Articolo pubblicato su “Atlante” l’08.11.2024.
Nelle campagne elettorali americane si parla spesso di una “October Surprise”, un qualche evento ‒ uno scandalo, una catastrofe naturale, un’impresa militare ‒ che a qualche giorno dal voto di novembre può influenzare il risultato delle elezioni e rovesciare le previsioni.
Questa volta non c’è stata alcuna sorpresa di ottobre. La vera sorpresa è arrivata a novembre, il giorno delle elezioni. Ancora il giorno prima il New York Times scriveva di una «gara sul filo di lana» Harris e Trump. Tutti i sondaggi più autorevoli spiegavano come nei sette Swing States (gli “Stati altalenanti” che prima votano per un partito e poi per l’altro) decisivi nell’assegnare la vittoria i margini tra i due candidati erano pressoché zero ed era impossibile prevedere chi avrebbe vinto. Gli analisti più perspicaci azzardavano la previsione che Harris avrebbe potuto vincere negli Stati del Nord, il cosiddetto “muro blu” (il blu è il colore dei democratici: il Wisconsin, il Michigan e la Pennsylvania; mentre Trump, forse, sarebbe stato in vantaggio negli Stati della sun belt, la “cintura del sole” costituita da Nevada, Arizona, Georgia, Carolina del Nord). Tutti gli altri 43 Stati registravano ampi margini di differenza tra i due candidati ed erano quindi assegnati in partenza o all’uno o all’altro.
Si prevedeva anche che proprio a causa di questi margini così ristretti negli Swing States il conteggio dei voti, soprattutto di quelli ‒ un buon 30% del totale ‒ arrivati per posta, sarebbe stato lungo e laborioso provocando incertezze sul vincitore per molte ore o addirittura giorni dopo la chiusura dei seggi. Per lo stesso motivo erano già pronti stuoli di avvocati di entrambi i partiti per contestare i singoli voti (soprattutto quelli per posta), le regole per la vidimazione delle schede e intentare cause legali che avrebbero potuto trascinare la proclamazione del risultato addirittura fino all’11 dicembre, l’ultima data prevista dalla legge. A tutto ciò si aggiungeva la concreta possibilità che in quegli Stati in cui il margine di vittoria di un candidato fosse stato inferiore a mezzo punto percentuale si sarebbe dovuto procedere alla riconta manuale delle schede, con ulteriori ritardi.
E invece niente di tutto questo è successo. Già dalle prime ore della notte del 5 novembre la Associated Press, che di fatto funge da ente certificatore (i risultati ufficiali da parte della Commissione elettorale federale arrivano solo diverse settimane dopo) annunciava che Trump aveva vinto tre degli Stati chiave, la Georgia, la Carolina del Nord e la Pennsylvania, superando così la maggioranza di 270 voti del collegio elettorale e sarebbe quindi diventato il 47° presidente degli Stati Uniti.
Nel giro di poche ore i risultati che via via pervenivano lo vedevano vincente anche negli altri Swing States del Nord, il Wisconsin e il Michigan; si attendono ancora i risultati del Nevada e dell’Arizona, ma il suo vantaggio a spoglio quasi terminato è tale che con ogni probabilità Trump conquisterà anche quelli.
Quello che è interessante notare è che negli Stati in cui Harris veniva data in vantaggio di uno o due punti Trump ha invece vinto lui di uno o due punti, superando di diversi punti il modesto vantaggio che gli veniva attribuito negli Stati del Sud. Insomma, gli Swing States, peraltro quasi tutti vinti da Biden nelle elezioni del 2020, si sono rivelati alla prova dei fatti dei red States (il rosso è il colore dei repubblicani).
