Intervento introduttivo all’Assemblea nazionale del comitato referendario contro l’Autonomia differenziata, svoltasi il 5 ottobre 2024.
A me è stata assegnata una parte ingrata, direi quella del guastafeste. Farvi passare cioè dall’entusiasmo per una raccolta di straordinario successo, che nessuno poteva dare per scontato, alla illustrazione delle difficoltà che ora ci attendono per proseguire sulla scia di quanto sin qui conseguito.
Se vogliamo giungere alla meta ultima – o per meglio dire “penultima” come alla fine chiarirò – non possiamo fermarci neppure un attimo. Piuttosto direi che ora comincia il lavoro più duro.
La questione cui ci troviamo di fronte, in fondo, è molto semplice: come trasformare un milione trecento mila firme in 25 milioni di voti. Tenendo conto di tre fattori.
Anzitutto,il dato, ormai strutturale, dell’assenteismo cronico: alle europee ha votato il 49,68 % degli aventi diritto, meno del cinquanta necessario per conseguire il quorum di validità a noi necessario.
In secondo luogo, il peso del tutto perverso del voto degli italiani all’estero che, mentre per le elezioni politiche è ponderato per quanto riguarda la rappresentanza, nel referendum conta quanto quello dei residenti nel territorio nazionale e concorre anch’esso a definire il quorum, a fronte, com’è naturale, di un’altissima percentuale di astensione.
Infine, il trucco dell’astensionismo strumentale dei contrari al referendum, l’invito cioè a disertare le urne; che è immorale dal punto di vista della lealtà politica e della correttezza del confronto, ma che, ciononostante, è da anni utilizzato da un ceto politico poco sensibile alle ragioni del conflitto tra le diverse strategie politiche e molto attratto invece dal tatticismo strumentale al conseguimento del fine a ogni costo.
Dunque, un’ardua impresa? Difficile certo, eppure, la soluzione – la strada da seguire – è anch’essa facile a indicarsi: è necessario, da qui ai prossimi mesi, riuscire a convincere delle nostre buone ragioni, un popolo addormentato, distratto, confuso. Basterebbe risvegliare le coscienze e quindi, come direbbe Giacomo Puccini, se vogliamo che si dilegui la notte e vogliamo all’alba provare a vincere, “nessun dorma, nessun dorma”.
Un’aggiunta, mi sembra necessaria. Nulla è inutile e il percorso è virtuoso di per sé. Voglio dire che se anche – nel peggiore dei casi – non dovessimo raggiungere il quorum, ma riuscissimo comunque a risvegliare le coscienze e far prendere atto a una vasta parte del corpo elettorale dei rischi a cui andiamo incontro, portando su un piano più razionale e meno emotivo il dibattito politico, più legato ai principi costituzionali e meno alle logiche escludenti e appropriative che contrassegnano l’attuale fase politica, avremmo comunque raggiunto un grande risultato. Il risveglio delle coscienze è un presupposto per tornare a sperare in un cambiamento, per uscire dalla palude cui il regresso culturale e politico ci sta sprofondando.
Il percorso è, dunque, accidentato e in salita. Ci sono due tappe intermedie su cui dobbiamo soffermarci. Non perché possiamo su queste far valere la nostra forza, ma per cercare di far valere le nostre ragioni.
La prima si svolgerà tra poco più di un mese, il 12 novembre per l’esattezza; la seconda tra fine gennaio e inizio di febbraio.
Spetta ora alla Corte prendere la parola. È il nostro giudice delle leggi che si dovrà pronunciare prima sulla legittimità costituzionale della pessima legge Calderoli, poi sull’ammissibilità del quesito da noi promosso per chiedere l’abrogazione della legge.
Le questioni sono assolutamente diverse tra loro e questo è già da chiarire, poiché prevedo che in molti giocheranno a confonderci.
Il giudizio promosso dalle Regioni riguarda la costituzionalità della legge. Sarà discusso in udienza pubblica il 12 novembre.
Non entro nel merito delle questioni giuridiche, mi limito qui a osservare che, quale che sia il giudizio della Corte sulla costituzionalità, è possibile che poco, o al limite nulla, cambierebbe per noi.
