La decisione del Tribunale di Roma e l’intervento del Governo: il d.l. n. 158/2024 (c.d. decreto Paesi sicuri)
Le polemiche sulla decisione del Tribunale di Roma di disapplicare – in nome della primazia del diritto UE – le determinazioni del Governo relative all’individuazione dei Paesi di origine sicura ruotano intorno alla possibilità stessa di sindacare “la sicurezza” del Paese di origine, e assume dunque un immediato rilievo per la posizione processuale della persona che richiede protezione internazionale.
Dopo le decisioni assunte dal Tribunale di Roma (che ha sindacato – disapplicandolo – il decreto interministeriale contenente la lista dei c.d. Paesi sicuri), il Governo è intervenuto, adottando un decreto legge che – tra le altre previsioni (qui tralasciate) – cristallizza in un atto avente forza di legge l’elenco dei Paesi designati come di origine sicura. I Paesi di origine sicura da ventidue scendono a diciannove (esclusi Camerun, Colombia e Nigeria; resistono in tale elenco, i “casi romani” del Bangladesh e dell’Egitto).
Il dichiarato intento è duplice: da un lato, conformare il nostro ordinamento alle indicazioni della Corte di giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22 (escludendo dall’elenco dei Paesi sicuri alcuni Stati in cui vi sono parti di territorio riconosciute “non sicure”); dall’altro lato, indurre i giudici – «soggetti alla legge», si ripete come un mantra – a recepire, senza sindacarne il merito, le indicazioni del legislatore in tema di Paesi di origine sicura (d.l. n. 158/2024).
Occorre chiedersi se l’approvazione dell’elenco dei Paesi di origine sicura – munito dell’autorità dell’atto avente forza di legge – muti (e in quali termini) lo scenario che il Tribunale di Roma ha affrontato disapplicando il decreto interministeriale.
Gli sviluppi conseguenti alle decisioni del Tribunale di Roma e agli interventi del Governo stimolano molte riflessioni intorno a temi cruciali per la nostra democrazia: l’approccio del nostro Paese (e non solo) alla questione migratoria; il tema dei rapporti tra il diritto interno e le fonti sovranazionali; il ruolo della giurisdizione, allorché si trova di fronte all’espressione di una volontà politica che si vuole “sovrana”.
Si tratta di temi evidentemente enormi che sarebbe ingenuo pensare di esaurire in poche pagine. Eppure, nella “questione di Albania”, essi emergono in filigrana e sollecitano l’attenzione di chi ha a cuore l’effettività delle tutele poste a presidio dei diritti fondamentali, l’autonomia di chi è chiamato a garantirli e, in definitiva, gli equilibri istituzionali.
La primazia del diritto Ue
Essendovi nella materia in esame considerevoli interferenze tra il diritto interno e il diritto dell’UE, si rende necessaria una breve parentesi sulla questione dei rapporti tra diritto dell’Ue e ordinamento nazionale. Sul piano del diritto interno, gli artt. 11 e 117 della Costituzione impongono alla Repubblica di consentire alle limitazioni di sovranità derivanti dalla collocazione nella comunità internazionale e di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Sul piano del diritto dell’UE, l’articolo 4 del Trattato sull’Unione europea prevede che gli Stati membri «adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione». Si tratta del principio di leale cooperazione, il quale impone allo Stato, inteso come organo esecutivo e legislativo, di dare effettiva attuazione al diritto dell’Unione, al contempo affidando allo stesso Stato, inteso come organo giurisdizionale, il controllo sull’osservanza del diritto dell’Unione all’interno dell’ordinamento.
Conseguentemente, il giudice nazionale, in qualità di giudice comune di diritto europeo, è espressamente incaricato di vigilare sull’applicazione e sull’osservanza del diritto dell’Unione nell’ordinamento giuridico nazionale, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia.
La primazia del diritto dell’Unione costituisce uno degli assi portanti dell’ordinamento giuridico europeo, sino dalla prima fase del diritto comunitario e precisamente a partire dalla storica sentenza della Corte di giustizia, 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. E.N.E.L., la quale ha affermato che «il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa comunità. Il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia».