Anche a livello nazionale si è verificato qualcosa di analogo e di imprevisto, almeno dai sondaggi. Fino a poche settimane fa Harris veniva data in testa nel voto popolare di 2-3 punti percentuali rispetto a Trump. Poi, negli ultimi giorni il margine si era ristretto e i due erano ritornati alla pari. La realtà del 5 novembre fornisce invece un quadro completamente diverso. Non ci sono ancora dati definitivi, ma quanto ai voti Harris avrebbe preso circa il 47,5% rispetto al 51% di Trump: una differenza di quasi quattro punti in meno! Anche i dati sull’affluenza alle urne sono solo parziali, ma dovrebbero assestarsi a un livello simile a quello del 2020, intorno al 66,5%, una percentuale molto alta per le elezioni americane. Lo spoglio dei voti non è ancora completato (siamo all’87%), ma se le proiezioni saranno confermate Harris dovrebbe avere ottenuto circa 78 milioni di voti contro gli 83,5 milioni di Trump: circa 5 milioni di voti in meno. Soprattutto Harris avrebbe preso ben 4 milioni di voti in meno di Joe Biden nelle elezioni del 2020, mentre Trump ne avrebbe presi, sempre rispetto alle elezioni del 2020, oltre 8 milioni in più.
Questi numeri raccontano tre cose. La prima è che i sondaggi ‒ parliamo della immensa macchina di migliaia e migliaia di sondaggi condotti da mesi da decine di società specializzate in ogni angolo del Paese e per ogni segmento della popolazione ‒ ancora una volta si sono sbagliati: si erano sbagliati nel 2016 sottovalutando la forza di Trump, si sono sbagliati nel 2020 sottovalutando quella di Biden, si sono sbagliati nel 2022 sopravvalutando la forza dei repubblicani, si sono sbagliati di nuovo quest’anno sottovalutando clamorosamente la forza di Trump e dei repubblicani.
Le cause di questi errori di valutazione non sono soltanto tecniche: la prima è il fatto ‒ ben noto agli operatori del settore ‒ che normalmente solo circa un sesto degli interpellati accetta di rispondere alle domande dell’intervistatore; alcune correzioni sono state ideate per compensare questo fenomeno che riguarda soprattutto una categoria di persone, quelle meno interessate alla politica, ma che comunque spesso finiscono col votare: di costoro e dei loro orientamenti non si sa nulla; si possono solo fare supposizioni. Oltre ai fattori tecnici c’è nei sondaggi politici (e non solo) un elemento che li rende comunque autorevoli per il grande pubblico indipendentemente dalla loro attendibilità reale (spesso spiegata in minuscole note a piè di pagina): ed è l’effetto ottico provocato dalla “magia” dei numeri che sembrano mettere ordine dove c’è disordine, certezza dove c’è aleatorietà, decisione dove c’è indecisione. Qualche volta funziona, molto spesso no.
C’è tuttavia un’altra causa ancora più importante che spiega il fallimento dei sondaggi che hanno preceduto il 5 novembre: la “magia dei numeri” ha avuto l’effetto di rendere ciechi rispetto a quello che sta succedendo sottotraccia nella società, che non viene visto perché magari ancora non si manifesta verbalmente e neppure a livello di consapevolezza, ma che è lì. Prendiamo il caso in esame.
Sono decenni, almeno dalla prima elezione di Barack Obama nel 2008, che tra gli strateghi del Partito democratico si è venuto affermando il concetto di una “emergente maggioranza democratica” costituita da donne, giovani istruiti, neri, ispanici, una maggioranza destinata a crescere anche solo per motivi demografici, che avrebbe dovuto soppiantare la vecchia contrapposizione tra destra e sinistra e tra lavoratori manuali e lavoratori intellettuali, e restituire ai democratici il primato negli Stati del Sud che avevano perso nel corso degli anni Settanta a causa delle leggi sui diritti civili volute da Kennedy prima e Johnson poi.
Ruy Teixeira e John Judis, gli ideatori del concetto, pensavano che il nuovo partito democratico dovesse costituirsi intorno a una “grande tenda” (l’espressione era di Larry Sabato) non ideologica e aperta alla diversità dove potessero trovare posto i nuovi diritti di uguaglianza di razza e di genere e le nuove generazioni del lavoro immateriale. Ed effettivamente per un periodo questa nuova strategia permise di allargare la base elettorale del partito, almeno finché continuò a conservare anche la sua base tradizionale fatta di lavoratori manuali e di immigrati.
