiedenti asilo, i respingimenti collettivi, l’identificazione con impronte digitali e dati biomedici di minori già dall’età di 6 anni, la proliferazione in paesi terzi dei centri di detenzione con espulsioni finanziate da fondi UE.
La recente manifestazione di VOX a Madrid ha fatto da catalizzatore per la destra europea che attualmente si rappresenta al Parlamento europeo in due gruppi distinti: ECR (Conservatori e Riformisti Europei) – gruppo cui aderisce Fratelli d’Italia – e ID (Identità e Democrazia) – di cui fa parte la Lega.
La presenza della signora Le Pen (ID) alla manifestazione di VOX (ECR), e il fatto che la stessa abbia preso le distanze dall’AfD (Alternative für Deutschland), formazione tedesca appena espulsa dal suo stesso gruppo, fa capire che nella destra sono in atto grandi manovre finalizzate ad avere un peso nel futuro assetto europeo.
In questo rimescolamento di carte, il ruolo della nostra Presidente del Consiglio è stato quello dell’apripista per le relazioni che è riuscita a stabilire con la Presidente della Commissione uscente von der Leyen, formalmente candidata dal Congresso del Partito Popolare Europeo a presiedere la prossima Commissione.
Lo stesso Salvini ha compreso che si va costruendo una destra compatibile con il PPE (Partito Popolare Europeo) e si è affrettato anch’egli a prendere le distanze dall’AfD. La stessa AfD ha preso le distanze da se stessa, impedendo al suo eurodeputato uscente e ricandidato Maximilian Krahdi di rilasciare ulteriori dichiarazioni dopo quella in cui ha sostenuto che nelle SS “non erano tutti criminali”; come abbiamo visto questo non è bastato a scongiurare l’esclusione dal gruppo ID.
Ciò prelude a un cambio degli equilibri politici in Europa?
È presto per dirlo perché dipenderà da molti fattori, il primo dei quali è il risultato delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. La procedura per la composizione della nuova Commissione è molto complessa e prevede un ruolo del Consiglio nel designare, a maggioranza qualificata, il candidato alla Presidenza che non necessariamente deve corrispondere alle candidature indicate prima del voto.
Vi è poi un ruolo importante del Parlamento il quale, a sua volta e a maggioranza assoluta, vota la proposta del/la Presidente della Commissione e lì possono determinarsi maggioranze che non è detto prefigurino alleanze stabili (ricordo che von der Leyen nel 2019 fu eletta con una maggioranza di soli 9 voti con il voto determinante dei 14 deputati del Movimento 5 Stelle e sarebbe improprio classificare questi ultimi come parte di una maggioranza politica).
Questo per dire che l’influenza della destra, soprattutto se rafforzata dal risultato del voto, ha molte possibilità di esprimersi e può addirittura risultare determinante in alcune fasi del complicato iter che porterà alla formazione della nuova Commissione.
A questo proposito è bene ricordare che il Presidente della Commissione indicato dal Consiglio e votato dal Parlamento deve successivamente presentare la proposta dell’intera Commissione composta da un Commissario per Paese; in questo caso il risultato delle elezioni influisce molto relativamente perché sono i Governi attualmente in carica ad avere il maggior potere nella scelta dei singoli Commissari.
A questo punto ogni Commissario designato, a seconda delle sue competenze, viene esaminato dalla Commissione parlamentare corrispondente e questo passaggio non va sottovalutato, perché il giudizio negativo della Commissione parlamentare determinò nel 2004 il ritiro della candidatura di Rocco Buttiglione nella Commissione presieduta da Barroso.
Infine, la Commissione nel suo insieme, viene votata dal Parlamento europeo e dal Consiglio a maggioranza qualificata.