Quali sono le implicazioni concrete del principio della primazia del diritto UE?
Vi è anzitutto – da parte del giudice nazionale – il dovere di provare ad armonizzare il diritto interno al diritto dell’UE, sperimentando la possibilità di interpretare il diritto interno in maniera comunitariamente orientata (secondo le tecniche interpretative della c.d. interpretazione conforme e della c.d. interpretazione adeguatrice); ciò al fine di garantire che l’interpretazione del diritto interno assicuri il conseguimento del risultato ricavabile dalla lettera e dallo scopo perseguito con la direttiva (principio consolidato; per tutte, CGUE, sesta sezione, sentenza del 13 novembre 1990, Marleasing causa c-106/89 e Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza 16 giugno 2005, Pupino, C-105/03).
Laddove il tentativo di armonizzare per via interpretativa le frizioni e i contrasti tra diritto interno e diritto UE fallisca – ostandovi la lettera della legge – il giudice comune è chiamato ad ulteriori riflessioni.
Nel caso vi sia un conflitto tra una norma dell’Unione che risulti immediatamente applicabile negli Stati membri ‒ perché chiara, precisa e incondizionata ‒ e una norma nazionale, il giudice nazionale, in qualità di giudice comune europeo, dovrà applicare integralmente il diritto dell’Unione e tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, e al contempo disapplicare ‒ o meglio, non applicare ‒ la norma interna contrastante con quella europea, sia essa anteriore o successiva a quest’ultima.
Il sistema della disapplicazione del diritto nazionale contrastante con il diritto (già comunitario e poi) dell’Unione è consolidato nella giurisprudenza della Corte di giustizia, quantomeno a partire dalla sentenza del 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato c. SpA Simmenthal. Il potere di disapplicazione del diritto interno contrastante con il diritto UE dotato di effetto diretto costituisce, ormai da quarant’anni, l’indiscusso sistema di tutela dell’efficacia del diritto dell’Unione nello Stato membro. Si tratta di approdo interpretativo avallato da almeno 40 anni anche dalla Corte costituzionale italiana, a partire quantomeno dalla sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 1984.
Se, dunque, si presenta un conflitto tra disposizioni del diritto dell’Unione dotate di efficacia diretta nello Stato italiano e una norma nazionale – anteriore o successiva – il giudice italiano, in qualità di giudice comune europeo, ha il dovere di applicare la norma europea e di non applicare quella nazionale, dovendo a tal fine verificare che la fonte normativa europea sia chiara, precisa e incondizionata.
Requisiti, questi, che a loro volta possono essere esauditi da diverse tipologie di fonti normative dell’Unione: i Trattati istitutivi e i regolamenti senza dubbio, ma anche le sentenze della Corte di giustizia e, quel che è più importante, le direttive, quando esse: a) siano dotate di tali requisiti di chiarezza e precisione; b) attribuiscano al privato un diritto non condizionato, per la sua esistenza e attuazione, dall’intervento di altri atti dell’Unione stessa o degli Stati membri; c) siano già state recepite dallo Stato, mediante una normativa interna di armonizzazione, o e sia comunque scaduto il termine fissato dall’Unione per il loro recepimento.
L’unica eccezione che può porsi alla disapplicazione del diritto interno contrastante con il diritto UE dotato di effetto diretto è data dalla eventualità che le disposizioni del diritto UE si pongano in contrasto «con i principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona»; in tal caso (e solo in tal caso), sarebbe possibile opporre un controlimite alla penetrazione del diritto dell’Unione nell’ordinamento italiano (cfr. Corte cost., sentenze n. 232 del 1989, n. 170 del 1984 e n. 183 del 1973; evenienza definita «sommamente improbabile» da Corte cost., ord. n. 24 del 2017). In questo caso, peraltro, il giudice comune nemmeno potrebbe opporre direttamente il “contro-limite”, applicando il diritto italiano a detrimento dell’applicazione del diritto UE; in questo caso, infatti, «sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell’ipotesi normativa si realizzi» (Corte cost. ordinanza n. 24 del 2017).
