Articolo tratto da “DINAMOpress” in virtù di un accordo di collaborazione (https://www.dinamopress.it/news/usa-al-bivio-8-i-sindacati-alla-corte-di-trump/).
Per chi segue la politica americana da questo lato dall’Atlantico deve avere fatto una certa impressione e posto più di qualche interrogativo vedere durante la prima giornata della convention repubblicana a Milwaukee lo scorso 15 luglio intervenire (con il discorso più lungo della serata e in prime time) un sindacalista importante come Sean O’Brien, presidente dell’International Brotherhood of Teamsters.
I Teamsters, cioè il più importante sindacato di camionisti e autotrasportatori degli Stati Uniti (ma anche di un’infinità di altre figure di lavoratori blue-collar della logistica e dei trasporti) non sono nuovi a trovarsi vicino al Partito Repubblicano. Furono loro in passato a sostenere ufficialmente Richard Nixon, George H. W. Bush e persino Ronald Reagan – non soltanto nella famosa rivolta blue-collar contro Jimmy Carter delle elezioni del 1980, in cui altri sindacati come l’International Longshoremen’s Association, o la National Maritime Union si schierarono a destra, ma persino nel 1984 all’indomani del PETCO strike, ovvero dopo una delle pagine di più violenta offensiva anti-sindacale da parte del Governo reaganiano. Tuttavia, questa volta si tratta di qualcosa di un po’ diverso perché Sean O’Brien non è il classico burocrate sindacale interessato soltanto al lavoro di lobbying a Washington, ma è una delle voci più innovative nel panorama sindacale degli ultimi anni.
Nel 2022 i Teamsters – che rappresentano 1,3 milioni di iscritti oltre che un settore della forza lavoro particolarmente centrale oggi come quello della logistica – furono protagonisti di un traumatico e assai significativo cambio di leadership quando James P. Hoffa (figlio del celebre Jimmy Hoffa) dopo 24 anni di ininterrotta presidenza venne sconfitto da Sean O’Brien nell’elezione per il ruolo di Presidente Generale dell’organizzazione. Si trattò di un passaggio da un progetto di sindacato per lo più conservativo e incentrato sull’erogazione dei servizi ai propri membri, a una strategia più aggressiva, non solo di allargamento della base dei propri iscritti ma anche di apertura di nuovi fronti di sindacalizzazione (particolarmente importanti sono state le vittorie in diversi stabilimenti di Amazon, dove i Teamsters sono riusciti a essere riconosciuti all’interno dell’azienda). Nella cordata di supporto alla candidatura di Sean O’Brien ci furono anche i Teamsters for Democratic Union (TDU), una corrente interna di ispirazione socialista nata negli anni Settanta che rappresenta ancor oggi una delle sezioni più radicali del movimento sindacale americano. È per questo che molti, sia dentro che fuori dall’organizzazione, si sono trovati un po’ spiazzati nel vedere O’Brien salire sul palco di Milwaukee e venire calorosamente applaudito non solo da Trump e Vance, ma anche dalla maggior parte dei delegati della convention.
In realtà O’Brien nel suo discorso ha alternato momenti di lodi a Trump e alla convention repubblicana, il cui coraggio nel permettere questo invito è secondo lui da apprezzare, a un discorso duro sul potere delle corporation nelle relazioni industriali americane, sul declino del potere d’acquisto della classe lavoratrice e sulla necessità di riportare il lavoro al centro del patto sociale nazionale: tutti temi che tradizionalmente non sono certo parte del Partito Repubblicano. Ma al di là dei contenuti del discorso (per la gran parte condivisibili), O’Brien ha anche ribadito che i Teamsters non si schierano né da una parte né dall’altra in questa campagna elettorale (nonostante abbiano dato un sostengo ufficiale a tutti i candidati democratici delle ultime elezioni presidenziali degli ultimi 30 anni) mostrando un’inedita terzietà e autonomia dalla politica di Washington. Insomma, l’idea secondo O’Brien è che i Teamsters abbiano una propria agenda autonoma e che si debbano sentire autorizzati a parlare sia ai Repubblicani che ai Democratici, come infatti dimostrano le loro donazioni (per altro prettamente simboliche) di 45.000 dollari fatte sia a un partito che all’altro.
