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Articolo pubblicato su “Compagno il mondo” il 05.09.2024.

In meno di due anni, dopo essersi presentato al mondo come il modernizzatore capace di superare la contrapposizione storica tra la destra e la sinistra, Emmanuel Macron è diventato il protagonista emblematico della crisi di un regime politico. L’acceleratore – consapevole o meno – dell’esaurimento della spinta propulsiva della V Repubblica francese, fondata sull’illusione della stabilità istituzionale indissolubilmente legata all’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Da oggi non è più così. Già nel 2022 le président dovette fare i conti con una crisi di consenso verticale della sua ipotesi politica, quel centrismo radicale che aveva riscosso così tanti consensi soprattutto tra i suoi aspiranti epigoni italiani. Tutti finiti abbastanza ammaccati, a dire il vero, sul piano elettorale e politico.

Tant’è che, all’indomani della vittoria presidenziale, Macron non ottenne – prima volta nella storia francese – la maggioranza assoluta dei seggi nell’Assemblée Nationale. Dopo le elezioni anticipate del 30 giugno, decise in assoluta solitudine e sulla scorta della disfatta dei centristi alle consultazioni europee, ha impiegato ben sessanta giorni per formare un governo, tregua olimpica compresa. Oggi lo ha finalmente nominato dopo una infinita sequenza di nomi bruciati.

Il Primo Ministro indicato è Michel Barnier, che proviene dalla destra gollista, in passato molto stretto di Nicolas Sarkozy, più volte ministro e già commissario europeo. Parliamo di una personalità della politica francese, anche se mai con la caratura della leadership di primissimo piano. Perché questa decisione? Innanzitutto per la contrarietà a dare il mandato al Nuovo Fronte popolare che aveva individuato in Lucie Castets la figura “civica” che univa le diverse anime della sinistra e soprattutto un volto nuovo sulla scena politica in grado di portare avanti un programma di riforme sociali avanzato. La sinistra non aveva la maggioranza in Parlamento ma rappresentava comunque lo schieramento che aveva avuto più seggi alle elezioni e dunque era legittimata – come era sempre accaduto nella tradizione democratica francese – ad avanzare la prima proposta per il governo. Macron l’ha respinta perché non poteva accettarne innanzitutto il programma – nonostante non si sia fatto scrupoli a prendere i suoi voti decisivi nei collegi uninominali al secondo turno per bloccare la Le Pen e salvare ben settanta deputati del suo movimento En Marche.

Macron ha considerato il superamento della sua riforma delle pensioni – che aveva mobilitato milioni di francesi per oltre un anno -, l’aumento del Salario minimo a 1600 euro mensili, la reintroduzione di una imposta sui grandi patrimoni e alcune iniziative di politica estera tra cui il riconoscimento immediato dello stato di Palestina un rischio troppo grande per i mercati finanziari. Parole testualmente pronunciate dall’inquilino dell’Eliseo durante le consultazioni. Ha scelto invece di rovesciare il risultato elettorale e di portare i centristi a destra. E ha ottenuto, contro ogni previsione, un’apertura di credito dell’estrema destra di Le Pen che non presenterà nell’immediato una mozione di censura al Governo Barnier. In cambio sarebbe in cantiere una legge proporzionale che aumenterebbe – stando ai risultati elettorali del 7 ottobre – i seggi del Rassemblement National fino a portarlo sulla soglia della maggioranza assoluta.

Insomma, Macron ha cambiato cinicamente schema, costruendo le condizioni per lo sdoganamento dell’estrema destra dopo che appena due mesi fa aveva chiamato tutto il fronte repubblicano a sbarrarle la strada. Questa ultima carta è naturalmente anche una conseguenza del tentativo principale su cui Macron si era cimentato finora: spaccare il Nuovo Fronte popolare, portare i socialisti nuovamente nella palude centrista e continuare a regnare con la retorica del taglio delle ali estreme.

Questa opzione si è infranta perché la sinistra è riuscita a rimanere unita anche durante la fase lunghissima delle consultazioni, mostrando una capacità di coesione su cui nessuno aveva scommesso e una determinazione assoluta nel perseguire gli obiettivi programmatici su cui avevano dopo anni recuperato un voto diffuso tra i giovani e nelle periferie più difficili.

Il quadro che viene fuori comunque non è stabilizzato. Non è da escludere che, qualora il Governo Barnier si infrangesse per la sua fragilità politica – nonostante il pieno di ministri centristi e della destra repubblicana, ha meno voti parlamentari della sinistra – davanti a mobilitazioni sociali già in cantiere (la prima sarà sabato prossimo in tutte le piazze francesi per difendere il programma sociale del Nfp) e per la disillusione diffusa dei francesi nei confronti dell’autoritarismo del personaggio Macron, lui stesso potrebbe decidere di dimettersi e portare il paese a elezioni presidenziali anticipate. Un altro inedito assoluto.

Che ci consegna due lezioni sempreverdi. Da un lato che società sempre più polarizzate tra inclusi ed esclusi non possono essere governate con il piglio presidenziale: la fatica della costruzione del consenso, soprattutto nei ceti popolari più esposti alla crisi, resta l’unica bussola per salvare le democrazie. Dall’altro lato emerge, come spesso è accaduto nella storia europea, la propensione dei liberali (o cosiddetti tali) a guardare sempre a destra – e talvolta anche all’estrema destra – quando la partita vera diventa la trasformazione radicale di un modello di sviluppo socialmente regressivo. Il primo Novecento, a Parigi e non solo, torna ad affacciarsi in maniera inquietante sulla scena.

Un commento a “Il Fronte non si spacca e Macron vira a destra”

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