Laddove invece il giudice comune abbia dubbi sull’interpretazione del diritto dell’UE (non essendone eventualmente chiaro il significato o l’attribuzione ad esso di effetto diretto nei Paesi membri dell’UE) – e sempre che il giudice non riesca pertanto a esperire una interpretazione conforme – è possibile (doveroso per i giudici di ultima istanza) sollevare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ultimo giudice, istituzionalmente deputato all’interpretazione del diritto dell’UE.
Vi è un’ulteriore ipotesi da prendere in considerazione. Si tratta del possibile contrasto tra una disposizione di diritto nazionale e una disposizione di diritto dell’UE, già in vigore, ma non dotata di effetto diretto in un Paese membro. È il caso di una direttiva le cui disposizioni non risultino “auto-applicative”. In tal caso, il giudice comune – ancora una volta – non può far finta di niente, ma deve farsi promotore della applicazione del diritto UE in Italia; in questo caso, promuovendo un incidente di legittimità costituzionale che denunci il contrasto tra diritto nazionale e diritto UE (e, dunque, la violazione di un obbligo internazionale che integra una violazione dell’art. 117 Cost.). Anche sotto tale profilo gli assetti giurisprudenziali (della Consulta e della Corte di giustizia UE possono dirsi consolidati).
La primazia del diritto UE, i giudici e il decreto legge n. 158/24 (c.d. decreto Paesi sicuri)
È in queste coordinate concettuali che occorre considerare il caso dell’elenco Paesi sicuri incorporato nel decreto legge n. 158/2024. Le alternative che si porranno ai giudici chiamati ad esaminare casi in cui venga in rilievo la nozione di Paese di origine sicuro sembrano potere essere quattro.
In primo luogo, il giudice potrebbe ritenere che l’elenco dei Paesi sicuri – munito del sigillo di autorità dato dalla forza di legge – sia questione per lui insindacabile. Questo, peraltro, è l’esito esplicitamente auspicato dal Governo.
Ma una simile decisione cozzerebbe irrimediabilmente con le chiare affermazioni della Corte di giustizia nella sentenza del 4 ottobre 2024, in cui la Corte – come già detto – riconosce che il diritto dell’UE attribuisce al giudice il potere di sindacare la “sicurezza” dei Paesi considerati in un elenco, al metro delle indicazioni contenute nell’allegato I della direttiva 2013/32/UE. E cozzerebbe altresì con la consolidata giurisprudenza che – nel nome della primazia del diritto UE – impone al giudice comune di non dare applicazione al diritto interno in contrasto con il diritto UE dotato di effetto diretto.
In secondo luogo, il giudice potrebbe ritenere che l’inserimento di un certo Paese nell’elenco dei Paesi sicuri sollevi un problema di compatibilità tra la legge nazionale e il diritto dell’UE, denunciando alla Corte costituzionale la violazione degli obblighi discendenti dall’appartenenza dell’Italia alla UE.e, segnatamente, dagli obblighi derivanti dalla direttiva 2013/32/UE, che tratteggia i criteri per la designazione di un Paese come di origine sicura.
Ma si tratterebbe di un’opzione che trascurerebbe il fatto che la CGUE ha stabilito in modo non equivoco che il giudice può sindacare la valutazione delle autorità statuali circa la sicurezza di un Paese di origine, e può farlo anche disapplicando il diritto interno contrastante con il diritto UE, in nome della primazia del diritto dell’Unione europea. In questo caso, un eventuale interessamento della Corte costituzionale non risulterebbe pertanto necessario alla luce delle regole che governano l’interazione tra ordinamento interno e diritto UE.
In terzo luogo, il giudice comune – esercitando il potere di sindacato sull’elenco dei Paesi di origine sicura che, secondo la vincolante interpretazione della Corte di giustizia, è conferito all’autorità giudiziaria – potrebbe ritenere che il diritto interno, ancorché avente forza di legge, debba cedere il passo ed essere disapplicato, in nome della primazia del diritto dell’UE.
