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Articolo pubblicato su “ytali.” il 27.08.2024.

Sono mesi ormai che giornali e telegiornali ci raccontano di trattative in corso per fermare la guerra di Gaza, per porre fine al massacro di palestinesi (che ad agosto ha superato la terrificante soglia di 40.400 morti) e liberare gli ostaggi israeliani ancora in vita (forse cento, forse più, nessuno lo sa con certezza). Frenetici e ripetuti incontri a Doha, al Cairo, a Tel Aviv, a Riyadh, cui partecipano inviati israeliani, americani, di Hamas, e “mediatori” arabi, non hanno ad oggi portato a nulla mentre le devastazioni aumentano ogni giorno, la “Striscia” è ridotta a un cumulo di macerie, la carestia affligge la popolazione e cresce il pericolo di epidemie scomparse da decenni nella regione come vaiolo e poliomielite.

In tutto questo qual è il ruolo e quali sono le possibilità di intervento degli Stati Uniti, che pur continuando a sostenere Israele sono passati nel corso dei mesi da un sostegno incondizionato (“Vi guarderemo sempre le spalle” ebbe a dire Joe Biden dopo il 7 ottobre) a un atteggiamento parzialmente critico di fronte all’evidenza dei massacri di civili a Gaza? 

Ma innanzitutto, poiché di “guerra” si parla, di che guerra si tratta? Il governo israeliano parla di una guerra di difesa in risposta all’attacco di Hamas sul suo territorio che ha provocato oltre 1600 morti tra civili e militari israeliani oltre al rapimento di circa 250 ostaggi, uomini, donne bambini, anziani; una guerra di difesa legittima per schiacciare un feroce avversario che ha compiuto la più orribile strage di ebrei dalla seconda guerra mondiale. (Va detto en passant — ma l’osservazione non è priva di implicazioni di natura politica — che la distinzione che in Europa e in genere in Occidente si tende a fare tra ebrei e israeliani non ha alcun senso in Israele, che si definisce formalmente Stato ebraico.)

Una guerra in senso proprio è uno scontro armato tra Stati che vi impiegano le loro risorse militari ed economiche al fine di prevalere con la forza sull’altro. Esistono ovviamente altri tipi di guerre: guerre civili tra parti della popolazione di uno Stato, guerre di liberazione o di indipendenza per cacciare uno Stato occupante dal proprio territorio. Queste ultime tendono a essere guerre asimmetriche, in cui lo Stato combatte con gli strumenti propri (esercito, polizia), mentre i “ribelli” (o comunque li si voglia chiamare), spesso non in divisa e frammisti alla popolazione, combattono con attacchi, sovente anche di carattere terroristico, contro le forze armate dello Stato e contro i civili che lo sostengono. Lo Stato per parte sua reagisce a questi attacchi (definiti sempre terroristici anche quando non lo sono perché colpiscono obbiettivi militari) con consolidate tecniche di contro-insurrezione messe a punto in decenni di conflitti coloniali: rappresaglie, tortura, incarcerazioni di massa, uccisione indiscriminata di civili, siano essi parte del conflitto o spettatori inermi.

La guerra di Gaza con tutta evidenza non ricade nella definizione di guerra tra Stati. Innanzitutto perché Gaza non è uno Stato: è una parte dei territori che Israele occupò nella guerra del 1967 in cui conquistò militarmente, oltre a Gaza, tutta la Cisgiordania, la penisola del Sinai, Gerusalemme Est e le Alture del Golan. Una parte che, a differenza della Cisgiordania, non è sotto il controllo amministrativo dell’Autorità nazionale palestinese, ma di Hamas, un partito-milizia estremista che nella sua Carta istitutiva auspica la distruzione di Israele (come del resto era scritto nella Carta dell’Organizzazione della Palestina – OLP prima degli Accordi di Oslo del 1993).

Che non si tratti di una guerra in senso proprio è dato anche dalla enorme disparità delle vittime e distruzioni materiali. Le migliaia di razzi lanciati da Hamas il 7 e 8 ottobre dello scorso anno e nei mesi successivi sono stati quasi tutti intercettati dalla difesa israeliana; i pochi che hanno colpito qualche bersaglio hanno provocato circa dodici morti e qualche migliaio di feriti più o meno gravi. Per contro, la massiccia campagna di bombardamenti che è seguita all’attacco terroristico ha distrutto più dell’ottanta per cento delle infrastrutture di Gaza – scuole, ospedali e centri di soccorso internazionali compresi. Oltre ai quarantamla morti accertati si stimano circa ventimila “dispersi” (cioè sepolti sotto le macerie) e diverse centinaia di migliaia di feriti. Secondo stime dell’esercito israeliano tra i morti ci sarebbero circa seimila-ottomila combattenti di Hamas. A queste vittime vanno aggiunti i circa 630 palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania per reprimere manifestazioni di protesta o in presunte azioni antiterrorismo.