Allo stato attuale, stando alle posizioni annunciate, i Socialisti e Democratici, nella recente assemblea tenutasi a Berlino, hanno dichiarato solennemente che mai parteciperanno a maggioranze che comprendano la destra. Molto interessante è il travaglio dei liberali, i quali, per contenere l’offensiva della destra, al pari dei popolari e talvolta dei socialisti, hanno assecondato politiche ben poco liberali, quali l’inasprimento della legge sull’immigrazione in Francia (messa in discussione dello ius soli e della doppia cittadinanza, restrizioni verso studenti stranieri) e in Europa. Ciò che assilla i Liberali europei è il rischio della perdita del ruolo di terza forza dopo Popolari e Socialisti, cosa molto probabile stante la crisi di consenso che colpisce il partito di Emmanuel Macron a fronte del movimentismo della Le Pen. Il caso olandese, a questo proposito, è emblematico nel mostrare la disponibilità dei liberali ad alleanze finora impensabili. A sei mesi dal voto, il partito liberale dell’ex premier Mark Rutte ha accettato di formare un governo con l’estrema destra di Geert Wilders, a condizione che egli rinunci a presiederlo, e pare che per questo ruolo abbiano individuato addirittura l’ex ministro dell’Interno laburista Ronald Plasterk, che lo stesso Wilders aveva scelto come negoziatore nelle trattative politiche del dopo voto. Quello che è certo è che a farne le spese saranno ancora una volta i migranti, anche quelli già residenti, specialmente se musulmani.
I Popolari europei, da parte loro, sembrano già pronti a far cadere veti e l’isolamento dell’AfD facilita l’operazione della creazione di una destra che si affretteranno a dichiarare “potabile” come già sta facendo Tajani nel prefigurare in Europa la stessa maggioranza che in questo momento governa in Italia. Rimane l’ingombrante Le Pen da digerire, anche perché è ben difficile che possa convivere nella stessa maggioranza con Macron, ma i Paesi Bassi insegnano: mai dire mai.
Certamente la vicenda europea fin qui è risultata fallimentare su più fronti, a cominciare dalla guerra che va fermata riaprendo quel cantiere abbandonato che fu la Conferenza di Helsinky sulla sicurezza europea del 1975, dove sia nella sicurezza che nell’Europa era compresa la Russia, a quel tempo Unione sovietica.
Una guerra cui non si sarebbe mai dovuto arrivare dopo che questo continente aveva conosciuto nel 1989 il più grande sconvolgimento politico senza spargimento di sangue.
Economicismo, liberismo esasperato, distruzione del welfare, politiche inumane sull’immigrazione, e oggi guerra e riarmo, costituiscono gli ingredienti che hanno dato fiato alle destre, le quali hanno già vinto nell’imporre un nuovo linguaggio e un’interpretazione della realtà che penalizza i più deboli, distrugge qualsiasi idea di società che non sia basata su una gerarchia etno-nazionalista.
Un atto che potremmo definire “fondante” di questa deriva fu la risoluzione approvata dal Parlamento europeo nel giugno 2019, giusto all’inizio della legislatura che si sta concludendo con le elezioni dell’8 e 9 giugno prossimo.
Già il titolo era tutto un programma “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”. Non occorre essere storici per sapere che le memorie sono e restano diverse. L’operazione più onesta che si può chiedere a un parlamento è che esse non configgano con la storia e soprattutto che esso stesso divenga luogo di confronto e non di “rivalse” postume, che spesso celano, attraverso il neo-nazionalismo, l’obiettivo di far dimenticare i diversi “collaborazionismi” con i quali si è scelto di non fare i conti.
Questa risoluzione, manipolando la storia con censure ben studiate, sposta l’intero asse, culturale e sentimentale dell’Europa dall’avversione al fascismo e al nazismo (mai più) a una più generica condanna dei totalitarismi.
Operazione che è stata immediatamente utilizzata dalla destra, a cominciare da quella di casa nostra, con il secondo fine di liberarsi dallo stigma che le simpatie nostalgiche le hanno comportato, per equiparare, almeno sulla carta, le responsabilità che portarono alla seconda Guerra mondiale, con buona pace dei 27 milioni di morti sovietici (di cui 18 milioni civili), ai quali non viene dato neanche l’onore di una menzione. Un po’ più di attenzione per l’olocausto, il quale, in una risoluzione lunghissima, viene citato tre volte en passant e dove le parole “ebrei” e “antisemitismo” non compaiono, perché riassorbite nel concetto più rassicurante di “minoranze”.
Ciò che lascia ancor più attoniti è che essa sia stata approvata a larghissima maggioranza, con l’eccezione del Gruppo della Sinistra Europea e di qualche voto contrario nel Gruppo Socialista che si può contare con le dita di una mano.
Come si può vedere, la destra non solo esiste ma si dà molto da fare riuscendo, in alcuni casi, a esercitare una influenza sull’intero Parlamento europeo.