Se infatti dovesse essere dichiarata l’incostituzionalità di alcune norme della legge n. 86, dovremmo chiedere di effettuare il referendum sulla parte residua. Se invece, malauguratamente, dovessero essere respinte tutte le questioni di incostituzionalità delle Regioni, nulla cambierebbe per chi chiede l’abrogazione di una legge non per ragioni di incostituzionalità presunta, ma per ragioni di merito politico. Per chi ritiene di voler contrastare una deriva istituzionale, contro un’idea di regionalismo di stampo egoistico e appropriativo, che è quella che viene da noi avversata. In tal caso – nel caso fossero respinte le ragioni di legittimità presentate dalle Regioni – il referendum diventerebbe veramente l’ultima spiaggia per evitare il peggio.
Certo, solo nell’ipotesi estrema – se fosse dichiarata l’incostituzionalità dell’intera legge Calderoli – l’impatto sarebbe decisivo. In tal caso, avremmo vinto senza combattere, e il referendum non si terrebbe. Ma a quel punto dovremmo tutti interrogarci sul più radicale dei cambiamenti, impegnarci per definire un modello finalmente solidale di regionalismo tornando a rivendicare la forza del disegno della Costituzione, sino ad ora rimasto inattuato. Neppure in questa circostanza potremmo dunque acquietarci.
In ogni caso quale che sia lo scenario che si presenterà a fine novembre, ciò che deve essere chiaro è che la nostra richiesta non riguarda la legittimità della legge, bensì il merito. Pertanto, in ogni caso, anche se la Corte dovesse ritenere non in contrasto con la Costituzione la legge Calderoli la nostra lotta va avanti. E falso sarà l’argomento – lo dico ora per domani – di chi proverà a sostenere che il giudizio sulla costituzionalità vale ad assorbire quello sul merito della legge. Tutti i referendum del passato, a iniziare da quello sul divorzio, hanno avuto a oggetto leggi non condivise e su cui si è chiesto al popolo di esprimersi. La domanda è chiara, secca e riguarda il merito: vuoi tu cambiare un sistema che si propone di disgregare l’Italia, accentuare le differenze, abbandonare i principi di solidarietà territoriale e di eguaglianza nei diritti in tutto il territorio nazionale. Se vuoi fermare la slavina vota sì. Questo è il quesito.
Il secondo giudizio della Corte ci riguarda invece direttamente. Poiché è la porta dalla quale dobbiamo necessariamente passare per giungere al referendum. Quando a gennaio – in una diversa composizione rispetto all’attuale, visto che a dicembre termina il mandato di ben tre giudici attualmente in carica (mentre un quarto, da tempo scaduto, sembra lo si voglia inviare alla Corte proprio alla vigilia dei giudizi che ci riguardano) – la Corte effettuerà il sindacato di ammissibilità del referendum, ci giocheremo una partita decisiva.
I precedenti sono diversi e la giurisprudenza in materia di referendum è notoriamente ondivaga. L’incertezza sull’esito non può essere sottaciuta. Ma solide sono le ragioni che militano dalla nostra parte e il favor referendario dovrebbe – come è stato autorevolmente sostenuto in passato – far superare ogni ricerca di “peli nell’uovo” o di pretesti che valgono d impedire al corpo elettorale di pronunciarsi ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione, esercitando un suo diritto costituzionale.
Non posso certo ora discutere nel merito le ragioni di ammissibilità, mi limito a ricordare i tre vizi che vengono prospettati da più parti per negare l’ammissibilità che a me sembrano tutti infondati, alla luce della stessa pur controversa giurisprudenza costituzionale.
In primo luogo, si sostiene che la richiesta non sarebbe ammissibile perché“collegata con la legge finanziaria”, ma si dimentica che la stessa Corte ha sempre tenuto a precisare che questa connessione deve operare “al di là della loro qualificazione formale”, “di per sé non idonea a determinare effetti preclusivi in relazione alla sottoponibilità a referendum” (così la sent. n. 2 del 1994). Consapevole la Consulta che altrimenti basterebbe includere un qualunque disegno di legge tra i “collegati” alla finanziaria per impedire il referendum. Ora che il collegamento con la legge finanziaria sia nel nostro caso puramente formale, è esplicitatamene confessato dalla dichiarazione di invarianza finanziaria (all’art. 9, della legge n. 86 del 2024). La legge Calderoli è una legge di natura procedurale e non di spesa. In questo caso, dunque, per usare le parole della Corte, dovrebbe essere evidente che non sussiste il presupposto necessario per dichiarare l’inammissibilità.
