Se gli israeliani sono rimasti allibiti dalla capacità di resistenza di Hamas alla potenza di fuoco delle loro forze armate, non sanno cosa li aspetta qualora decidessero di affrontare anche Hezbollah in campo aperto. Se gli israeliani non si erano accorti che Hamas stava scavando sotto le sabbie di Gaza chilometri di camminamenti fortificati, forse ignorano quanto li aspetta fra le alture e le valli libanesi. Basta una mappa per farsene un’idea. Il Litani, fiume che scorre interamente in Libano da Baalbek al mare per 150 chilometri, ha scavato nei millenni un solco profondo nella roccia, creando anfratti e forre verdeggianti spesso inaccessibili. In tempo di pace ho percorso tratti di quel fiume fra boschi quasi impenetrabili, accompagnato dal mormorio di acque cristalline; i greci lo chiamavano Leonte e io quasi immaginavo di imbattermi in “qualche disturbata divinità”.
Adesso, invece, sono stipati laggiù missili di precisione, razzi, droni, armi d’assalto e quant’altro ha potuto fornire la tecnologia iraniana alle forze di Hezbollah dopo il sanguinoso conflitto del 2006. Allora il movimento sciita non aveva a disposizione altro che katiuscie, bombe a mano, armi d’attacco o di difesa personale. Il che consentì all’aviazione israeliana di bombardare agevolmente, per oltre un mese, l’intero Libano: chilometri di strade, 82 ponti, centri abitati, fabbriche civili, perfino edifici “protetti” (si fa per dire) dal vessillo dell’ONU, e accomiatarsi infine con un ultimo lancio di bombe a grappolo sugli uliveti del Sud. Le vidi anch’io – nel settembre del 2006 – quelle bombe proibite dalla Convenzione di Oslo: sembravano ninnoli natalizi caduti sull’erba o pendenti dai rami, pronti a esplodere al passaggio dei contadini impegnati nella raccolta delle olive.
Ora la domanda è: se le forze israeliane non sono riuscite a debellare un nemico protetto unicamente dalla sabbia in un’area ristretta, come potranno neutralizzare un nemico dotato di armi sofisticate immagazzinate in “arsenali” rocciosi e boschivi? E se mai Israele fosse in grado di colpirle, verrebbero presto rimpiazzate da armi altrettanto micidiali, perché la via dall’Iran al sud del Libano è sotto il controllo dell’Asse della Resistenza sciita, attraverso l’Iraq e la Siria. Né le sanzioni occidentali né lo scollamento tra il popolo iraniano e il suo regime teocratico, reso evidente dall’astensionismo in questa tornata elettorale, intaccano se non marginalmente la produzione di armamenti.
Eppure, gli estremisti al governo in Israele sono tentati di ripetere la guerra contro il Libano del 2006, per evitare – sostengono – che si ripeta al Nord quanto è accaduto il 7 ottobre a Gaza. In teoria avrebbero ragione: il confine tra Libano e Israele è per sua natura indifendibile in caso di attacchi lampo dall’una o dall’altra parte (e il cuscinetto dell’Unifil inviato dall’ONU non ha poteri di peace enforcement). Tuttavia Hassan Nasrallah, capo indiscusso di Hezbollah, avendo un piede in guerra al fronte e l’altro al governo a Beirut, non vuole trascinare in avventure belliche il Paese già devastato da una grave crisi economica e sociale. Il suo intento si limita a mostrare sostegno ai palestinesi di Gaza; ma non è un sostegno di pura facciata: basta quello a dare un’idea delle capacità offensive di Hezbollah, se mai fosse necessario esibirle.
Intanto, la fascia calda lungo la frontiera ha provocato qualche centinaio di vittime e ha costretto 60.000 residenti israeliani e 100.000 libanesi a rifugiarsi altrove. Ma dove? Il Libano alberga già 850.000 siriani sfuggiti alla dittatura (e sono solo quelli registrati). Quanto a Israele, perfino centri urbani come Haifa e Acri rimangono potenzialmente sotto tiro, protetti a malapena dall’Iron Dome. È la prima volta che il Governo si trova costretto a evacuare tanti civili dall’alta Galilea. Ne ha approfittato Nasrallah per dichiarare: “Questa guerra di attrito sta erodendo il loro spirito sotto il profilo umano, economico, spirituale, psicologico e securitario”. Scoppierà l’ennesimo conflitto? Se sì, non potrebbe non coinvolgere l’Iran e il confronto rischierebbe di essere mortale. Perciò la diplomazia statunitense – guidata una volta tanto da veri esperti – sta lavorando con la massima discrezione per calmare i bollenti spiriti degli uni e degli altri. Un lavoro silenzioso che probabilmente non porterà nuovi voti a Biden, ma porterà almeno nuove speranze in Medio Oriente.
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