D’altra parte la presidente Meloni ha reso esplicita da tempo la sua visione dell’Europa come “Confederazione di Stati Nazione” da cui deriva un lessico conseguente infarcito di “patrioti” e di “nazioni”, cui l’elemento religioso fa da sfondo soprattutto come ulteriore discrimine di natura etnico-culturale.
Il funzionalismo che ha caratterizzato il procedere dell’Unione europea, accompagnato dallo spostamento del baricentro dalle istituzioni comunitarie (Commissione, Parlamento) a quelle intergovernative (Consiglio), rendono pericolosamente compatibili le derive nazionaliste con l’attuale struttura dell’Unione.
Lo stesso Parlamento europeo ha subito nel tempo, con una accelerazione impressionante nell’ultimo periodo, una metamorfosi preoccupante caratterizzata dal prevalere dell’appartenenza nazionale su quella politica.
Esso, infatti, fin dalla nascita, è stato organizzato in gruppi politici al fine di favorire quel processo di integrazione fondamentale per la costruzione di una dimensione sovranazionale della politica (attualmente i gruppi sono 7 cui si aggiunge quello dei non iscritti, composto da parlamentari che non si identificano con i gruppi esistenti e non hanno requisiti per formarne di nuovi). Sempre più spesso si assiste nelle votazioni a una scomposizione dei gruppi, segno del fatto che molti deputati fanno prevalere la fedeltà o l’ostilità al Governo del proprio Paese, piuttosto che le posizioni politiche scaturite dal processo di formazione delle decisioni in seno al proprio gruppo di appartenenza.
Stessa sorte è toccata ai partiti politici europei, pur previsti e finanziati dal bilancio dell’Unione insieme alle loro fondazioni. Niente di più che reti di partiti nazionali incapaci di superare le diverse ottiche domestiche e di proporsi come effettivi soggetti politici di dimensione europea.
Se poi si esaminano le proposte attualmente sul tappeto esse, senza toccare minimamente la struttura antidemocratica dell’attuale Unione, inseriscono alcune priorità quali quelle previste dal documento Draghi sulla concorrenza e di Letta sul mercato interno, insieme alla solfa senza alcun costrutto politico sulla difesa comune, il tutto sotto la scure del neonato patto di stabilità.
Quella della politica estera e di sicurezza costituisce la più pericolosa delle provocazioni, in un campo dove il Consiglio ha l’esclusiva competenza sia pure nei limitati ambiti previsti dall’attuale Trattato.
Vi sembra che i 27 si stiano sforzando per presentare ai cittadini europei e al mondo una visione che vagamente somigli a una politica comune?
Basta guardare come votano all’ONU i 27 Paesi europei, quanti si sono pronunciati per il “cessate il fuoco” a Gaza e per il riconoscimento dello Stato palestinese e quanti, per contro, hanno rigettato in modo sprezzante la richiesta di incriminazione proposta dal procuratore della Corte Penale Internazionale Karim Kan nei confronti dei vertici di Hamas e del Governo israeliano. Tutto ciò fa capire che il metodo funzionalista del passo dopo passo è arrivato al capolinea e che all’ordine del giorno di questa Europa va posta la questione democratica, poiché il funzionalismo è un oppio che si mangia la democrazia inducendo nella testa dei cittadini e degli elettori la convinzione che esista una sola via d’uscita: quella apparentemente neutra e tecnocratica che ci ha condotto sull’orlo del baratro.
In questo quadro non ha senso rivendicare più Europa e qualsiasi ulteriore cessione di sovranità, a cominciare dalla già citata politica estera e di difesa, dovrà essere subordinata alla costruzione di un sistema istituzionale democratico e federale che derivi da una Costituzione europea che riprenda il meglio del costituzionalismo del diversi Paesi.
La proposta di premierato in Italia va esattamente nella direzione opposta. Esso, combinato con l’attuale assetto intergovernativo dell’Unione, moltiplica i suoi effetti nefasti liberando ancor più i governi dai vincoli parlamentari e democratici e dal bilanciamento dei poteri.
Le conseguenze della proiezione in Europa del premierato andrebbero ancor più indagate, poiché aggiungono ulteriori e fondati motivi per opporsi con tutte le forze a questo tentativo di manomissione della nostra Costituzione.
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