Mentre Trump con questo discorso ha rafforzato di molto la sua narrazione di candidato vicino alla working class americana, le reazioni al discorso di O’Brien all’interno del movimento sindacale e della sinistra americana sono state delle più varie. Se è vero che non sorprendentemente un sito come Compact Magazine – che di fatto ha da tempo sposato una linea di populismo anti-corporate e anti-woke sempre più “terzoposizionista” e ormai apertamente tendente a destra – ha salutato entusiasticamente il discorso di O’Brien, così come ha fatto l’ambiguo canale di News su YouTube The Young Turks, altre parti del movimento sindacale sono state più critiche.
È il caso ad esempio di Larry Cohen che in un articolo intitolato Trump Is Not a Friend to American Workers, uscito su “The Nation” il 16 luglio ha ricordato come Trump sia stato un Presidente particolarmente avverso al movimento sindacale americano e che il discorso di O’Brien debba essere giudicato non solo per quello che ha detto ma anche per le sue omissioni: il leader dei Teamsters ad esempio ha denunciato come il sistema giudiziario sia intervento in modo molto pesante negli ultimi anni con sentenze che hanno colpito duramente il movimento sindacale (su tutte la devastante sentenza Janus della Corte Suprema federale, che ha tirato un colpo mortale ai diritti sindacali di tutto il settore pubblico americano) ma non ha detto come la gran parte di questi giudici siano stati nominati da Trump. Così come non ha detto come sia stato Trump a decimare i finanziamenti del National Labor Relations Board o a ingaggiare una dura lotta con i lavoratori delle poste per la privatizzazione del sistema postale americano.
Ma anche lo stesso vice-presidente dei Teamsters John Palmer ha scritto sul “Las Vegas Sun” che «è inconcepibile che un leader sindacale dia legittimità a un candidato e a un partito politico che non ha mai fatto nulla per il lavoro e che verosimilmente non farà nulla per migliorare la vita dei lavoratori che come Teamsters dobbiamo rappresentare», lasciando intendere che anche all’interno del gruppo dirigente del sindacato dei camionisti ci siano diversità di vedute su quanto accaduto a Milwaukee.
Tuttavia c’è stato chi anche a sinistra ha provato a comprendere l’operazione fatta da O’Brien al di là di ogni pregiudiziale e contestualizzarla all’interno della situazione attuale del movimento sindacale americano. Amber A’Lee Frost del podcast Chapo Trap House – una delle poche a occuparsi della politica dei Teamsters da tempi non sospetti – nella puntata del 18 luglio ha provato a riflettere su come non soltanto vi sia una convinzione sempre più concreta all’interno degli iscritti del sindacato che Trump sarà effettivamente il nuovo Presidente degli Stati Uniti, ma che una parte significativa dei membri lo voterà convintamente alle prossime elezioni. Se è vero che all’indomani della vittoria di Trump del 2016, l’allora presidente dell’AFL-CIO (la più importante confederazione sindacale americana, di cui però i Teamsters non fanno parte) Richard Trumka fece un sondaggio all’interno dei propri iscritti e verificò che non più di 1/3 aveva effettivamente votato Trump, è probabile che quella percentuale oggi sia significativamente più alta.
Ma c’è forse un’altra ragione che ha portato O’Brien a parlare alla convention repubblicana e che riguarda forse più il rapporto che i Teamsters hanno con i democratici che con i repubblicani. Secondo Frost (e una posizione simile è stata espressa anche da Peter Olney su Portside.org), il Partito Democratico ha da tempo dato per scontato di incassare l’appoggio di tutto il movimento sindacale, e se è vero che questo è stato quasi sempre vero per quanto riguardava le dirigenze sindacali, non è stato sempre così per i membri rank-and-file, come dimostrano i dati delle elezioni del 2016, dove è proprio a causa dei voti degli iscritti ai sindacati che l’ago della bilancia ha finito per pendere verso Trump in Wisconsin, Pennsylvania e Michigan. Il voto sindacale è insomma “up for grabs”, è da contendere, e i Democratici devono fare uno sforzo in più nell’adottare una politica più risolutamente pro-labor se vogliono che i voti degli iscritti al sindacato vadano a Kamala Harris e non a Donald Trump.
