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Articolo pubblicato su “Tranform!Italia” il 23.10.2024.

(…) Siamo diventati un Paese triste, codardo e ipocrita. Nell’ultimo anno si sono calpestate molte speranze (…). Siamo una democrazia guasta, dall’alto come dal basso.

Charlotte Wiedemann

Ormai la Germania sembra avvitarsi in una drammatica spirale verso il basso di cui pare ancora poco consapevole. Ancor meno che nel resto dell’Occidente sembra non vi sia contezza della gravità della situazione internazionale né delle sue ricadute a livello europeo e nazionale: tra l’indifferenza nei confronti della catastrofe umanitaria di Gaza, la persistenza di politiche che acuiscono il conflitto in Ucraina, la rincorsa del governo di SPD, Verdi e Liberali sullo stesso terreno dell’estrema destra in ascesa, con la stretta sulle politiche migratorie, il montante bellicismo, tornano in mente tempi bui della storia tedesca. Ciò avviene in un vuoto strategico pressoché totale a fronte di una crisi economica che la presidente della Bce, Christiane Lagarde, in un intervento al Fondo monetario internazionale a Washington, non esita a paragonare a quella degli anni ’20 di un secolo fa.

A quel che sembra un declino da svariati punti di vista sembra contribuire un’intransigenza moraleggiante che si esplicita in una sorta di dispositivi disciplinari, quali la cosiddetta ragione di Stato (Staatsräson) e la politica di austerità.

Staatsräson

Per la polizia tedesca perfino Greta Thunberg è una pericolosa sobillatrice antisemita con predisposizione alla violenza (gewaltbereit), tanto che le è stato vietato di partecipare ad un’iniziativa studentesca a Colonia a sostegno della Palestina. La ragione di Stato sta trascinando il Paese, a cui veniva internazionalmente riconosciuto di aver fatto i conti con il suo genocidario passato nazista, verso forme evidenti di autoritarismo. La Staatsräson, principio introdotto dalla cancelliera Angela Merkel durante un discorso nel 2008, assunto a fondamento stesso dello Stato tedesco, lega indissolubilmente la Repubblica federale al “diritto all’esistenza dello Stato di Israele”, cioè alla difesa incondizionata di Israele. Come scrive Enzo Traverso nel suo “Gaza davanti alla storia” (Laterza 2024), questa operazione “trasferisce il fardello della colpa storica tedesca sulle spalle dei palestinesi, permettendo alla Germania di presentarsi come nemico inflessibile dell’antisemitismo; posiziona chiaramente la politica estera di Berlino nel campo occidentale; infine, segna una svolta xenofoba nella politica interna, trasformando la lotta contro l’antisemitismo in un’arma per disciplinare e mettere in riga gli immigrati e le minoranze identificate con l’Islam. Questo astuto stratagemma permette di difendere gli ebrei discriminando immigrati e musulmani”. Non a caso si evoca sempre più il pericolo del cosiddetto “antisemitismo di importazione”, mentre si chiudono gli occhi di fronte a quello autoctono, bianco e di destra. Il partito di estrema destra AfD ha buon gioco a presentarsi come irremovibile sostenitrice di Israele.

È in corso pertanto, dall’inizio della distruzione sistematica di Gaza da parte di Israele in seguito al massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre dell’anno scorso, una repressione senza eguali delle manifestazioni di solidarietà alla popolazione palestinese. A cadere nella ghigliottina della censura e della diffamazione sono le voci (di dissenso) palestinesi, studenti, ricercatori universitari, addirittura associazioni ebraiche pacifiste e intellettuali progressisti ebrei, anche israeliani, espatriati in aperto dissidio con le politiche del Paese d’origine e sostenitori della causa palestinese, e anche quei rari esponenti politici che “osano” criticare Israele (in ultimo la vicepresidente SPD del Bundestag Aydan Özogun, non a caso turca di seconda generazione). In molti mettono in evidenza il paradosso che si voglia combattere l’antisemitismo con una caccia alle streghe anche contro ebrei ed ebree che denunciano i crimini di Israele secondo i quali “la Germania protegge Israele, non gli ebrei”. Vengono messi alla gogna mediatica professori universitari che, pur non condividendo integralmente le rivendicazioni delle proteste degli studenti, hanno sottoscritto appelli in difesa del loro diritto a manifestare liberamente nelle facoltà, in cui la polizia ha fatto più volte irruzione durante le occupazioni. Il responsabile di UNRWA Philippe Lazzarini, in missione a Berlino per lanciare un appello sulla grave situazione umanitaria a Gaza, è stato accusato dalla stampa propagandista di finanziare Hamas.

Il dispositivo repressivo della ragione di Stato, inconsistente dal punto di vista giuridico, pone di fatto la Germania fuori dallo Stato di diritto, perché si mettono in discussione libertà di espressione e pluralismo, per cui anche indossare una kefiah può ingenerare sospetti di antisemitismo. Intellettuali e esperti di diritto internazionale denunciano il clima di intimidazione che induce all’autocensura (chilling effects) e la doppia morale in tema di diritti umani. Secondo Nahed Samour, ricercatrice alla facoltà di Giurisprudenza della Humboldt-Universität di Berlino, “la Germania deve scegliere se stare con Israele o con il diritto internazionale, con la ragione di Stato o con i diritti fondamentali”.