Se gli obbiettivi (del tutto irrealistici) di Hamas nel conflitto sono chiari – la distruzione dello Stato di Israele – meno chiari sono quelli di Israele. Il governo di Benjamin Netanyahu sostiene ufficialmente che i suoi obbiettivi sono due: la liberazione degli ostaggi e la completa distruzione di Hamas così che non possa più minacciare Israele. A quasi un anno dall’invasione tuttavia gli esperti militari sostengono che, per quanto diminuita, la forza militare di Hamas rimane elevata così come la sua volontà di combattere, nonostante la perdita di molti dei suoi capi, tra cui l’uccisione a fine luglio a Teheran del suo leader politico Ismail Haniyeh (subito sostituito). 

Ma se gli obbiettivi ufficiali del Governo israeliano sembrano lontani dall’essere raggiunti, rimangono quelli non ufficiali o semi-ufficiali. Qui il principale interprete è il ministro della sicurezza Ben-Gvir, esponente del movimento dei “coloni”, che esplicitamente afferma che Gaza dovrà essere rasa al suolo, la popolazione dovrà essere deportata e l’intero territorio diventare parte integrante di Israele. Al pari del resto della Cisgiordania, dove i coloni guidati e armati dallo stesso Ben-Gvir intensificano gli attacchi e le uccisioni per cacciare i palestinesi dai loro villaggi con l’obbiettivo di creare un “Grande Israele dal Giordano al mare”. Una posizione estrema del tutto speculare a quella degli estremisti arabi, in Medio Oriente e altrove, che vorrebbero la cancellazione dello Stato di Israele e la creazione di un’unica “Palestina dal Giordano al mare”.

Aggredito dai vicini arabi e minacciato dall’Iran persiano, oltre che oggetto di cruenti attacchi terroristici sul suo territorio, nel corso di tutta la sua storia Israele è sempre stato sostenuto militarmente ed economicamente dagli Stati Uniti e dai paesi europei, riuscendo così a diventare un unicum nella regione: uno Stato moderno e democratico (almeno per quel che riguarda la sua popolazione ebraica – altra è la condizione degli arabi israeliani); soprattutto uno Stato militarmente potente in grado di contrastare qualsiasi minaccia alla sua sopravvivenza proveniente dall’esterno. 

Oggi tuttavia queste minacce sono molto scemate. Nel corso dei decenni lo Stato ebraico, grazie alla mediazione degli Stati Uniti, ha sottoscritto accordi di pace e commerciali con numerosi paesi arabi della regione, senza che tuttavia venisse mai risolto il conflitto alla radice di tutti i conflitti: quello con i palestinesi nei territori che Israele occupa militarmente da quasi sessanta anni. Da ultimo, con gli Accordi di Abramo del 2020, un altro gruppo di paesi ha riconosciuto (e accettato) l’esistenza di Israele. Rimane, e non è cosa di poco conto, l’Iran che finanzia e arma le milizie anti-israeliane in Libano (Hezbollah), a Gaza (Hamas) e in Yemen (Huthi). Si tratta di minacce reali, soprattutto per quello che riguarda l’Iran che, ove completasse il suo programma di riarmo nucleare, potrebbe colpire Israele con un ordigno atomico; ben sapendo tuttavia che andrebbe incontro alla propria distruzione a seguito di una ben più massiccia risposta nucleare di Israele e del suo principale alleato, gli Stati Uniti.

È appunto sul ruolo degli Stati Uniti che occorrerebbe concentrasi per capire quando e se potrà esservi una soluzione al conflitto israelo-palestinese, che dura ormai da tre quarti di secolo e di cui questa guerra è solo l’ultimo crudelissimo episodio. La comunità internazionale attraverso i suoi organi più autorevoli – Nazioni Unite, Consiglio di sicurezza, Tribunale penale internazionale, Corte internazionale di giustizia – nonostante le condanne, le esortazioni, l’apertura di procedure di inchiesta per violazione dei diritti umani e crimini di guerra – non è riuscita a porre fine all’occupazione e annessione di sempre nuovi territori in Cisgiordania (da ultimo le Alture del Golan), né a fermare le stragi di civili palestinesi. Israele ha continuato a ignorare inviti e condanne agendo come “superiorem non recognoscens” (secondo la definizione westphaliana di Stato sovrano).