In secondo luogo, è stato sostenuto che si tratterebbe di una legge “a contenuto costituzionalmente necessario”. Senza però considerare che l’inammissibilità dei relativi quesiti è stata in passato determinata dal timore manifestato dalla Corte che l’abrogazione determinasse “la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo Costituzione” (sent. n. 35 del 1997). Non è questo il nostro caso: la legge Calderoli è una legge – lo si ripete – di natura procedurale, per nulla necessaria per dare attuazione all’articolo 116, terzo comma della Costituzione. Tanto è vero che le intese tra Stato e Regioni le si voleva approvare – tanto dal governo Gentiloni quanto dal successivo governo Conte I – anche in assenza di legge attuativa.
In terzo e ultimo luogo, si denuncia una presunta disomogeneità del quesito. Ma in questo caso non mi sembra si tenga conto che il referendum contro l’autonomia differenziata ha natura dichiaratamente abrogativa. Da questo punto di vista assolutamente in linea con quanto imposto dall’articolo 75 della nostra Costituzione. Non è applicabile, dunque, al caso di specie tutta quella ampia e controversa giurisprudenza (ad iniziare dalla sent. n. 16 del 1978) che è stata elaborata per limitare i referendum manipolativi o di abrogazione parziale della legge. Nel nostro caso, il rischio della disomogeneità è negato in radice, avendo la legge una matrice a finalità unitaria e non avendo i promotori operato alcuna artificiosa manipolazione del testo.
La scelta dei promotori del referendum è stata improntata alla chiarezza della domanda da sottoporre al corpo elettorale: unitaria e onnicomprensiva. Sarebbe contraddittorio ora imputare a tale univoca scelta di volere confondere l’elettore.
Insomma, abbiamo buoni argomenti da far valere dinanzi alla Corte. Poi ad essa, certo, l’ultima parola.
Ultime rapide considerazioni. Siamo dunque in mezzo al guado. Nella fase preparatoria, quella della formazione delle coscienze, che è decisiva in una democrazia riflessiva. Ancor più importante del voto, a cui troppo spesso tutto si vuole ridurre. Una fase in cui tutti – favorevoli e contrari – dovremmo discutere e prendere coscienza. Ma c’è chi ne vuole approfittare e per timore dell’esito vuole compiere atti letali.
Questo è il proposito del Governo e di quattro Regioni, che vogliono dare subito corso alle intese sulle “materie non Lep”, prima del referendum.
Si tratterebbe di una forzatura, il tentativo di porci di fronte al fatto compiuto che in democrazia non è accettabile. Le intese fatte ora in una fase di riflessione e giudizio, prima che si pronunci il giudice e poi il corpo elettorale, è un atteggiamento che dimostra la scarsa sensibilità verso le regole sostanziali della democrazia. Si tratta di una cultura della decisione che è propria di una tradizione di destra, attratta solo dal comando e poco attenta al comandato, refrattaria alle logiche della democrazia rappresentativa, che deve essere arrestata. C’è da rivolgere un appello a fermare quest’accelerazione annunciata, in nome della democrazia pluralista e contro la democrazia decidente.
Concludo. La via è in salita. Noi oggi siamo all’opposizione, minoranza, ne siamo consapevoli, ma siamo anche consapevoli di essere una minoranza critica. E senza queste, ci insegna la storia, non si cambia cultura, non si cambia indirizzo politico, non si cambia la politica. A noi, alle minoranze critiche, spetta – è sempre spettato – il compito di provare a far cambiare rotta e diventare maggioranza consapevole.
Riusciremo nell’impresa? Lo spero, non so. Ma quel che certamente so è che ne vale la pena, per cambiare non solo una pessima legge, ma per cambiare lo stato di cose presenti.
Perché lasciatavi dire che una vittoria al referendum non sarebbe la vittoria di un giorno, ma l’inizio di un nuovo percorso, il plusvalore democratico del referendum finirebbe per travolgere la politica attuale di allontanamento della Costituzione. Non solo l’autonomia differenziata, ma il premierato, la separazione delle carriere, le politiche securitarie verrebbero rimesse in discussione. In questo senso il nostro obiettivo ultimo non è la vittoria al referendum, ma un futuro migliore.
Dobbiamo scalare un monte, ma vi assicuro che solo dalla vetta si possono scrutare i nuovi orizzonti. Vale la pena impegnarsi.
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