Oltre alle vere e proprie aggressioni e fermi durante le manifestazioni per lo più pacifiche da parte delle forze dell’ordine a destare inquietudine è quindi la repressione del dissenso nel mondo della ricerca, della cultura, fiore all’occhiello di Berlino, per cui Berlino non sarebbe quel che è diventata, polo di attrazione internazionale di libera espressione artistica, in virtù di generose sovvenzioni pubbliche. Da ottobre dell’anno scorso sono state disinvitate personalità e cancellate iniziative e incontri culturali con acribico accanimento. Si annullano spettacoli teatrali, si rimandano premiazioni di autori e autrici quali la palestinese Adania Shibli, l‘ebrea russo-statunitense (Premio Hannah Arendt) Masha Gessen, rea di un paragone tra Gaza e i ghetti nazisti, e c’è lo stop a Nancy Fraser alla partecipazione di una conferenza all’Università di Colonia. Per non parlare del Congresso sulla Palestina, lo scorso aprile, con tanto di irruzione della polizia per “prevenire istigazioni all’odio contro ebrei e negazione dell’Olocausto” e divieto di ingresso in Germania per due ospiti come Yaris Varoufakis, e il rettore di origine palestinese dell’Università di Glasgow Ghassan Abu Sittah, chirurgo, reduce da una missione umanitaria a Gaza, bloccato dalla polizia all’aeroporto di Berlino e fatto ripartire in giornata.

Oltre alle esperienze di teatro e musica istituzionali e al settore cinematografico, stato ed enti locali sostengono innumerevoli progetti culturali indipendenti. Di fronte alla minaccia di ripercussioni finanziarie, in un settore fortemente sovvenzionato con fondi pubblici e caratterizzato dal precariato come la cultura il ricatto della ragione di Stato pesa come un macigno. Vi sono per fortuna anche delle eccezioni: artisti come Michael Barenboim, musicista affermato e figlio d’arte in tutti i sensi di Daniel, amico del grande intellettuale Edward Said e fondatore con lui della West-Eastern Divan Orchestra (1999), si espongono in prima persona con dichiarazioni pubbliche, conferenze e dando vita a iniziative di solidarietà con Gaza e la Palestina. I tagli, senza precedenti, previsti al bilancio della cultura di Berlino, pari al dieci per cento (120-150 milioni all’anno per i prossimi due anni) non fanno ben sperare.

Migrazione e guerra

SPD e Verdi, sotto assedio da parte di CDU e addirittura dei Liberali, loro alleati di governo, assecondano le pressioni della destra, in piena sintonia con la direzione di marcia europea. Il pacchetto sicurezza appena varato non è che un taglio consistente ai sussidi sociali dei richiedenti asilo, che dovrebbe funzionare come deterrente. Di fatto il diritto d’asilo esiste ormai solo sulla carta. Il Governo respinge sistematicamente le richieste di chi riesce a fuggire da Gaza. Motivazione: “la situazione non è chiara”. I tempi di acquisizione della cittadinanza tedesca sono stati ridotti ma si richiede, tra le altre cose, di riconoscersi nella “responsabilità storica tedesca per il regime nazionalsocialista e le sue conseguenze, in particolare per la protezione della vita ebraica”. Mentre la Sassonia-Anhalt, da un anno, ha posto come presupposto il riconoscimento del “diritto all’esistenza di Israele” e l’assicurazione di avere mai agito contro di esso.

Secondo la ministra degli Esteri verde Annalena Baerbock la Germania difende il diritto all’autodifesa di Israele che “vuol dire non solo attaccare, ma distruggere i terroristi […] e se Hamas si nasconde dietro i civili nelle scuole […] questi luoghi civili possono perdere il loro diritto alla protezione”. Per Baerbock è quindi legittimo massacrare la popolazione civile. Il cancelliere Scholz respinge le accuse di voler rallentare l’invio di armi a Israele, “costretta” a sottoscrivere una garanzia di rispetto del diritto umanitario, ribadendo con il diktat: “Abbiamo fornito, forniamo, forniremo armi a Israele”. La politica di austerità di bilancio esenta solo il Sondervermögen, lo stanziamento di 100 miliardi per il riarmo (di cui per un terzo si giova l’industria bellica statunitense) e anche la militarizzazione retorico-culturale avanza, con il ministro della Difesa Pistorius che vuole una Germania di “efficienza bellica” (kriegstüchtig).

