Dopo il sorprendente secondo turno delle legislative, lo scenario francese resta in evoluzione. Il risultato del 7 luglio era imprevedibile e, di conseguenza, non è stato previsto dagli osservatori nella loro quasi totalità. Alcune tendenze visibili già in fase pre-elettorale si sono tuttavia manifestate, sebbene in misura minore rispetto alle aspettative alimentate dall’esito del primo turno.
Un fattore decisivo nella definizione del risultato è stata l’affluenza elettorale d’eccezione, per gli standard francesi: il 66,7 al primo turno si attesta su livelli che non si registravano dal 1997, anche allora per una elezione anticipata, quella in cui maturò la vittoria di Jospin. Questa partecipazione al voto si è confermata al secondo turno, in occasione del quale si è recato alle urne il 66,6 degli aventi diritto nei collegi in cui si votava.
La scelta di Macron di convocare le elezioni ha senz’altro avuto l’effetto di depersonalizzare le responsabilità per l’impasse che la Francia sta attraversando in questi mesi. La frammentazione dell’arco parlamentare gli consente di scaricare sul caos politico che ne consegue le difficoltà dei prossimi mesi, difficoltà che con buona probabilità si sarebbero ugualmente presentate dopo l’estate in vista dell’approvazione della legge di bilancio, su cui ora aleggia anche lo spauracchio dello spread, cavalcato mediaticamente dai detrattori del Nouveau Front Populaire.
A impedire la vittoria del Rassemblement national, in testa il 30 giugno, sono state le oltre 200 desistenze che hanno funzionato da barrage républicain, coagulando i voti contro in favore dei candidati alternativi a quelli lepenisti. La disponibilità reciproca di tutte le forze politiche alternative a Le Pen e Bardella di ritirare i terzi incomodi nei collegi in lizza ha evitato la dinamica delineata nel primo turno. La meccanica del sistema elettorale majority ha impedito una vittoria che per il RN sarebbe stata molto più agevole con un sistema plurality a turno unico (quello in uso nel Regno Unito).
Macron, che non sarà rieleggibile e non ha futuro politico nazionale, può ovviamente influenzare questa fase. Lo sta facendo anche attraverso la Lettre aux Français con cui ha invitato le forze politiche a prendere atto della necessità di “costruire una grande coalizione” (…) “una maggioranza solida, necessariamente plurale, per il paese”.
Bisogna osservare, in ogni caso, che rispetto al 2022 lo schieramento centrista riconducibile all’Eliseo ha perso oltre 80 seggi all’Assemblea nazionale, mentre la sinistra ha guadagnato complessivamente circa 40 seggi e la destra radicale più di 50. La destra neogollista, pur non aumentando la propria rappresentanza, ha complessivamente tenuto, perdendone una decina. A questi dati numerici bisogna sommare altri dati politici. Macron non ha ancoraggio nella società e non ha un vero partito, bensì una formazione che, nella tradizione del moderatismo francese è liquida, leaderizzata, camaleontica, come testimoniano sul piano simbolico anche i frequenti cambi di denominazione: prima En Marche, poi La Republique en Marche, quindi Renaissance come “socio di maggioranza” della coalizione Ensemble.
A dispetto del risultato che consegna alla Francia un “Parlamento appeso”, la bipolarità del sistema, soprattutto in proiezione futura ma anche nell’immediato, si è accentuata. Sembrano indicarlo anche gli scricchiolii all’interno di Renaissance, con alcuni deputati che stanno rifiutando l’adesione al gruppo parlamentare e guardano con attenzione e interesse al campo del centro-sinistra, come i macronisti eretici Stella Dupont e Sacha Houlié. Naturalmente, la radicalizzazione e la polarizzazione, pur meno forti di quanto il clima politico sembrava indicare, sono effetto di rimbalzo del centrismo perseguito in questi anni da Macron.
Mentre il rebus delle maggioranze possibili è ancora da sciogliere, con la maggioranza relativa del Fronte Popolare minacciata dalla spada di Damocle di una mozione di censura da parte delle maggioranze negative (centro e destre) o dallo spauracchio di una grande coalizione sul modello Ursula (a cui non è detto che i socialisti vogliano prestarsi), i francesi, con il loro voto, hanno espresso sì un rifiuto nei confronti della proposta lepenista, ma hanno anche indirizzato un messaggio collettivo, una propria lettera all’inquilino dell’Eliseo, dimostratosi non all’altezza delle prospettive di rinascita che avevano accompagnato la sua marcia trionfale nel 2017.
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