Ma Israele, ove vi fosse costretta, dovrebbe pur riconoscere qualcuno a esso superiore: gli Stati Uniti. Quel qualcuno non solo lo ha aiutato diplomaticamente e militarmente nel corso di decenni, prendendo le sue difese contro gli avversari nella regione e contro la condanna della comunità internazionale, ma continua a essere il principale fornitore di armamenti di difesa e di offesa al suo esercito, oltre che di intelligence ai suoi servizi segreti. La cornucopia di armamenti, approvata da Barack Obama nel 2009, circa quaranta miliardi di dollari in dieci anni, è stata ulteriormente aumentata dalle amministrazioni Trump e ora Biden. Senza il sistema antimissilistico statunitense Iron Dome Israele non sarebbe stato in grado di difendersi dalle migliaia di missili lanciati da Hamas e Hezbollah, e senza le diecimila bombe ad altissimo potenziale bunker buster inviate dall’amministrazione Biden dopo il 7 ottobre non avrebbe potuto radere al suolo la Striscia. 

E ciononostante Israele si mostra del tutto indifferente alle pur modeste pressioni americane affinché si arrivi aduna tregua nei combattimenti e si rilanci un nuovo processo di pace per risolvere la “questione palestinese”. Evidentemente il Governo israeliano ritiene che le parole dell’anziano presidente degli Stati Uniti, oltre che l’attivismo dei suoi consiglieri in perpetua spola tra Washington e Tel Aviv, possono essere ignorate in un anno elettorale in cui entrambi i candidati alla presidenza sanno che hanno bisogno di conquistare (o non perdere nel caso dei democratici) il sostegno della comunità ebraica, soprattutto nei cruciali swing states. Questo il Governo israeliano lo sa e nella sua opera di persuasione sull’elettorato statunitense si appoggia sulla potente lobby filoisraeliana AIPAC (American-Israeli Public Affairs Committee) che con i suoi finanziamenti e le sue “pagelle di affidabilità” è in grado di influenzare l’elezione non solo del presidente ma anche di moltissimi parlamentari.

Esisteva una regola nei rapporti con Israele seguita da tutti i presidenti USA a partire da Harry Truman: “Se vuoi dispiacere a Israele fallo dopo le elezioni, se vuoi fare un piacere a Israele fallo prima. Se sbagli i tempi ne pagherai le conseguenze”. È una regola che valeva finché si trattava di difendere il nuovo Stato ebraico dai nemici agguerriti che lo circondavano. Oggi, nella diversa realtà della regione, usarla per sostenere uno stato che massacra migliaia di civili e minaccia di precipitare il Medio Oriente in una guerra generalizzata, sta diventando sempre meno sostenibile e politicamente rischioso. Perché se è vero che l’AIPAC conta, è vero anche che l’elettorato ebraico-americano, che è in genere di orientamento progressista, non segue sempre i suoi diktat: mostra ad esempio ripulsa per le stragi di Gaza e simpatia per la causa palestinese (purché, certo, l’esistenza di Israele non sia in discussione). E, rispetto al passato, bisogna oggi tenere conto delle preoccupazioni dei tre milioni e mezzo di musulmani e arabi americani (l’1,2 % della popolazione), anche loro elettoralmente determinanti in alcuni Stati.

Joe Biden non è più il candidato alle prossime elezioni, ma non sappiamo – al di là di qualche più netta condanna delle stragi perpetrate dall’esercito israeliano e espressione di simpatia per la causa palestinese – cosa farebbe la sua vicepresidente e attuale candidata ove venisse eletta. Ma intanto Biden è il presidente e continuerà a esserlo per ancora cinque lunghi mesi. Le sue esortazioni, i suoi “moniti”, l’imbarazzante va e vieni dei suoi ministri e consiglieri (imbarazzante per una superpotenza abituata a convocare alleati e clienti a Washington), senza che vi sia anche solo la minaccia di una conseguenza, rimangono mere espressioni verbali e non porranno fine alla guerra — non fermeranno le stragi né porteranno alla liberazione degli ostaggi — fin tanto che il Governo israeliano nella sua piena sovranità non deciderà di farlo. 

L’indecisione per il timore di non scontentare una parte dell’elettorato è una delle (tante) prove che i potenti Stati Uniti non sono oggi più in grado di condizionare le decisioni di un piccolo alleato che dipende in gran parte da loro per la propria sicurezza; anzi, che si fanno in buona sostanza dettare da lui la linea da seguire. È il classico esempio di come talvolta in politica internazionale non sia il cane a muovere la coda, ma la coda a muovere il cane.

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