Anche a sinistra, grava l’ipoteca della Staatsräson sulla Linke che, nel dibattito interno, si scontra con giovani e studenti. Non stupisce che una parte di questi non sia soddisfatta del documento di “compromesso” raggiunto a grande maggioranza al recente congresso, in cui, tra l’altro, si esortano “tutte le parti […] a limitare anziché allargare il conflitto” e si afferma che “tutte le parti sono responsabili di gravi crimini di guerra”. In aperta contraddizione si parla poi di “una guerra asimmetrica tra parti non alla pari”. Un ardito esperimento di equilibrismo. Si fa fatica a condividere l’ottimismo e lo slancio trasmessi dalla nuova leadership. Una richiesta di dibattito sulla strategia da seguire viene respinta a maggioranza dei delegati, con pesanti assenze all’ordine del giorno quali l’analisi della batosta elettorale o della fase in corso.

Dall’invasione russa in Ucraina, declinare la pace è diventato imbarazzante. Dal No storico a qualsiasi intervento dei caschi blu, qualcuno è passato al sostegno esplicito dell’invio di armi in Ucraina. In questa eclisse di orientamento, non stupisce il crollo elettorale della Linke, né il successo della neoformazione della fuoriuscita Sahra Wagenknecht (BSW), che fa della fine della guerra in Ucraina e dei negoziati un punto di forza della sua campagna, con il conflitto come concausa della crisi economica.

Austerità e declino industriale

La crisi economica è grande assente anche nell’intervento in Bundestag del cancelliere Scholz, in vista del Consiglio europeo del 17 ottobre, un’occasione per esaltare (masochisticamente) la collocazione atlantica e l’amicizia con Joe Biden, accolto poi in pompa magna con il conferimento della massima onorificenza dal Presidente Steinmeier che lo celebra per il suo brillante rafforzamento della NATO. Poco si dice dell’Europa: necessità di innovazione, modernizzazione, e competitività – enunciazioni prive di qualsiasi aggancio strategico-programmatico o bozza di politica industriale. Eppure dall’industria arrivano segnali inquietanti, in particolare dal settore metalmeccanico (quattro milioni di addetti). Accanto agli annunci delle scorse settimane di chiusura di stabilimenti Volkswagen, secondo il presidente Stefan Wolf di Gesamtmetall, la Federmeccanica tedesca, potrebbero perdersi nei prossimi cinque anni dai 250.000 ai 300.000 posti di lavoro. Le ripercussioni della crisi già si evidenziano in paesi strettamente legati all’economia tedesca come Slovenia, Cechia, Ungheria e Romania, come rileva l’Istituto di Analisi economica comparata internazionale di Vienna, il Wiener Institut für internationale Wirtschaftsvergleiche (wiiw), secondo cui la crisi tedesca pesa “come un macigno” sulle economie di Europa centro-orientale e ne frena la crescita economica. Altri autorevoli istituti, in contrasto con la politica di austerità, sostengono la necessità di avviare un vasto programma di investimento nelle infrastrutture, anche in Germania decisamente malandate. In questo senso l’Istituto per l’Economia tedesca stima siano necessari 600 miliardi da spalmare sui prossimi dieci anni.

Anche nell’industria automobilistica, secondo l’economista Michael Fratzscher, c’è bisogno di “sfruttare la capacità di innovazione per spingere la conversione verso l’elettromobilità e la guida autonoma”, essendo pericoloso e fuorviante credere che il motore termico abbia un futuro”. In effetti a livello mondiale le vetture a benzina o diesel erano pari al 94 percento degli autoveicoli venduti nel 2020, contro il 59 percento del primo semestre del 2024. L’industria automobilistica tedesca sconta la concorrenza cinese nell’elettrico e la sua forte dipendenza dall’export. Nel 2023 su 4,1 milioni di veicoli, 3,1 milioni sono stati venduti all’estero (per il 70 percento del volume d’affari per 190 miliardi, da gennaio a giugno 68,4 miliardi per 1,7 milioni di autovetture vendute). Mentre nel 2010 la quota di mercato in Cina era pari al 23 percento dell’export tedesco, si è scesi intanto al 12-13 percento. Un duro colpo in particolare per la BMW che nel terzo trimestre di quest’anno ha perso il 30 percento del suo mercato in Cina. Volkswagen scende qui dal 19 al 14 percento rispetto al 2018, per una perdita probabile intorno ai 3 miliardi.

Nel mercato interno, il venir meno degli incentivi ha fatto crollare le vendite dell’auto elettrica del 29 percento. L’automotive, secondo settore per addetti, sta lavorando molto al di sotto della sua capacità produttiva (6,2 milioni di veicoli). Da questa dipende il 14 percento dei posti di lavoro (773.000, fino al 2019 erano circa 840.000) senza contare l’indotto. Al primo posto per occupati (952.000) è il settore dell’industria meccanica. Anche nell’indotto del settore auto con 270.000 addetti si temono ripercussioni. Secondo un sondaggio della società di consulenza Horvath il 60 percento delle imprese sta pianificando, da qui al 2028, tagli all’occupazione fino a 14.000 addetti. Guerra e concorrenza estera (cinese), ritardi di investimento stanno portando il vecchio modello industriale ed economico, che faceva affidamento su energia a buon mercato (leggi gas russo), ed export, verso la deriva.

*Dati riportati da: https://industriemagazin.at/news/deutsche-autoindustrie-mit-starkem-umsatzrueckgang/

Un commento a “L’autunno della Germania”

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