Ciò in forza della sessantennale giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di primazia del diritto UE evocata nel paragrafo che precede.
E, in questo scenario, ove si condivida l’interpretazione del Tribunale di Roma, secondo la quale non è sicuro un Paese in cui determinate «categorie di persone» sono esposte a rischio di persecuzione, si potrebbe ritenere che l’approvazione del decreto legge n. 158/2024 non possa mutare i termini della questione.
Anche in questo caso, l’affermazione del diritto dell’UE dotato di effetto diretto consentirebbe al giudice di sindacare la “sicurezza” del Paese di origine, come riconosciuto dalla Corte di giustizia nella sentenza del 4 ottobre 2024 causa C- 406/22. Potere di sindacato che comporta, se del caso, il potere/dovere di disapplicare il decreto legge che designi come sicuro un Paese di origine in contrasto con le indicazioni che si leggono nell’allegato I alla direttiva 2013/32/UE.
Non sarebbe il primo – né l’ultimo caso – di disapplicazione di un atto avente forza di legge contrastante con il diritto UE dotato di effetto diretto.
In quarto luogo, a fronte del dubbio interpretativo sollevato dall’Avvocatura dello Stato nel ricorso avverso le decisioni del Tribunale di Roma, il giudice comune potrebbe sollevare un rinvio pregiudiziale per chiedere alla Corte di giustizia se il diritto dell’Unione europea consenta o escluda di qualificare come di origine sicura un Paese terzo in cui anche solo determinate «categorie di persone» sono esposte al rischio di persecuzione, danno grave, ecc.
Quest’ultima è la strada intrapresa negli ultimi giorni dal Tribunale di Bologna, che, con ordinanza del 25 ottobre 2024, ha interpellato la Corte di giustizia su tale specifica questione.
Il Tribunale di Bologna – con un ricco apparato argomentativo – ha infatti sospeso un procedimento pendente, trasmettendo gli atti alla Corte di giustizia, chiedendo se «la presenza di forme persecutorie o di esposizione a danno grave concernenti un unico gruppo sociale (…) escluda la designazione [di un Paese come di origine sicura]».
Per inciso: il Tribunale di Bologna – nel ricordare la tensione istituzionale determinata dalla decisione del Tribunale di Roma e l’approvazione dell’elenco Paesi sicuri con atto avente forza di legge – formula un ulteriore quesito, che chiama esplicitamente in causa il principio di primazia del diritto UE, «se il dovere per il giudice di disapplicare l’atto di designazione [di origine sicura] permanga anche nel caso in cui detta designazione, venga operata con disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria».
Se la risposta al secondo quesito sembra potersi dire scontata, alla luce della sessantennale giurisprudenza euro-unitaria, sarà interessante leggere la risposta della CGUE sul primo quesito, formulato dal giudice al dichiarato fine di ottenere dalla Corte di giustizia un’interpretazione che sia capace di orientare tutta la giurisprudenza dei giudici comuni.
Qualche riflessione sulle nostre istituzioni
La vicenda della designazione dei Paesi di origine sicura dice qualcosa anche sul funzionamento delle istituzioni repubblicane. Pochi flash.
Primo. In coerenza con un trend mondiale, la contesa politica continua a trovare un punto di discrimine nell’approccio alla questione migratoria, spesso giocando sulle paure sapientemente alimentate dell’opinione pubblica; ciò sino al punto di insistere con sempre maggior convinzione su un processo di esternalizzazione delle frontiere, che spesso finisce con il comprimere in modo significativo i diritti delle persone che migrano, e sino al punto di confondere categorie giuridiche tra loro profondamente eterogenee, come per esempio, la distinzione tra richiedenti protezione internazionale e immigrati irregolari, sbrigativamente bollati come clandestini.