Il problema è che nel frattempo si sta costituendo un sorprendente fronte pro-labor proprio all’interno del Partito Repubblicano, che sebbene mostri molti elementi di ambiguità e doppiogiochismo, rischia comunque di rendere ancora più confuso il dibattito sulle politiche sul lavoro che ci sarà da qui a novembre. Nel suo discorso a Milwaukee O’Brien ha lodato alcuni senatori e membri del congresso repubblicano, che secondo lui hanno preso delle posizioni pro-labor negli ultimi mesi, tra cui il candidato vicepresidente JD Vance e il Senatore del Missouri Josh Hawley. Sebbene secondo i dati delll’AFL-CIO JD Vance abbia votato proposte di legge a favore del lavoro lo 0% delle volte, e Hawley solo l’11%, Josh Hawley è riuscito a far passare l’idea di trovarsi vicino ad alcuni temi sindacali facendosi riprendere mentre andava a un picchetto dei Teamsters a St. Louis e a uno degli UAW (il sindacato dei lavoratori dell’automotive americani) a Wentzville, Missouri. In molti hanno mostrato l’ipocrisia del populismo pro-labor a corrente alternata del senatore Hawley – tra gli altri Alex N. Press su “Jacobin” e Alexandra Bradbury su “Labor Notes” – e tuttavia nulla è più chiaro che sentirlo dire direttamente da lui.
All’indomani del discorso di O’Brien alla convention di Milwaukee, Josh Hawley ha pubblicato un commento su “Compact Magazine” (il luogo non è casuale) intitolato The Promises of Pro-Labor Conservatism dove delinea a sommi tratti quali sono i punti programmatici principali di questa cosiddetta politica conservatrice a favore del lavoro. Tra una critica a come il Partito Repubblicano si sia schierato troppo a favore delle grandi corporation in passato e a come abbia abbandonato il mondo del lavoro, si intravede nemmeno troppo tra le righe che cosa c’è davvero in ballo in queste posizioni: una politica protezionistica e una guerra commerciale nei confronti della Cina; un attacco alle politiche di riconversione energetica (mentre bisognerebbe secondo lui imporre un’autonomia energetica nazionale) e soprattutto un attacco alle politiche DEI (“diversity, equity and inclusion”) che secondo Hawley promuoverebbero «la religione della bandiera trans». La classe operaia che vuole difendere Hawley è quella bianca e americana, che si riconosce nell’American Way of Life con al centro «la famiglia, il quartiere, la chiesa e la sede del sindacato».
Come scrive molto giustamente Alexandra Bradbury su “Labor Notes”, si tratta non soltanto di un attacco a tutti quei lavoratori immigrati che sono sempre più rilevanti nella composizione di classe americana, ma anche verso quel principio di uguaglianza dei lavoratori su cui si è da sempre basato il movimento sindacale e che riguarda anche le diverse identificazioni di genere o di orientamento sessuale. Ma l’elemento forse ancora più insidioso è come i conservatori “pro-labor” alla Hawley non nascondano che l’ingrediente fondamentale della loro idea di classe operaia sia il nazionalismo: i lavoratori che vuole difendere Hawley devono combattere non solo le politiche di delocalizzazione e de-industrializzazione ma anche tutti quei lavoratori in Cina o in Messico che sono oggettivamente, secondo lui, in competizione con i lavoratori americani. Bradbury ricorda che questa però non è la strada che sta prendendo UAW, che non soltanto non promuove l’idea che l’indipendenza energetica debba essere in contrasto con le politiche di riconversione ecologica (anzi, UAW promuove la sindacalizzazione anche dei lavoratori delle fabbriche di auto elettriche), ma che sta costruendo da anni alleanze anche con i sindacati indipendenti dei lavoratori messicani consapevoli che è soltanto l’unità dei lavoratori, indipendentemente dalle frontiere, che può rilanciare un autentico movimento sindacale trans-nazionale. Tutto il contrario di quello che vorrebbero fare Trump, JD Vance, Josh Hawley e il loro improbabili seguaci pro-Labor all’interno del Partito Repubblicano.
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