Ma quando, nei decenni successivi, la speculazione finanziaria, gli eccessi del neoliberismo e della globalizzazione acuirono a dismisura il divario tra ricchi e poveri, provocando al contempo perdita di posti di lavoro salariati non compensati dai nuovi lavori “intellettuali”, e quando in conseguenza delle devastazioni provocate dal riscaldamento climatico e dall’instabilità geopolitica aumentò negli Stati Uniti e in Europa l’immigrazione dai paesi del sud del mondo ‒ anche il modello politico della “emergente maggioranza democratica” entrò in crisi.
Finché nel 2016 a interpretare il crescente malessere sociale, il senso di insicurezza e il desiderio di rivalsa di crescenti masse della popolazione arrivò Donald Trump, con le sue ricette semplicistiche ma di sicuro richiamo: costruire un “bellissimo” muro per fermare i disperati che premevano dal confine con il Messico e imporre dazi sulle importazioni per riportare il lavoro in patria. Quattro anni dopo “Scranton Joe” Biden, con i suoi modi più o meno autenticamente vicini al sentire popolare, riuscì per un breve periodo ad arginare il nazionalismo populista montante, senza tuttavia riuscire a risolvere in radice il problema; che invece durante il suo mandato si è aggravato con una crescente disaffezione nei confronti del “sistema”, della politica, delle elite intellettuali, degli esperti in genere ‒ certo alimentata dalla propaganda e dalla consapevole disinformazione, ma che era comunque penetrata negli strati profondi della società, non solo nelle zone rurali del Sud e del Midwest, ma un po’ ovunque nelle città e nei suburbs abitati dal mitico ceto medio colpito dalla perdita di status, di reddito e di identità sociale.
Questo spiega la singolare cecità con cui non solo i sondaggisti ma gi strateghi della politica democratica si sono tuffati in queste elezioni. Alla gente che diceva che i problemi più pressanti erano l’economia (non la macroeconomia, ma il rincaro dei generi alimentari) e l’immigrazione, si rispondeva che l’inflazione era sotto controllo e l’immigrazione lo sarebbe stata, se solo Trump non avesse bloccato una legge bipartisan volta ad arginarla. Si sollevava (giustamente) il pericolo rappresentato dalle pulsioni autoritarie di Trump e dalle sue minacce di non meglio precisate vendette nei confronti degli oppositori, si puntava il dito contro la deriva dell’uomo forte al comando, ma si ignorava la paralisi del sistema istituzionale, che dura da decenni, e l’incapacità di risolvere i problemi di sempre: le stragi provocate dalle armi da fuoco, l’epidemia degli oppioidi, l’immigrazione clandestina, i bassi salari di tanti a fronte delle immense ricchezze di pochi. Si è giustamente posto l’accento sul diritto delle donne a essere padrone delle proprie scelte riproduttive, e la questione è stata posta al centro della campagna elettorale, ma il risultato però è stato che moltissime donne hanno votato a favore dei numerosi referendum pro-aborto che si sono tenuti in vari Stati, e contemporaneamente hanno votato per Trump.
La “sorpresa di novembre” non è stato quindi un incidente di percorso della “emergente maggioranza democratica”. È stato il preciso segnale che quella maggioranza non esiste più e che sta per essere sostituita da una nuova ‒ anch’essa emergente ma ben più pericolosa ‒ maggioranza repubblicana dominata dall’autoritarismo, dal potere dei soldi, dal disprezzo nei confronti dei più deboli, delle donne e delle minoranze, una maggioranza che è destinata a durare finché i democratici non troveranno una nuova strategia per rispondere alle legittime, per quanto fuorviate, aspirazioni del popolo statunitense.
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