La differenza tra le due categorie è enorme. E nel discorso pubblico, ciò non dovrebbe essere in alcun modo trascurato. Lo sapevano bene i padri costituenti, molti dei quali, costretti a fuggire dall’Italia nel corso degli anni del regime fascista per richiedere asilo altrove. Non è un caso che i costituenti abbiano dedicato nel testo della Carta costituzionale una maggiore attenzione al diritto di asilo rispetto alla disciplina del fenomeno migratorio.
Secondo. Le reazioni delle istituzioni politiche alle decisioni del Tribunale di Roma – oltre alle gratuite contumelie – sono state tutte informate alla affermazione di un principio: le decisioni sulle politiche migratorie sono prerogativa delle autorità politiche (legislatore e governo); non possono essere i giudici a sindacare le determinazioni delle autorità politiche, legittimate dall’investitura elettorale.
Questo tipo di argomenti, tuttavia, trascura molti elementi di equilibrio istituzionale che la Repubblica dovrebbe gelosamente conservare.
Se è vero che le autorità politiche sono chiamate a fare scelte e a esprimere “scelte e linee di indirizzo politico”, in quanto legittimate dal corpo elettorale, è altrettanto vero che la «sovranità popolare» deve essere esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione». In altri termini: la Costituzione ci dice – già nel primo articolo – che la stessa idea di sovranità porta con sé l’idea di limite.
E – piaccia o no – quel limite esiste: si tratta della vigilanza sulla possibilità di effettivo accesso al diritto di asilo, nel rispetto delle prescrizioni costituzionali (art. 10 Cost.), del diritto UE (art. 18 CDFUE e direttiva 2013/32/UE) e del diritto internazionale pattizio (per tutte, la Convenzione di Ginevra).
Chi debba vigilare sul rispetto del limite da parte dell’autorità politica che si vuole sovrana è presto detto: si tratta di un compito che non può che ricadere nel perimetro di responsabilità istituzionale della giurisdizione (soggetta alla legge, ma anche alla Costituzione e al diritto UE, dotato di primazia). Per questo è cruciale l’autonomia e l’indipendenza della magistratura: si tratta di precondizioni necessarie a garantire che nessuna sovranità sia illimitata. Evocare Montesquieu – e la necessità di un «potere che arresti il potere» – non è un fuor d’opera.
Terzo. Si dice: le politiche migratorie sono prerogativa delle autorità politiche (legislatore e governo); non possono essere l’UE e tantomeno la Corte di giustizia a etero-determinarle, perché si tradirebbe la volontà sovrana del popolo italiano. Tanto che – mentre si scrivono queste note – circola la notizia secondo cui alcuni esponenti di maggioranza avrebbero annunciato la volontà di presentare emendamenti a un disegno di legge costituzionale in corso di esame per affermare la prevalenza del diritto interno sul diritto dell’UE.
Si tratta di un approccio esplicitamente sovranista al tema della appartenenza del nostro Paese all’Unione europea; approccio che, però – ove si decida di perseverare per questa strada – metterebbe in discussione l’architettura istituzionale su cui si fonda l’UE.
Ciò prefigura l’eventualità non remota di aspri momenti di conflitto tra il nostro Paese e le istituzioni europee. Non si può infatti trascurare che, proprio su una questione simile, la Commissione europea ha negli ultimi anni ingaggiato un’aspra battaglia legale davanti alla Corte di giustizia nei confronti della Polonia, in cui una sentenza della Corte costituzionale polacca aveva affermato – plaudente il Governo sovranista – la prevalenza del diritto nazionale sul diritto UE. E analoghe frizioni si sono registrate tra istituzioni europee e l’Ungheria. Potremmo essere i prossimi.
Ecco perché la vicenda del trattenimento di dodici richiedenti asilo in Albania è un passaggio estremamente delicato. La questione dei Paesi sicuri ci dice molto del nostro approccio al fenomeno migratorio; ma ci dice molto anche sull’idea che le nostre istituzioni hanno della «sovranità popolare», della considerazione che si nutre dei limiti posti a quest’ultima, della considerazione che si ha dell’autonomia della giurisdizione, del rilievo che si dà all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
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